Diritto processuale penale: Titolo esecutivo e esecuzione
di Angelo Alessandro Sammarco
1. L'inizio della fase esecutiva: il giudicato formale. Dal complesso degli artt. 656 c.p.p. e seguenti emerge che l'inizio della vicenda esecutiva scaturisce da un'attività di collazione di documenti attestanti l'esistenza di determinate situazioni giuridiche (ad esempio, l'irrevocabilità della sentenza emessa a conclusione del giudizio di cognizione ex art. 648 c.p.p.) a cura dell'ufficio del pubblico ministero presso il giudice dell'esecuzione e dall'emissione di un ordine (ad esempio di carcerazione) da parte dello stesso magistrato del pubblico ministero titolare dell'azione esecutiva[1].
In altri termini, è sufficiente che, da un lato, siano completate le necessarie attività di raccolta di informazioni e di formazione della documentazione, e, dall'altro, che il magistrato del pubblico ministero provveda con il proprio ordine di esecuzione, perché si realizzi in concreto il comando contenuto nel provvedimento giurisdizionale "esecutivo" (ad esempio, nel caso della sentenza di condanna a pena detentiva, perché si dia effettiva esecuzione alla pena mediante carcerazione).
Questa situazione è caratterizzata dalla mancanza di controllo giurisdizionale e dalla natura meramente "cartolare" della realtà giuridica che prelude all'esecuzione.
Risulta infatti evidente che la sola iniziativa dell'organo dell'accusa esplica l'effetto di dare inizio all'esecuzione del provvedimento giurisdizionale, anche quando, in ipotesi, l'iniziativa stessa fosse erronea o invalida[2]. Qualunque sia il contenuto dell'ordine del magistrato del pubblico ministero, la vicenda esecutiva ha comunque inizio ed ogni eventuale questione che ne possa interrompere o sospendere il corso è necessariamente rimandata ad un intervento giurisdizionale che si svolge successivamente e neppure in tempi rigorosamente definiti, non essendo previsto nemmeno un tempo minimo per l'instaurazione del procedimento ex art. 666 c.p.p.[3]
Si potrebbe discutere a lungo sulla convenienza di un sistema che appare troppo sbilanciato a favore dell'accusa e che finisce per essere troppo simile al famigerato istituto di stampo inquisitorio della consegna del condannato "al braccio secolare", ma è certo che, dal punto di vista della presente trattazione, la semplice eventualità del controllo giurisdizionale implica che le situazioni giuridiche che danno origine al titolo esecutivo sono immediatamente efficaci nella loro semplice rappresentazione documentale: è sufficiente cioè, che il provvedimento divenuto definitivo sia documentato nel suo estratto e che il computo della sanzione da eseguire sia documentalmente espresso, perché, con il provvedimento di esecuzione del magistrato del pubblico ministero, la vicenda esecutiva abbia un valido inizio.
Sotto questo aspetto, va considerato che l'inizio dell'esecuzione è legato alla mera "apparenza" giuridica di determinate situazioni processuali che non contano per la loro effettiva realizzazione, ma, semplicemente, per la loro realtà "cartolare"[4]. Dunque, nella fase prodromica all'esecuzione, il titolo esecutivo e il giudicato che ne costituisce il presupposto, assumono una consistenza meramente "formale" o "cartolare", legata alla mera "esistenza" quale risultato di un' "apparenza" documentale.
L' "esistenza" documentale del titolo e la natura meramente formale del giudicato sono pertanto situazioni distinte dalla validità/efficacia del titolo e del giudicato; il che significa che la vicenda esecutiva è idealmente scomponibile in due fasi: una fase iniziale, legata alla semplice esistenza documentale e formale del titolo esecutivo e del giudicato che ne costituisce il presupposto; una seconda fase, successiva ed eventuale, di carattere giurisdizionale, ed attivabile a norma dei menzionati artt. 666 e 670 c.p.p., nella quale si verte sul tema della validità ed efficacia di titolo e giudicato.
Si torna, per un'altra via, allo stesso risultato: la vicenda esecutiva di per sé scaturisce, come conseguenza necessaria, dal perfezionamento di determinate fattispecie processuali (ad esempio la conclusione del processo di cognizione con sentenza divenuta irrevocabile ex art. 648 c.p.p.); non sono previsti controlli preventivi di carattere giurisdizionale; è sufficiente la sola iniziativa dell'ufficio del pubblico ministero che agisce quasi come organo di natura amministrativa, portatore di un potere di attuazione pratica del comando contenuto nel provvedimento del giudice. Questo complesso di situazioni giuridiche, se da un lato rappresenta la scoria di un'epoca, neppure troppo lontana, nella quale la fase dell'esecuzione era ritenuta di natura puramente amministrativa ed in quanto tale extragiurisdizionale[5], da un altro lato, rende indiscutibile la netta scansione tra momento "amministrativo", caratterizzato dalla sola esplicazione della forza attuativa del comando contenuto nel dispositivo del provvedimento da eseguire e momento giurisdizionale dedicato al controllo, secondo i principi e le garanzie propri della giurisdizione, delle situazioni giuridiche che nella loro mera apparenza documentale hanno legittimato l'inizio dell'esecuzione.
2. Giusto processo nella fase dell'esecuzione. Come è noto l'art. 111 Cost., quale modificato dall'art. 1 della legge cost. n. 3 del 18 ottobre 2001, prevede i principi del giusto processo, riferiti ad ogni forma di processo (co. 2) e, specificamente, al processo penale (co. 3, 4, 5).
Non vi possono essere dubbi circa l'applicabilità dei principi del giusto processo alla fase dell'esecuzione che certamente rientra nel processo penale, rappresentandone anzi uno "stato", che può essere successivo alla pronuncia della sentenza definitiva, o incidentale, quando sia riferito a provvedimenti esecutivi all'interno del procedimento principale di cognizione[6].
E' allora evidente che anche in sede di controllo del titolo esecutivo tali principi debbono essere presi in considerazione.
Sotto questo aspetto, la disciplina vigente suscita alcune perplessità, posto che, in effetti, le regole del giusto processo non appaiono compiutamente trasfuse nel procedimento di esecuzione che, come detto, costituisce lo strumento giurisdizionale di controllo del titolo esecutivo.
Dubbi di incostituzionalità potrebbe porre la disciplina dell'esecuzione quanto al principio della parità delle parti.
Infatti, in fase di esecuzione il pubblico ministero è titolare di funzioni ulteriori a quella del semplice esercizio del contraddittorio, spettante all'"imputato", al "condannato", alla "parte privata" o all'"interessato" (termini con i quali è, di volta in volta, designato il soggetto privato che partecipa alla fase dell'esecuzione) quali: a) la funzione di attuazione dell'esecuzione; b) di sospensione dell'esecuzione, c) di svolgimento delle indagini in casi particolari (come ad es. nel caso di accertamenti sul dubbio dell'identità fisica del condannato, ex art. 667 comma 2 c.p.p.).
Se dunque vi è sicuramente una manifesta sproporzione tra i poteri e le funzioni del pubblico ministero e i poteri e le funzioni della parte privata e del suo difensore, ciò, tuttavia, non significa che l'osservanza del principio della parità delle parti non possa essere commisurato, e quindi valutato, rispetto al solo ambito dei diritti e delle facoltà riconosciuti alla parte privata.
Insomma, nel processo di esecuzione si realizza un modello analogo a quello previsto per il processo di cognizione, nel cui ambito agisce un organo, appunto il pubblico ministero, che svolge una serie di funzioni giudiziarie e amministrative anche direttamente incidenti sulla sfera della libertà personale dell'interessato (si pensi, ad esempio, all'ordine di carcerazione) che certamente non spettano ad alcun soggetto privato coinvolto nella fase dell'esecuzione.
Il problema è generale ed investe la complessiva collocazione dell'organo del pubblico ministero all'interno dell'ordinamento processuale; sicché le attuali ambiguità funzionali del pubblico ministero sembrano risolvibili soltanto con interventi di tipo strutturale che puntino alla distribuzione delle varie funzioni processuali, oggi concentrate nel pubblico ministero, tra i diversi organi operanti all'interno della dinamica processuale, in modo da modellare la figura del pubblico ministero come quella di autentica parte[7].
Perplessità ulteriori sorgono con riferimento al principio di imparzialità e terzietà del giudice.
Si è già in precedenza osservato che la regola generale della determinazione della competenza funzionale a conoscere dell'esecuzione, attribuita al giudice che ha emesso il provvedimento (cfr. art. 655 c.p.p.) appare in contrasto con il principio di "imparzialità" che si riferisce alla posizione istituzionale ed esterna del giudice che non può essere portatore di interessi diversi da quello, astratto e impersonale, dell'esclusiva applicazione della legge: nel caso di specie, il giudice che è autore di un provvedimento, nella valutazione delle questioni concernenti l'esecuzione, potrebbe essere animato da un interesse di tipo "conservativo" del provvedimento stesso per non mettere in discussione il proprio operato[8].
Dunque, la regola di determinazione del giudice dell'esecuzione non sembra rispettare il principio di imparzialità sancito dall'art.111 Cost.
Si pongono evidenti problemi di incostituzionalità anche con riferimento al principio di terzietà del giudice, che, riferendosi alla posizione interna nel processo, indica il dovere del giudice di mantenersi equidistante dalle parti, evitando di assumere funzioni o comportamenti propri di queste ultime[9].
Infatti, alcune previsioni normative, come quelle ad esempio, in tema di procedimento di esecuzione (artt. 666 comma 5, c.p.p.) o di accertamento del dubbio sull'identità fisica del condannato (art. 667 c.p.p.), attribuiscono al giudice dell'esecuzione poteri di indagine e di decisione, configurando una sorta di moderno inquisitore.
In questi casi, è innegabile l'esistenza di un contrasto con il principio di terzietà del giudice, quale previsto dall'art. 111 Cost.
Per quanto concerne i principi del giusto processo, specifici per il processo penale, i commi 3 e 4 dell'art. 111 Cost., prevedono il diritto alla prova della "persona accusata di un reato", inteso come "facoltà, davanti al giudice, di interrogare o di far interrogare le persone che rendono dichiarazioni a suo carico, di ottenere la convocazione e l'interrogatorio di persone a sua difesa nelle stesse condizioni dell'accusa e l'acquisizione di ogni altro mezzo di prova a suo favore".
Non vi è dubbio che questa previsione non può riguardare la fase esecutiva, posto che il titolare dei diritti menzionati è, come si è visto, la "persona accusata di un reato".
In pratica, una simile espressione appare difficilmente riferibile al condannato con sentenza definitiva che non può più essere considerato semplicemente come "accusato di un reato".
Se però il "titolo esecutivo" concernesse l'esecuzione di un provvedimento emesso in una fase incidentale del procedimento principale di cognizione pendente nei confronti quindi della "persona accusata di un reato" e cioè dell'imputato, allora quest'ultimo, anche nel procedimento di esecuzione, dovrebbe godere delle garanzie minime sancite nel comma 3 dell'art. 111 Cost.
Pertanto, paradossalmente, l'eventuale problema di incostituzionalità con riferimento al mancato rispetto del comma 3 dell'art. 111 Cost., potrebbe porsi per il solo caso dell'incidente di esecuzione instaurato prima della conclusione del processo principale con sentenza definitiva, e non per il caso, ben più rilevante, dell'attivazione dell'incidente di esecuzione, nelle situazioni, drammatiche e complesse, che potrebbero riguardare il condannato con sentenza definitiva.
E così resterebbe incomprensibile la ragione per la quale il comma 3 dell'art. 111 Cost., non dovrebbe estendere la propria sfera di applicazione sino a comprendere l'intera esecuzione.
Naturalmente, simili difficoltà interpretative nascono dalla mancata considerazione della giurisdizione come un complesso operativo unitario comprensivo tanto della sfera della cognizione, quanto della sfera dell'esecuzione. E' certamente vero che l'art. 111 Cost. riguardando la giurisdizione in generale riguarda anche la giurisdizione "esecutiva"; ma è altrettanto vero che l'art. 111 Cost. appare modellato sull'unico schema del giudizio di cognizione, senza i necessari riferimenti, al procedimento giurisdizionale di esecuzione.
In ogni caso, il comma 4 dell'art. 111 Cost., prevedendo "il contraddittorio nella formazione della prova", come metodo proprio e specifico del "processo penale", risulta immediatamente riferibile anche al momento giurisdizionale della fase esecutiva (procedimento di esecuzione ex art. 666 c.p.p.).
Eppure, nonostante che il dettato costituzionale dia una chiara indicazione di carattere generale sul contraddittorio, inteso come regola imprescindibile di acquisizione della prova, le disposizioni in tema di accertamento probatorio nel procedimento di esecuzione (art. 666 comma 5 c.p.p.) sono invece, sul punto, estremamente lacunose, prevedendo un semplice "contraddittorio", affidato all'iniziativa discrezionale del giudice procedente e non legato alla "formazione della prova".
Sotto questo aspetto, sembrerebbe quindi evidente il contrasto con il comma 4 dell'art. 111 Cost[10].
3. Giudice dell'esecuzione. L'art. 665 c.p.p. prevede, come regola generale per l'individuazione del giudice competente a conoscere dell'esecuzione di un provvedimento, il giudice che lo ha deliberato (comma 1)[11].
In caso di appello se il provvedimento è stato confermato o riformato soltanto in relazione alla pena, alle misure di sicurezza o alle disposizioni civili, è competente il giudice di primo grado; in ogni altro caso è competente il giudice di appello (comma 2).
In caso di ricorso per cassazione rigettato o dichiarato inammissibile o quando la corte ha annullato senza rinvio, è competente il giudice di primo grado, se il provvedimento impugnato era inappellabile o se il ricorso era stato proposto ai sensi dell'art. 569 (ricorso per saltum); in ogni altro caso è competente il giudice individuato secondo le regole già indicate (comma 3).
Quando l'esecuzione riguardi più provvedimenti emessi da giudici diversi, è competente il giudice che ha emesso il provvedimento divenuto irrevocabile per ultimo (comma 4). Quando si tratti di provvedimenti emessi da giudici ordinari e speciali oppure dal tribunale in composizione monocratica e collegiale, prevalgono, rispettivamente, il giudice ordinario e il giudice collegiale.
Come si vede, la regola generale prevista per la determinazione della competenza del giudice dell'esecuzione è ancorata allo svolgimento delle funzioni giurisdizionali nell'ambito del giudizio di cognizione[12].
Questo criterio è così accentuato nella previsione normativa, che, ai fini dell'attribuzione della competenza per l'esecuzione, è irrilevante persino l'esame della res iudicanda con riferimento all'aspetto della pena, delle misure di sicurezza o delle disposizioni civili: occorre, infatti, una vera e propria conoscenza di merito, approfondita e manifestata in uno dei vari provvedimenti suscettibili di esecuzione.
Si tratta di una regola opposta a quella prevista dall'articolo 34 c.p.p. che stabilisce il divieto di esercizio delle funzioni di giudice quando in un grado nel procedimento la stessa persona abbia pronunciato o concorso a pronunciare sentenza.
Indubbiamente,una simile scelta legislativa, appare in contrasto con il principio di imparzialità del giudice previsto dall'articolo 111 Cost[13].
È probabile, tuttavia, che il legislatore, peraltro in un periodo nel quale l'attuale testo dell'art. 111 Cost. non era ancora entrato in vigore, con riferimento all'esigenza della tutela dell'imparzialità del giudice (che ha ritenuto di riservare al giudizio di cognizione) ha preferito la diversa esigenza dell'affidamento del compito dell'esecuzione di un provvedimento a colui che già conosce completamente la vicenda sostanziale e processuale che ha dato luogo al provvedimento stesso.
La regola della competenza per l'esecuzione in base al criterio del giudice che ha deliberato il provvedimento divenuto esecutivo per ultimo, appare quindi dettata dall'esigenza di "completezza di informazione" da parte del giudice incaricato dell'esecuzione: si immagina, cioè, che proprio il giudice che abbia emesso il provvedimento divenuto irrevocabile per ultimo, sia colui che meglio conosce la vicenda che ha dato luogo all'esecuzione, avendo avuto a disposizione la documentazione completa relativa ai precedenti processi della persona nei cui confronti deve svolgersi l'esecuzione.
Tuttavia, come è noto, le vicende giudiziarie seguono percorsi imprevedibili determinati da eventi a volte assolutamente casuali; sicché, può accadere che divenga giudice dell'esecuzione proprio colui che si è occupato della vicenda più vecchia e che quindi nel corso del giudizio non abbia avuto a disposizione la documentazione relativa agli episodi criminosi successivi a quello oggetto del provvedimento, solo per caso divenuto irrevocabile per ultimo.
Sul piano pratico, il criterio di cui al comma 4 dell'art. 665 c.p.p., determina notevoli problemi, soprattutto quando, per effetto della sopravvenuta irrevocabilità di un provvedimento da eseguire, si debba spostare la competenza del giudice dell'esecuzione. In tale ipotesi, il giudice che abbia proceduto fino ad un dato momento, dovrà trasmettere gli atti ad altro giudice, con l'immaginabile dispendio di tempo e di energie processuali[14].
In ogni caso, la regola della "mobilità" della competenza per l'esecuzione determina forti dubbi di illegittimità costituzionale con riferimento al principio della precostituzione del giudice naturale ai sensi dell'art. 25 Cost.
Non sembra infatti possibile determinare il giudice competente per l'esecuzione, in anticipo rispetto alla vicenda oggetto di giudizio, poiché, come si è detto, potrebbe certamente accadere che la competenza inizialmente attribuibile ad un certo giudice, per effetto di circostanze assolutamente imprevedibili e casuali, debba essere invece spostata in capo ad altro giudice, collocato in un luogo diverso da quello originariamente individuabile o individuato.
4. Procedimento di esecuzione. L'istituto[15] ha carattere generale e può essere attivato in qualunque momento dal P.M. dall'interessato (quindi non solo dall'imputato o dal condannato, ma anche da un terzo che sia portatore di una situazione giuridica tutelata[16].
Il giudice dell'esecuzione ha il potere di dichiarare inammissibile la richiesta di incidente di esecuzione, quando "appaia manifestamente infondata per difetto delle condizioni di legge ovvero costituisce mera riproposizione di una richiesta già rigettata, basata sui medesimi elementi".
E' prevista una valutazione preliminare di ammissibilità sulla base del parametro della manifesta infondatezza che si svolge al di fuori e prima dell'udienza.
Il margine di valutazione appare estremamente ampio posto che è sufficiente l'"apparenza" dell'infondatezza[17].
E' evidente che il legislatore pensava alla infondatezza che risulta ("appare") "prima facie", ma questa situazione è già indicata nell'aggettivo "manifesta" che allude appunto alla rilevabilità immediata "ictu oculi".
L'espressione normativa, infelice, consente dunque un'estrema larghezza di valutazioni.
A ciò va aggiunto che in caso di giudice collegiale la competenza per la valutazione preliminare di inammissibilità è del solo presidente del collegio.
La dichiarazione di inammissibilità è adottata con decreto motivato ricorribile per cassazione[18].
Posto che le questioni concernenti la fase esecutiva sono molto spesso di puro fatto, il ricorso per cassazione ha margini ristrettissimi di operatività; sicché la declaratoria di inammissibilità, adottata per motivi puramente discrezionali (se non arbitrari) finisce per divenire, di fatto, insindacabile.
D'altra parte, il problema della scarsa operatività del ricorso per cassazione si pone in generale per il procedimento di esecuzione, posto che tale rimedio è l'unico esperibile avverso l'ordinanza conclusiva del procedimento al termine dell'udienza camerale[19].
L'udienza si svolge in camera di consiglio con la presenza necessaria del difensore e del pubblico ministero ai quali viene notificato (al difensore e non all'interessato) o comunicato (al p.m.) l'avviso contenente l'indicazione della data.
Il termine di comparizione è di dieci giorni, mentre il termine per il deposito di memorie è quello di cinque giorni prima dell'udienza.
Il modello dell'udienza dell'incidente di esecuzione è un modello ibrido di un'udienza camerale tipica ex art. 127 c.p.p. con l'aggiunta di alcune caratteristiche che tengono conto della sua natura di momento centrale della fase di cognizione del processo di esecuzione e che tuttavia sono assolutamente insufficienti per garantire il rispetto dei principi basilari della giurisdizione[20].
Non è previsto il diritto alla prova delle parti ex art. 190 c.p.p., essendo soltanto precisato che: "il giudice può chiedere alle autorità competenti tutti i documenti e le informazioni di cui abbia bisogno; se occorre assumere prove, procede in udienza nel rispetto del contraddittorio" (comma 5).
L'iniziativa probatoria spetta, dunque, allo stesso giudice che è concepito come organo inquisitorio (cumulando in sé la funzione giudicante e quella inquirente).
Non sono previste le modalità di acquisizione della prova, anche nei rapporti con le altre autorità; il che comporta il problema dei margini di esperibilità delle procedure coattive di reperimento dei mezzi di prova: si pensi ad esempio alle perquisizioni, ai sequestri, alle intercettazioni telefoniche (mezzi di ricerca della prova); non è previsto se cioè, ed in quale misura il giudice dell'esecuzione possa disporre di tali strumenti istruttori.
Il testo della norma sembrerebbe escludere una simile possibilità, anche se si deve ritenere che il giudice dell'esecuzione disponga dei poteri generali di acquisizione di ogni mezzo di prova[21].
Inoltre, considerando che l'acquisizione della prova deve avvenire in udienza, dovrebbe immaginarsi una "preacquisizione", non valida ai fini probatori, da parte dello stesso giudice che abbia agito fuori udienza per la ricerca e l'apprensione del mezzo di prova.
Per quanto poi concerne il "rispetto del contraddittorio", è difficile immaginare che debba procedersi con le forme dell'istruzione dibattimentale (ad esempio, se si tratta di testimoni con le forme dell'esame diretto e del controesame), posto che l'unica forma di contraddittorio non è quella prevista per il dibattimento del processo penale e che il comma 5 dell'art. 666 c.p.p., nulla dice circa le modalità di svolgimento del contraddittorio che, così come l'iniziativa istruttoria, dipende dalle decisioni discrezionali del giudice procedente.
D'altro canto, la laconica previsione normativa, potrebbe presentare aspetti di contrasto con l'art. 111 Cost. che, espressamente, per il processo penale, prevede il principio del contraddittorio "nella formazione della prova".
La decisione è adottata con ordinanza avverso la quale è proponibile ricorso per cassazione.
L'ordinanza che abbia deciso l'incidente di esecuzione, pur, divenendo irrevocabile, dopo il decorso del termine per il ricorso per cassazione o dopo il rigetto dello stesso, non passa in giudicato, poiché le medesime questioni già decise, possono essere nuovamente proposte, purché su "elementi diversi" (arg. ex comma 2).
Gli "elementi" che consentono la riproposizione della richiesta di incidente di esecuzione, non devono essere "nuovi" o "sopravvenuti", essendo sufficiente, appunto che siano differenti da quelli già posti a fondamento di una precedente richiesta rigettata; si distinguono inoltre, dalle "fonti di prova" (sopravvenute o scoperte, ai fini della revoca della sentenza di non luogo a procedere ex art. 434 c.p.p.), dalle "prove" ("nuove" che fondano la richiesta di revisione ex art. 630 lettera c, c.p.p.), dalle "esigenze" (di "nuove" investigazione che fondano la richiesta di riapertura delle indagini).
Deve dunque trattarsi di situazioni, argomenti o dati di fatto che non siano già stati prospettati e che, pur senza giungere autonomamente al rango di "prova" (elemento autosufficiente sul piano dimostrativo), giustifichino tuttavia lo svolgimento dell'incidente di esecuzione[22].
[1] Cfr. sul punto specifico della titolarità da parte dell'ufficio del pubblico ministero della titolarità dell'azione esecutiva, DEAN, Ideologie e modelli, cit., 86; LORUSSO, Giudice, pubblico ministero, cit., 111.
[2] Si pensi, ad esempio al caso dell'ordine di carcerazione emesso nei confronti di un omonimo dell'effettivo condannato, considerato nell'art. 667 c.p.p. sotto l'aspetto del dubbio circa l'identità della persona arrestata per esecuzione pena.
[3] Il problema della mancata attuazione nella fase esecutiva del principio costituzionale della ragionevole durata, è espressamente sottolineato in GAITO, RANALDI, Esecuzione, 2005, cit., 13.
[4] Ad esempio, non conta il fatto che la sentenza di condanna non sia ancora divenuta definitiva, essendo sufficiente, piuttosto, che sia stato formato il documento - estratto - che, ancorché erroneamente, ne attesti la definitività.