Svolgimento del processo
1 - Con decisione in data 22
settembre 2008 il Consiglio dell'Ordine degli Avvocati
di Trapani inflisse all'iscritto V.B. L. la sanzione
disciplinare della censura, avendo ritenuto che le
sentenze dei giudici penali che, rispettivamente,
avevano dichiarato non doversi procedere nei suoi
confronti in ordine ai reati di molestie e ingiurie per
intervenuta remissione di querela e lo avevano assolto
dall'imputazione di tentata violenza privata, non
potessero estinguere nè scriminare comportamenti
sanzionati dal codice deontologico dal momento che essi,
pur avendo valenza squisitamente personale, avevano
inevitabilmente colpito la reputazione professionale
dell'iscritto e compromesso l'intera classe forense.
2 - Con decisione in data 22 aprile
- 2 novembre 2010 il Consiglio Nazionale Forense rigettò
il ricorso del V., affermando che l'art. 5 del codice
deontologico, di cui era stata chiesta la
disapplicazione, non configgeva con il diritto al
rispetto della vita privata e familiare sancito
dall'art. 8 C.E.D.U..
3 - Il V. ricorre ritualmente alle
Sezioni Unite della Corte di Cassazione formulando un
unico motivo, mediante il quale ripropone il tema della
compatibilità dell'art. 5, comma 2 Codice deontologico
con l'art. 8 della Convenzione Europea dei Diritti
dell'Uomo.
Gli intimati non hanno espletato
difese.
Motivi della decisione
1 - Il ricorrente denuncia
violazione e falsa applicazione dell'art. 360 c.p.c.,
nn. 3 e 5, in relazione all'art. 8 C.E.D.U. e all'art.
5, comma 2 del Codice deontologico.
Egli assume che il diritto della
persona al rispetto della vita privata e familiare,
costituendo uno dei diritti fondamentali della persona,
non può subire ingerenza da parte di una autorità
pubblica, a meno che tale ingerenza sia prevista dalla
legge quale misura necessaria in una società democratica
per garantire la sicurezza nazionale, la pubblica
sicurezza, il benessere economico del paese, la
protezione della morale pubblica o per la tutela dei
diritti altrui.
Quindi censura la decisione
impugnata per non avere affrontato la verifica della
correlazione e incidenza del disposto dell'art. 5, comma
2 codice deontologico con l'art. 8 C.E.D.U., in tal modo
violando l'art. 112 c.p.c..
Evidenzia che la giurisprudenza di
questa Corte ha ritenuto che l'interpretazione più
coerente dell'art. 5 cod. deont. debba essere nella
direzione della sanzione per un disvalore e non invece
per un comportamento (Cass. Sez. Un. 16 novembre 2007,
n. 2372). Rileva che l'art. 5, comma 2, c.d. tipicizza
una previsione a forma libera ove il substrato materiale
della fattispecie cui è ancorata la sanzione in caso di
violazione non riguarda una condotta ben determinata o
un evento già individuato nei suoi confronti fattuali,
ma piuttosto un evento la cui configurazione è rimessa
ad una ulteriore verifica di ordine sociale e/o ad un
comune sentire del tessuto culturale, appunto il senso
etico della probità e del decoro, profili ben diversi
dai doveri di correttezza e lealtà tipici dell'attività
professionale.
2 - Occorre subito precisare,
seguendo un iter logico corretto, che la decisione
impugnata in realtà ha posto in correlazione l'art. 5,
comma 2 cod. deont. con l'art. 8 C.E.D.U., escludendo la
configurabilità del preteso conflitto sul rilievo che,
per il primo, la condotta dell'avvocato non deve uscire
dall'ambito privato e familiare, come tale del tutto
rispettabile, e non deve riflettersi negativamente sulla
reputazione professionale o compromettere l'immagine
della classe forense.
La conseguenza logica da trame è,
dunque, che - secondo la decisione impugnata - la
condotta dell'avvocato è censurabile disciplinarmente
proprio allorchè travalichi l'ambito privato e
familiare, che è quello tutelato dall'art. 8 C.E.D.U..
Viene, quindi, a cadere il
riferimento all'art. 112 c.p.c., del resto non
prospettato ritualmente dal V..
3 - La costruzione teorica del
ricorrente viene compromessa alla radice da un elemento
di fatto adeguatamente sottolineato dalla decisione
impugnata: nei fatti vennero coinvolti soggetti
appartenenti all'ambiente forense e giudiziario ed essi
vennero pubblicizzati da "numerosi articoli di stampa".
Non può essere invocata una norma
che tutela - anche a fronte di una autorità pubblica -
il rispetto della vita privata e familiare della
persona, ogni volta che i fatti potenzialmente lesivi
siano usciti da tale ambito, siano divenuti di pubblico
dominio e abbiano ingenerato notorietà e commenti idonei
ad incidere oltre i limiti della sfera strettamente
privata e familiare e a riverberare riflessi negativi
sull'attività professionale.
4 - Si osserva, sul piano
giuridico, che l'art. 5 cod. deont. impone all'avvocato
di ispirare la propria condotta all'osservanza dei
doveri di probità, dignità e decoro e, in particolare,
al secondo comma, prevede il procedimento disciplinare
per fatti anche non riguardanti l'attività forense
quando si riflettano sulla sua reputazione professionale
o compromettano l'immagine della classe forense.
E' certo che quella in esame sia
una norma in bianco, ma è agevole rilevare che non
potrebbe essere diversamente dal momento che una
tipicizzazione rigida delle ipotesi regolate sarebbe, al
tempo stesso, eccessivamente analitica e riduttiva.
D'altra parte questa tecnica normativa è comunemente
applicata nella materia disciplinare. Questa Corte ha
già avuto occasione di affermare (Cass. Sez. Un. 5
dicembre 2007, n. 37) la legittimità costituzionale
delle norme dell'ordinamento disciplinare forense anche
nella parte in cui, con riguardo alla materia
disciplinare, omettono una precisa individuazione delle
regole di deontologia professionale, poichè la
predeterminazione e la certezza dell'incolpazione ben
può ricollegarsi a concetti diffusi e generalmente
compresi dalla collettività in cui il giudice opera e
poichè all'esercizio del potere disciplinare, quale
espressione di potestà amministrativa, sono estranei i
precetti costituzionali concernenti la funzione
giurisdizionale.
Rientra nei compiti precipui degli
organi professionali e ne costituisce una delle ragioni
di esistere il controllo che i comportamenti dei propri
iscritti non si riflettano sulla reputazione
professionale e non compromettano l'immagine della
categoria.
5 - L'art. 8 C.E.D.U., premesso che
ogni persona ha diritto al rispetto della sua vita
privata e familiare, del suo domicilio e della sua
corrispondenza, vieta ingerenze anche da parte di
un'autorità pubblica nell'esercizio di tale diritto,
fatti salvi il caso di esplicita previsione normativa e
la necessità per la sicurezza nazionale, per la pubblica
sicurezza, per il benessere economico del paese, per la
difesa dell'ordine e per la prevenzione dei reati, per
la protezione della salute o della morale, o per la
protezione dei diritti e delle libertà altrui.
Ma la norma in esame non è certo di
ostacolo al perseguimento dei reati e, di conseguenza,
anche degli illeciti disciplinari.
Essa inibisce indebite intrusioni e
aggressioni alla sfera privata e familiare delle
persone, ma lascia integro il potere - dovere delle
autorità competenti di valutare e, occorrendo,
sanzionare comportamenti che si pongano in contrasto con
i rispettivi ordinamenti.
Nella specie i fatti addebitati al
ricorrente avevano formato oggetto di verifiche da parte
del giudice penale che, pur se concluse con esiti a lui
favorevoli, avevano determinato l'uscita dei medesimi
dall'ambito tutelato dalla norma in esame.
6 - Non giova alla tesi del
ricorrente il riferimento alla citata sentenza n. 2372
del 2007, secondo cui l'interpretazione più coerente
dell'art. 5 cod. deont. deve essere in direzione della
sanzione per un disvalore e non per un comportamento,
poichè, a prescindere dall'erroneità del riferimento, la
decisione impugnata ha posto in evidenza proprio il
disvalore sociale della condotta del ricorrente.
7 - Pertanto il ricorso va
rigettato. Nulla spese.
P.Q.M. |