Nuova 'bocciatura' da parte della Corte costituzionale
del cosiddetto 'Pacchetto sicurezza' del governo.
La Consulta, accogliendo i giudizi di legittimita'
costituzionale promossi dal gip del tribunale di Milano
e dal tribunale di Lecce, ha infatti dichiarato
illegittima la parte delle misure sulla sicurezza che
prevedono l'obbligo per il giudice di disporre la sola
custodia cautelare in carcere e, quindi, non misure
alternative come gli arresti domiciliari, quando
sussistono gravi indizi di colpevolezza per il reato di
omicidio volontario.
Corte Costituzionale
Sentenza 12 maggio 2011, n. 164
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
-
Paolo MADDALENA Presidente
-
Alfio FINOCCHIARO Giudice
-
Alfonso QUARANTA ”
-
Franco GALLO ”
-
Luigi MAZZELLA ”
-
Gaetano SILVESTRI ”
-
Sabino CASSESE ”
-
Giuseppe TESAURO ”
-
Paolo Maria NAPOLITANO ”
-
Giuseppe FRIGO ”
-
Alessandro CRISCUOLO ”
-
Paolo GROSSI ”
-
Giorgio LATTANZI ”
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 275,
comma 3, del codice di procedura penale, come modificato
dall’art. 2 del decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11
(Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di
contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti
persecutori), convertito, con modificazioni, dalla legge
23 aprile 2009, n. 38, promossi dal Giudice per le
indagini preliminari del Tribunale di Milano con
ordinanza del 1° ottobre 2010 e dal Tribunale di Lecce
con ordinanza del 18 novembre 2010, iscritte
rispettivamente ai nn. 389 del registro ordinanze 2010 e
6 del registro ordinanze 2011 e pubblicate nella
Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 51, prima serie
speciale, dell’anno 2010 e n. 3, prima serie speciale,
dell’anno 2011.
Visti l’atto di costituzione di L. G. nonché gli atti di
intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 19 aprile 2011 e nella
camera di consiglio del 20 aprile 2011 il Giudice
relatore Giuseppe Frigo;
uditi l’avvocato Pantaleo Cannoletta per L. G. e
l’avvocato dello Stato Massimo Bachetti per il
Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1.1. – Con ordinanza depositata il 18 novembre 2010, il
Tribunale di Lecce, sezione per il riesame, ha proposto,
in riferimento agli artt. 3, 13, primo comma, e 27,
secondo comma, della Costituzione, questione di
legittimità costituzionale dell’art. 275, comma 3, del
codice di procedura penale, come modificato dall’art. 2
del decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11 (Misure
urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto
alla violenza sessuale, nonché in tema di atti
persecutori), convertito, con modificazioni, dalla legge
23 aprile 2009, n. 38, nella parte in cui – nel
prevedere che, quando sussistono gravi indizi di
colpevolezza in ordine al delitto di cui all’art. 575
del codice penale (omicidio volontario), è applicata la
custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti
elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze
cautelari – non fa salva, altresì, l’ipotesi in cui
siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso
concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari
possono essere soddisfatte con altre misure.
Il giudice a quo è investito dell’appello, proposto dal
difensore di una persona imputata di omicidio volontario
in concorso, avverso l’ordinanza di rigetto dell’istanza
di sostituzione della custodia cautelare in carcere con
gli arresti domiciliari, emessa il 20 agosto 2010 dalla
Corte di assise di appello di Lecce.
Al riguardo, il rimettente riferisce che, dopo la
convalida di un provvedimento di fermo, all’interessata
era stata applicata la misura della custodia cautelare
in carcere con ordinanza del Giudice per le indagini
preliminari del 21 luglio 2008. A seguito di
impugnazione del difensore, il Tribunale rimettente, con
ordinanza del 19 settembre 2008 – non impugnata dal
pubblico ministero – aveva, peraltro, disposto la
sostituzione della misura con gli arresti domiciliari.
Entrato in vigore l’art. 2 del decreto-legge n. 11 del
2009, il pubblico ministero aveva chiesto e ottenuto il
ripristino della misura carceraria, alla luce della
nuova disciplina recata dalla novella. Il difensore
aveva quindi presentato una nuova istanza di
sostituzione alla Corte di assise di appello di Lecce (a
ciò competente, essendo stata l’imputata condannata,
nelle more, da detta Corte alla pena di sedici anni e
due mesi di reclusione): istanza motivata tanto con
l’asserita incompatibilità delle condizioni di salute
dell’imputata con la custodia carceraria, quanto con la
dedotta illegittimità costituzionale del nuovo testo
dell’art. 275, comma 3, cod. proc. pen. L’ordinanza di
rigetto di tale istanza era stata, infine, impugnata con
l’appello sul quale il giudice a quo è chiamato a
pronunciarsi.
Quanto alla rilevanza della questione, il rimettente
osserva che, nel caso di specie, la sussistenza dei
gravi indizi di colpevolezza è fuori discussione,
essendo stata l’imputata già condannata in grado di
appello.
Per quel che concerne, poi, le esigenze cautelari, il
Tribunale aveva già accertato, con la citata ordinanza
del 19 settembre 2008, che le esigenze di cui all’art.
274, comma 1, lettera c), cod. proc. pen. (connesse al
pericolo di commissione di delitti della stessa specie
di quello per cui si procede) potevano essere
soddisfatte con la meno gravosa misura degli arresti
domiciliari. Ciò, in quanto «la peculiarità del caso – a
carattere reattivo a fronte di una lunga storia di
violenze subite – e la presenza nella vicenda di un uomo
di ben maggiore esperienza […], con precedenti
specifici», induceva a riconoscere alla donna «un ruolo
servente» nel fatto, tale da delineare una pericolosità
attenuata, tanto più che la stessa non risultava «avere
mai violato gli ordini dell’autorità».
Rispetto a tale valutazione – divenuta «giudicato
cautelare», stante la mancata impugnazione del
provvedimento da parte del pubblico ministero – non
sarebbe intervenuto alcun elemento di novità, atto a far
supporre un aggravamento delle esigenze cautelari.
L’unico dato nuovo – di ordine normativo – sarebbe
costituito dalla preclusione introdotta dalla novella
legislativa modificativa dell’art. 275, comma 3, cod.
proc. pen., in forza della quale, quando sussistono
gravi indizi di colpevolezza per una serie di reati –
tra cui quello di omicidio volontario – «è applicata la
custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti
elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze
cautelari».
La questione di costituzionalità risulterebbe, pertanto,
dirimente ai fini della decisione da assumere nel
procedimento a quo: ciò, tenuto conto anche
dell’infondatezza del primo dei motivi di appello,
dovendosi escludere – alla luce dell’espletata
consulenza medico-legale – che le condizioni di salute
dell’interessata siano realmente incompatibili con la
custodia carceraria.
Quanto, poi, alla non manifesta infondatezza della
questione, il giudice a quo rileva come questa Corte,
con la sentenza n. 265 del 2010, abbia già dichiarato
costituzionalmente illegittima la norma censurata, per
contrasto con gli artt. 3, 13, primo comma, e 27,
secondo comma, Cost., nella parte in cui – nel prevedere
che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in
ordine ai delitti di cui agli artt. 600-bis, primo
comma, 609-bis e 609-quater cod. pen., è applicata la
custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti
elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze
cautelari – non fa salva, altresì, l’ipotesi in cui
siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso
concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari
possono essere soddisfatte con altre misure.
Ad avviso del giudice a quo, le medesime considerazioni
poste a base di tale pronuncia – considerazioni che il
rimettente riproduce integralmente nell’ordinanza di
rimessione – varrebbero anche in rapporto al delitto di
omicidio. In particolare, allo stesso modo dei delitti a
sfondo sessuale oggetto della sentenza n. 265 del 2010,
neppure il reato di omicidio potrebbe essere assimilato,
sotto il profilo che interessa, ai delitti di mafia,
relativamente ai quali tanto questa Corte (con
l’ordinanza n. 450 del 1995) che la Corte europea dei
diritti dell’uomo (con la sentenza 6 novembre 2003,
Pantano contro Italia) hanno ritenuto giustificabile la
presunzione assoluta di adeguatezza della sola custodia
cautelare in carcere, sancita dalla norma denunciata. I
diversi fatti concreti, riferibili al paradigma punitivo
di cui all’art. 575 cod. pen., risulterebbero, infatti,
anch’essi marcatamente eterogenei sul piano del
disvalore – come attesterebbero i casi dell’omicidio
determinato da dolo d’impeto, o commesso in stato d’ira
determinato da un fatto ingiusto altrui, ovvero per
motivi di particolare valore morale o sociale – e,
soprattutto, potrebbero far emergere esigenze cautelari
suscettibili di essere soddisfatte con misure diverse e
meno gravose della custodia carceraria.
Tali circostanze farebbero sì che la presunzione
censurata si ponga in contrasto sia con l’art. 3 Cost.,
per l’ingiustificata parificazione dei procedimenti
relativi al delitto in questione a quelli concernenti i
delitti di mafia, nonché per l’irrazionale
assoggettamento ad un medesimo regime cautelare delle
diverse ipotesi concrete riconducibili al relativo
paradigma punitivo; sia con l’art. 13, primo comma,
Cost., quale referente fondamentale del regime ordinario
delle misure cautelari privative della libertà personale
– ispirato al principio del «minimo sacrificio
necessario» – cui la disposizione denunciata deroga;
sia, infine, con l’art. 27, secondo comma, Cost., in
quanto attribuirebbe alla coercizione processuale tratti
funzionali tipici della pena, in contrasto con la
presunzione di non colpevolezza dell’imputato prima
della condanna definitiva.
1.2. – È intervenuto nel giudizio di legittimità
costituzionale il Presidente del Consiglio dei ministri,
rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello
Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata non
fondata.
La difesa dello Stato ricorda come questa Corte abbia
affermato – in particolare, con l’ordinanza n. 450 del
1995 – che mentre l’apprezzamento delle esigenze
cautelari deve essere lasciato al giudice, la scelta
della misura può bene essere operata in via generale dal
legislatore, nei limiti della ragionevolezza e del
corretto bilanciamento dei beni coinvolti.
L’assoluta gravità del delitto di omicidio e la
pericolosità sociale della persona sottoposta alla
misura – persona che, nella specie, è stata condannata
tanto in primo grado che in appello – accomunerebbero,
d’altro canto, il delitto in questione a quelli di tipo
mafioso, rispetto ai quali la Corte, con la medesima
ordinanza, ha ritenuto ragionevole l’imposizione della
misura carceraria.
1.3. – Si è costituita, altresì, L. G., imputata nel
giudizio a quo, chiedendo che la questione venga
accolta.
La difesa della parte privata rileva come la norma
oggetto di scrutinio debba ritenersi del tutto
irragionevole nella parte in cui equipara il reato di
omicidio volontario, non soltanto ai delitti previsti
dall’art. 51, commi 3-bis e 3-quater, cod. proc. pen.,
ma anche a quelli di cui agli artt. 600-bis, primo
comma, 600-ter, 600-quinquies, 609-bis, 609-quater e
609-octies cod. pen. Nonostante la sua gravità,
l’omicidio può essere, infatti, commesso con diversi
gradi di dolo, compreso il dolo eventuale; può trovare
giustificazioni «condivise» dalla collettività (motivi
di particolare valore morale e sociale); può essere
realizzato sotto l’impulso di uno stato d’ira
determinato da fatto ingiusto altrui (artt. 62, numeri 2
e 3, cod. pen.): evenienze tutte difficilmente
configurabili, per contro, tanto in rapporto ai delitti
di mafia o di criminalità organizzata, quanto in
relazione a reati a sfondo sessuale, quali l’induzione
alla prostituzione minorile, la pornografia minorile o
le iniziative turistiche volte allo sfruttamento della
prostituzione minorile.
Di ciò sarebbe puntuale riprova il caso oggetto del
giudizio a quo, che, al momento dell’entrata in vigore
dell’art. 2 del decreto-legge n. 11 del 2009, vedeva
l’imputata agli arresti domiciliari per effetto di
provvedimento emesso in sede di impugnazione cautelare e
non censurato dal pubblico ministero, in quanto
coinvolta in una vicenda «tanto grave quanto triste,
maturata in un contesto sociale, culturale ed affettivo
molto degradato». L’imputata si sarebbe, infatti, legata
sentimentalmente a un pericoloso e violento pregiudicato
(la vittima dell’omicidio), che per anni l’avrebbe
costretta a prostituirsi, lucrando sui proventi di tale
attività. Avendo quindi conosciuto il coimputato,
avrebbe cercato invano di «emanciparsi» dal precedente
compagno, il quale, anziché rassegnarsi alla nuova
relazione, avrebbe compiuto gravi atti di intimidazione,
diretta e indiretta, contro l’imputata e il rivale.
In tale prospettiva, le medesime ragioni che hanno
indotto la Corte a dichiarare costituzionalmente
illegittimo l’art. 275, comma 3, cod. proc. pen. con
riferimento ai delitti di cui agli artt. 600-bis, primo
comma, 609-bis e 609-quater cod. pen.
giustificherebbero, e a più forte ragione, analoga
declaratoria di illegittimità costituzionale in rapporto
all’omicidio.
1.4. – L’Avvocatura dello Stato ha depositato memoria
illustrativa, con la quale ha eccepito l’inammissibilità
della questione per difetto di motivazione sulla
rilevanza, assumendo che il giudice a quo avrebbe omesso
di verificare la concreta sussistenza, nel caso di
specie, delle esigenze cautelari, la cui presenza
comunque condiziona, ai sensi della norma denunciata,
l’applicazione della misura carceraria nei confronti
della persona raggiunta da gravi indizi di colpevolezza
per il reato di omicidio.
Nel merito, la difesa dello Stato ribadisce
l’insussistenza della denunciata violazione dei principi
di eguaglianza e di ragionevolezza, tenuto conto della
gravità del reato di cui si discute, lesivo del supremo
bene della vita.
Parimenti infondata sarebbe la censura di violazione
dell’art. 13 Cost., giacché la norma denunciata rispetta
tanto la riserva di legge, quanto la riserva di
giurisdizione in esso previste. Inconferente
risulterebbe, infine, il riferimento alla presunzione di
non colpevolezza (art. 27, secondo comma, Cost.),
trattandosi di parametro estraneo – in base alle
indicazioni della giurisprudenza costituzionale –
all’assetto delle misure cautelari restrittive della
libertà personale, che operano su un piano distinto da
quello della condanna e della pena.
2.1. – Identica questione di legittimità costituzionale
è sollevata dal Giudice per le indagini preliminari del
Tribunale di Milano, con ordinanza del 1° ottobre 2010.
Il giudice a quo è chiamato a pronunciarsi sull’istanza
di sostituzione della misura della custodia cautelare in
carcere con gli arresti domiciliari, presentata il 28
settembre 2010 dal difensore dell’imputato, condannato
in primo grado a dieci anni di reclusione per concorso
in omicidio volontario: istanza motivata con la
sensibile attenuazione delle esigenze cautelari, in
considerazione della decisiva collaborazione prestata
dall’imputato all’autorità inquirente e della sua
«sicura resipiscenza».
Ad avviso del rimettente – conformemente al parere
espresso dal pubblico ministero – le esigenze cautelari
dovrebbero ritenersi effettivamente attenuate, anche se
non completamente cessate, così da poter essere
soddisfatte con la misura meno costrittiva richiesta
dalla difesa. All’accoglimento dell’istanza osterebbe,
tuttavia, la presunzione iuris et de iure di adeguatezza
della sola custodia cautelare in carcere sancita dal
vigente testo dell’art. 275, comma 3, cod. proc. pen.
Andrebbe, infatti, esclusa la praticabilità –
prospettata dalla difesa – di un’estensione in via
analogica all’omicidio volontario della norma risultante
dalla sentenza di questa Corte n. 265 del 2010, riferita
esclusivamente ai delitti di cui agli artt. 600-bis,
primo comma, 609-bis e 609-quater cod. pen.: donde la
rilevanza della questione.
Quanto alla non manifesta infondatezza, il giudice a quo
svolge argomentazioni del tutto analoghe a quelle del
Tribunale di Lecce. In particolare, assume che neppure
in rapporto all’omicidio volontario sarebbe ravvisabile
la ratio ritenuta idonea a giustificare la censurata
presunzione assoluta con riguardo ai delitti di mafia.
Per quanto gravi, i fatti che integrano il delitto
punito dall’art. 575 cod. pen. presenterebbero disvalori
ampiamente differenziabili e, soprattutto, potrebbero
manifestare esigenze cautelari affrontabili con misure
diverse dalla custodia carceraria. Ben diversa può
essere, infatti, l’intensità del dolo dell’omicida – da
quello eventuale o alternativo a quello premeditato –
così come marcatamente dissimili possono risultare le
stesse condotte costitutive del reato, trattandosi di
fattispecie a forma libera; laddove, al contrario, già
sotto il profilo strutturale il delitto di associazione
a delinquere di stampo mafioso è a dolo specifico e a
condotta vincolata.
2.2. – È intervenuto il Presidente del Consiglio dei
ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura
generale dello Stato, chiedendo che la questione sia
dichiarata non fondata.
Richiamando l’ordinanza n. 450 del 1995 di questa Corte,
la difesa dello Stato assume che, nel caso di specie, la
scelta legislativa di imporre, in presenza di esigenze
cautelari, la misura carceraria non può essere
considerata irragionevole, ove si consideri che il
delitto di omicidio offende il bene fondamentale, di
rilevanza costituzionale, della vita.
La norma censurata non lederebbe neppure l’art. 13,
primo comma, Cost., essendo stato rispettato il
principio della riserva di legge in materia di
provvedimenti restrittivi della libertà personale. Né,
da ultimo, si comprenderebbe come detta norma possa
essere ritenuta incompatibile con la presunzione di non
colpevolezza dell’imputato, sancita dall’art. 27 Cost.
Considerato in diritto
1. – Il Tribunale di Lecce e il Giudice per le indagini
preliminari del Tribunale di Milano dubitano della
legittimità costituzionale dell’art. 275, comma 3, del
codice di procedura penale, come modificato dall’art. 2
del decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11 (Misure
urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto
alla violenza sessuale, nonché in tema di atti
persecutori), convertito, con modificazioni, dalla legge
23 aprile 2009, n. 38, nella parte in cui – nel
prevedere che, quando sussistono gravi indizi di
colpevolezza in ordine al delitto di cui all’art. 575
del codice penale (omicidio volontario), è applicata la
custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti
elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze
cautelari – non fa salva, altresì, l’ipotesi in cui
siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso
concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari
possono essere soddisfatte con altre misure.
I
rimettenti reputano estensibili ai procedimenti relativi
al delitto di omicidio le ragioni che hanno indotto
questa Corte, con la sentenza n. 265 del 2010, a
dichiarare costituzionalmente illegittima la norma
censurata, nei termini dianzi indicati, con riferimento
a taluni delitti a sfondo sessuale (artt. 600-bis, primo
comma, 609-bis e 609-quater cod. pen.).
Al pari di tali delitti, neanche il reato di omicidio
potrebbe essere infatti assimilato, sotto il profilo in
esame, ai delitti di mafia, relativamente ai quali tanto
questa Corte che la Corte europea dei diritti dell’uomo
hanno ritenuto giustificabile la presunzione assoluta di
adeguatezza della sola custodia cautelare in carcere,
sancita dalla norma censurata. Per quanto gravi, i fatti
che integrano il delitto punito dall’art. 575 cod. pen.
presenterebbero disvalori ampiamente differenziabili,
sia sul piano della condotta (trattandosi di reato a
forma libera) che su quello dell’elemento psicologico –
come attesterebbero i casi dell’omicidio commesso con
dolo eventuale o d’impeto, o per reazione all’altrui
provocazione, ovvero, ancora, per motivi di particolare
valore morale o sociale – e, soprattutto, potrebbero
bene proporre esigenze cautelari affrontabili con misure
diverse dalla custodia carceraria.
La presunzione censurata verrebbe, di conseguenza, a
porsi in contrasto – conformemente a quando deciso dalla
citata sentenza n. 265 del 2010 – con i principi di
eguaglianza e di ragionevolezza (art. 3 Cost.) e di
inviolabilità della libertà personale (art. 13, primo
comma, Cost.), nonché con la presunzione di non
colpevolezza (art. 27, secondo comma, Cost.).
2. – Le ordinanze di rimessione propongono questioni
identiche, sicché i relativi giudizi vanno riuniti per
essere definiti con unica decisione.
3. – L’eccezione di inammissibilità per difetto di
motivazione sulla rilevanza, formulata dall’Avvocatura
dello Stato in rapporto alla questione proposta dal
Tribunale di Lecce, non è fondata.
A
prescindere da ogni altra considerazione – connessa al
fatto che, in base alla norma denunciata, la sussistenza
delle esigenze cautelari è oggetto di presunzione
relativa, e che, con l’appello cautelare di cui il
rimettente è investito (soggetto all’ordinario principio
devolutivo: art. 597 cod. proc. pen.), il difensore non
risulta aver mosso contestazioni sul punto – è dirimente
il rilievo che, contrariamente a quanto assume la difesa
dello Stato, il giudice a quo ha comunque motivato in
ordine alla configurabilità, nel caso di specie, del
periculum libertatis. Il rimettente ha, infatti,
richiamato la propria ordinanza del 19 settembre 2008
(emessa in accoglimento di precedente impugnazione della
difesa), con la quale aveva ritenuto che le esigenze
cautelari – pure ravvisabili – di cui all’art. 274,
comma 1, lettera c), cod. proc. pen. potevano essere
soddisfatte con gli arresti domiciliari, precisando che
tale valutazione resta tuttora valida, non essendo
sopravvenuti nuovi elementi di ordine fattuale.
4. – Nel merito, la questione è fondata.
5. – Con la sentenza n. 265 del 2010, questa Corte ha
già dichiarato costituzionalmente illegittima la norma
censurata, nella parte in cui sancisce una presunzione
assoluta – anziché soltanto relativa – di adeguatezza
della sola custodia in carcere a soddisfare le esigenze
cautelari nei confronti della persona raggiunta da gravi
indizi di colpevolezza per taluni delitti a sfondo
sessuale: in particolare, per i reati di induzione o
sfruttamento della prostituzione minorile, violenza
sessuale e atti sessuali con minorenne (artt. 600-bis,
primo comma, 609-bis e 609-quater cod. pen.).
5.1. – Nell’occasione, la Corte ha rilevato come i
limiti di legittimità delle misure cautelari –
nell’ambito della cui disciplina si colloca la
disposizione scrutinata – risultino espressi, a fronte
del principio di inviolabilità della libertà personale
(art. 13, primo comma, Cost.) – oltre che dalle riserve
di legge e di giurisdizione (art. 13, secondo e quarto
comma, Cost.) – anche e soprattutto dalla presunzione di
non colpevolezza (art. 27, secondo comma, Cost.), a
fronte della quale le restrizioni della libertà
personale dell’indagato o dell’imputato nel corso del
procedimento debbono assumere connotazioni nitidamente
differenziate da quelle della pena, irrogabile solo dopo
l’accertamento definitivo della responsabilità.
Ulteriore indefettibile corollario dei principi
costituzionali di riferimento è che la disciplina della
materia debba essere ispirata al criterio del «minore
sacrificio necessario» (sentenza n. 295 del 2005): la
compressione della libertà personale dell’indagato o
dell’imputato va contenuta, cioè, entro i limiti minimi
indispensabili a soddisfare le esigenze cautelari
riconoscibili nel caso concreto. Ciò impegna il
legislatore, da una parte, a strutturare il sistema
cautelare secondo il modello della “pluralità graduata”,
predisponendo una gamma alternativa di misure, connotate
da differenti gradi di incidenza sulla libertà
personale; dall’altra, a prefigurare meccanismi
“individualizzanti” di selezione del trattamento
cautelare, coerenti e adeguati alle esigenze
configurabili nelle singole fattispecie concrete.
Questo insieme di indicazioni costituzionali trova
puntuale espressione nella disciplina generale dettata
dal codice di procedura penale. A fronte della
tipizzazione di un “ventaglio” di misure, di gravità
crescente (artt. 281-285), il criterio di «adeguatezza»
(art. 275, comma 1) – dando corpo al principio del
«minore sacrificio necessario» – impone, difatti, al
giudice di scegliere la misura meno afflittiva tra
quelle astrattamente idonee a tutelare le esigenze
cautelari ravvisabili nel caso concreto.
Da tali coordinate si discosta vistosamente la
disciplina dettata dal secondo e dal terzo periodo del
comma 3 dell’art. 275 cod. proc. pen. – inserita tramite
una serie di interventi novellistici – la quale
stabilisce, rispetto ai soggetti raggiunti da gravi
indizi di colpevolezza per taluni delitti, una duplice
presunzione: relativa, quanto alla sussistenza delle
esigenze cautelari; assoluta, quanto alla scelta della
misura, reputando il legislatore adeguata, ove la
presunzione relativa non risulti vinta, unicamente la
custodia cautelare in carcere, senza alcuna possibile
alternativa.
Proprio per i marcati profili di scostamento rispetto al
regime ordinario, la disciplina derogatoria – riferita,
ai suoi esordi, ad un ampio ed eterogeneo parco di
figure criminose – era stata circoscritta, a partire dal
1995 e in una prospettiva di recupero delle garanzie, ai
soli procedimenti per delitti di mafia in senso stretto
(art. 5, comma 1, della legge 8 agosto 1995, n. 332,
recante «Modifiche al codice di procedura penale in tema
di semplificazione dei procedimenti, di misure cautelari
e di diritto di difesa»). In tali limiti, essa aveva
superato il vaglio tanto di questa Corte (ordinanza n.
450 del 1995), che della Corte europea dei diritti
dell’uomo (sentenza 6 novembre 2003, Pantano contro
Italia). Entrambe le Corti avevano, infatti, in vario
modo valorizzato la specificità dei predetti delitti, la
cui connotazione strutturale astratta (come reati
associativi entro un contesto di criminalità organizzata
di tipo mafioso, o come reati a questo comunque
collegati) valeva a rendere «ragionevoli» le presunzioni
in questione, e segnatamente quella di adeguatezza della
sola custodia carceraria: trattandosi, in sostanza,
della misura più idonea a neutralizzare il periculum
libertatis connesso al verosimile protrarsi dei contatti
tra imputato ed associazione.
Con l’intervento novellistico del 2009 (art. 2, comma 1,
lettere a e a-bis, del decreto-legge n. 11 del 2009,
convertito, con modificazioni, dalla legge n. 38 del
2009), il legislatore ha compiuto «un “salto di qualità”
a ritroso», riespandendo l’ambito di applicazione della
disciplina eccezionale a numerose altre fattispecie
penali, in larga misura eterogenee fra loro quanto a
oggettività giuridica (fatta eccezione per i delitti “a
sfondo sessuale”), struttura e trattamento
sanzionatorio.
5.2. – Ciò premesso, questa Corte ha ribadito, nella
citata sentenza n. 265 del 2010, che «le presunzioni
assolute, specie quando limitano un diritto fondamentale
della persona, violano il principio di eguaglianza, se
sono arbitrarie e irrazionali, cioè se non rispondono a
dati di esperienza generalizzati, riassunti nella
formula dell’id quod plerumque accidit. In particolare,
l’irragionevolezza della presunzione assoluta si coglie
tutte le volte in cui sia “agevole” formulare ipotesi di
accadimenti reali contrari alla generalizzazione posta a
base della presunzione stessa (sentenza n. 139 del
2010)».
Sotto tale profitto, ai delitti a sfondo sessuale allora
in discussione non poteva estendersi la ratio
giustificativa del regime derogatorio già ravvisata in
rapporto ai delitti di mafia: ossia che dalla struttura
stessa della fattispecie e dalle sue connotazioni
criminologiche – legate alla circostanza che
l’appartenenza ad associazioni di tipo mafioso implica
un’adesione permanente ad un sodalizio criminoso di
norma fortemente radicato nel territorio, caratterizzato
da una fitta rete di collegamenti personali e dotato di
particolare forza intimidatrice – deriva, nella
generalità dei casi e secondo una regola di esperienza
sufficientemente condivisa, una esigenza cautelare alla
cui soddisfazione sarebbe adeguata solo la custodia in
carcere (non essendo le misure “minori” sufficienti a
troncare i rapporti tra l’indiziato e l’ambito
delinquenziale di appartenenza, neutralizzandone la
pericolosità).
Per quanto odiosi e riprovevoli, i delitti in discorso –
oltre a presentare disvalori nettamente differenziabili
– possono essere, e spesso sono, meramente individuali e
tali, per le loro connotazioni, da non postulare
esigenze cautelari affrontabili solo con la massima
misura. Sovente, inoltre, essi si manifestano
all’interno di specifici contesti (ad esempio, quello
familiare o scolastico o di particolari comunità), così
che le esigenze cautelari possono trovare risposta in
misure, diverse da quella carceraria e già previste allo
scopo, che comportino l’esclusione coatta dal contesto:
arresti domiciliari in luogo diverso dall’abitazione
(art. 284 cod. proc. pen.), eventualmente accompagnati
da particolari strumenti di controllo (quale il
cosiddetto braccialetto elettronico: art. 275-bis);
obbligo o divieto di dimora o anche solo di accesso in
determinati luoghi (art. 283); allontanamento dalla casa
familiare (art. 282-bis).
Questa Corte ha formulato, altresì, due ulteriori
precisazioni, di tutto rilievo anche ai presenti fini.
In primo luogo, cioè, ha sottolineato che la
ragionevolezza della soluzione normativa scrutinata non
può essere rinvenuta neppure nella gravità astratta del
reato, desunta dalla misura della pena o dall’elevato
rango dell’interesse protetto: parametri, questi,
significativi in sede di giudizio di colpevolezza, ma
inidonei, di per sé, a fungere da elementi preclusivi ai
fini della verifica della sussistenza di esigenze
cautelari e del loro grado, che condiziona
l’identificazione delle misure idonee a soddisfarle.
In secondo luogo, si è rilevato che tanto meno la
presunzione in esame potrebbe rimanere legittimata
dall’esigenza di contrastare situazioni di allarme
sociale, legate all’asserita crescita numerica di taluni
delitti (convinzione che viceversa traspare dai lavori
parlamentari relativi alla novella del 2009, almeno in
rapporto ai reati sessuali). L’eliminazione o la
riduzione dell’allarme sociale causato dal reato del
quale l’imputato è accusato non può essere, infatti,
annoverata tra le finalità della custodia cautelare,
costituendo una funzione istituzionale della pena,
perché presuppone la certezza circa il responsabile del
delitto che ha provocato l’allarme.
5.3. – Alla luce di tali rilievi, questa Corte ha quindi
concluso che la norma impugnata violava, in parte qua,
sia l’art. 3 Cost., per l’ingiustificata parificazione
dei procedimenti relativi ai delitti considerati a
quelli concernenti i delitti di mafia, nonché per
l’irrazionale assoggettamento ad un medesimo regime
cautelare delle diverse ipotesi concrete riconducibili
ai relativi paradigmi punitivi; sia l’art. 13, primo
comma, Cost., quale referente fondamentale del regime
ordinario delle misure cautelari privative della libertà
personale; sia, infine, l’art. 27, secondo comma, Cost.,
in quanto attribuiva alla coercizione processuale tratti
funzionali tipici della pena.
Al fine di ricondurre il sistema a sintonia con i valori
costituzionali, non era peraltro necessario rimuovere
integralmente la presunzione de qua, ma solo il suo
carattere assoluto, che implicava una indiscriminata e
totale negazione di rilievo al principio del “minore
sacrificio necessario”. La previsione di una presunzione
solo relativa di adeguatezza della custodia carceraria –
atta a realizzare una semplificazione del procedimento
probatorio suggerita da aspetti ricorrenti del fenomeno
criminoso considerato, ma comunque superabile da
elementi di segno contrario – non eccede, per contro, i
limiti di compatibilità costituzionale, rimanendo per
tale verso non censurabile l’apprezzamento legislativo
circa la ordinaria configurabilità di esigenze cautelari
nel grado più intenso.
6. – Conformemente a quanto sostenuto dai giudici
rimettenti, le considerazioni dianzi ricordate valgono,
con gli opportuni adattamenti, anche in rapporto al
delitto di omicidio volontario.
Nonostante l’indiscutibile gravità del fatto – la quale
peserà opportunamente nella determinazione della pena
inflitta all’autore, quando ne sia riconosciuta in via
definitiva la colpevolezza – anche nel caso
dell’omicidio, la presunzione assoluta di cui si discute
non può considerarsi, in effetti, rispondente a un dato
di esperienza generalizzato, ricollegabile alla
«struttura stessa» e alle «connotazioni criminologiche»
della figura criminosa.
Non si è, difatti, al cospetto di un reato che implichi
o presupponga necessariamente un vincolo di appartenenza
permanente a un sodalizio criminoso con accentuate
caratteristiche di pericolosità – per radicamento nel
territorio, intensità dei collegamenti personali e forza
intimidatrice – vincolo che solo la misura più severa
risulterebbe, nella generalità dei casi, in grado di
interrompere. Al contrario, l’omicidio può bene essere,
e sovente è, un fatto meramente individuale, che trova
la sua matrice in pulsioni occasionali o passionali. I
fattori emotivi che si collocano alla radice
dell’episodio criminoso possono risultare, in effetti,
correlati a speciali contingenze – come, ad esempio, per
i fatti commessi in risposta a specifici comportamenti
lato sensu provocatori della vittima – ovvero a tensioni
maturate, in tempi più o meno lunghi, nell’ambito di
particolari contesti, da quello familiare a quello dei
rapporti socio-economici. Evenienze, queste, che –
stando alla ricostruzione operata dal giudice a quo –
ricorrerebbero puntualmente nella vicenda sulla quale è
chiamato a pronunciarsi il Tribunale di Lecce, in cui il
fatto delittuoso oggetto di contestazione si
connoterebbe come episodio «a carattere reattivo a
fronte di una lunga storia di violenze subite»
dall’imputata, nell’ambito di una relazione affettiva in
dissoluzione.
Di conseguenza, in un numero tutt’altro che marginale di
casi, le esigenze cautelari – pur non potendo essere
completamente escluse – sarebbero suscettibili di
trovare idonea risposta anche in misure diverse da
quella carceraria, che valgano a neutralizzare il
“fattore scatenante” o ad impedirne la riproposizione: e
così, anzitutto, quanto ai fatti legati a particolari
contesti, tramite misure che valgano comunque ad operare
una forzosa separazione da questi dell’imputato o
dell’indagato, nei termini già evidenziati dalla
sentenza n. 265 del 2010. Donde, in conclusione, la
carenza di una adeguata “base statistica” della
presunzione assoluta in questione, pure incidente sul
valore primario della libertà personale.
Per il resto, non può che ribadirsi che – contrariamente
a quanto sostenuto dall’Avvocatura dello Stato – né il
primario rilievo dell’interesse protetto dalla
fattispecie incriminatrice, né esigenze di contenimento
di eventuali situazioni di allarme sociale possono per
altro verso valere, di per sé, come base di
legittimazione della predetta presunzione assoluta. Di
qui, dunque, l’esigenza costituzionale di trasformarla
in presunzione solo relativa.
7. – L’art. 275, comma 3, secondo e terzo periodo, cod.
proc. pen. va dichiarato, pertanto, costituzionalmente
illegittimo nella parte in cui – nel prevedere che,
quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine
al delitto di cui all’art. 575 cod. pen., è applicata la
custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti
elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze
cautelari – non fa salva, altresì, l’ipotesi in cui
siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso
concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari
possono essere soddisfatte con altre misure.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 275,
comma 3, secondo e terzo periodo, del codice di
procedura penale, come modificato dall’art. 2 del
decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11 (Misure urgenti in
materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla
violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori),
convertito, con modificazioni, dalla legge 23 aprile
2009, n. 38, nella parte in cui – nel prevedere che,
quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine
al delitto di cui all’art. 575 del codice penale, è
applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che
siano acquisiti elementi dai quali risulti che non
sussistono esigenze cautelari – non fa salva, altresì,
l’ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in
relazione al caso concreto, dai quali risulti che le
esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre
misure.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte
costituzionale, Palazzo della Consulta, il 9 maggio
2011.
F.to:
Paolo MADDALENA, Presidente
Giuseppe FRIGO, Redattore
Gabriella MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 12 maggio 2011. |