La privacy contabile non intralcia
l’accertamento di illeciti tributari che violano il
principio di solidarietà
Con sentenza 10573 del 13 maggio,
la Corte di cassazione ha precisato – tra l’altro – che
ai fini fiscali sono valide le ispezioni sul conto
bancario di un collaboratore dell’imprenditore, anche se
l’autorizzazione dell’autorità giudiziaria è stata
revocata. Infatti, “la tutela del segreto bancario non
può ostacolare” l’accertamento “di illeciti tributari”.
Il fatto
Nell’ambito di un’inchiesta penale
per evasione fiscale, la Guardia di finanza aveva
ottenuto l’autorizzazione dell’autorità giudiziaria per
procedere a verifiche sui conti bancari di un
collaboratore di un imprenditore. Durante le indagini
era entrata in vigore una nuova norma che alzava la
soglia di punibilità per il reato in merito al quale si
procedeva e, quindi, era venuta meno la responsabilità
penaltributaria dell’operatore. Per tale motivo,
l’autorizzazione era stata revocata, ma l’ufficio, una
volta ottenuti i tabulati sui versamenti del
collaboratore, aveva provveduto a emettere un avviso di
rettifica Iva.
L’atto viene impugnato con ricorso,
che è accolto dalla Commissione tributaria provinciale,
mentre la Commissione regionale, in riforma del primo
giudicato, ha ritenuto irrilevante la revoca
dell’autorizzazione agli accertamenti bancari della
procura della Repubblica, per depenalizzazione della
fattispecie nel corso delle indagini, mentre rilevava
che la mancanza di autorizzazione del comandante di zona
o dell’ispettore compartimentale costituiva un mero
rilievo interno. Inoltre, per il fatto che il
contribuente aveva la disponibilità di conti bancari
intestati al collaboratore, egli era gravato dell’onere
di dimostrare la non inerenza delle operazioni, con la
conseguente imputazione delle posizioni creditorie e
debitorie.
Il successivo ricorso per
cassazione viene fondato dal soccombente su una serie di
motivi, tra i quali spicca, per interesse, quello
concernente violazione degli articoli 51 e 63 del Dpr
633/1972, per asserita successiva mancanza di
autorizzazione dell’autorità giudiziaria all’utilizzo,
in sede fiscale, dei documenti bancari, per cui
occorreva, onde non invalidare l’accertamento per
inutilizzabilità delle prove raccolte, l’autorizzazione
dell’ispettore compartimentale ovvero del comandante di
zona della Guardia di finanza.
Occorre premettere che, ai sensi
dell’articolo 33, comma 3, del Dpr 600/1973, e
dell’articolo 63, comma 1, del Dpr 633/1972, la Guardia
di finanza coopera con gli uffici fiscali, tra l’altro,
per l’acquisizione e il reperimento di elementi utili ai
fini dell’accertamento e per la repressione delle
violazioni delle leggi in materia di imposte dirette e
sull’Iva. Nell’attività investigativa, la stessa, previa
autorizzazione dell’autorità giudiziaria, utilizza e
trasmette agli uffici finanziari documenti, dati e
notizie comunque acquisiti nell’esercizio dei poteri di
polizia giudiziaria.
La decisione
La Corte di legittimità, con la
sentenza in esame, ha nuovamente affrontato la rilevante
questione del valore da attribuire alle risultanze delle
indagini bancarie in assenza della relativa
autorizzazione, applicando – nel rigettare l’opposizione
del contribuente – una serie di principi di diritto
consuntivati nell’espressione che nessun segreto può
essere opposto a un accertamento tributario, anche se la
verifica è sui conti del collaboratore
dell’imprenditore.
In particolare, la Cassazione
rileva al riguardo che, secondo il proprio percorso
interpretativo, la mancanza dell’autorizzazione,
prevista ai fini della richiesta di acquisizione, dagli
istituti di credito, di copia dei conti bancari
intrattenuti con il contribuente, non preclude
l’utilizzabilità dei dati acquisiti, atteso che detta
autorizzazione attiene ai rapporti interni e che in
materia tributaria non vige il principio – valido nel
procedimento penale – dell’inutilizzabilità della prova
irritualmente acquisita, salvi i limiti derivanti da
eventuali preclusioni di carattere specifico(Cassazione,
sentenze 7279/2009 e 4987/2003).
Inoltre, la stessa prassi
giurisprudenziale ha chiarito che l’autorizzazione
dell’autorità giudiziaria, richiesta per la
trasmissione, agli uffici delle imposte, dei documenti,
dati e notizie acquisiti dalla Guardia di finanza
nell’ambito di un procedimento penale, è posta a tutela
della riservatezza delle indagini penali e non dei
soggetti coinvolti nel procedimento medesimo o di terzi,
con la conseguenza che la mancata produzione o
riproduzione testuale dell’autorizzazione non tocca
l’efficacia probatoria dei dati trasmessi, né implica
l’invalidità dell’atto impositivo adottato sulla scorta
degli stessi (Cassazione, sentenze 857/2010, 17746/2006
e 28695/2005).
Peraltro, il contribuente è incorso
in un grossolano equivoco difensivo, atteso che nella
specie non occorreva l’autorizzazione (articoli 32,
comma 1, n. 2), del Dpr 600/1973 e/o 51, comma 2, n. 1),
del Dpr 633/1972) necessaria per le indagini finanziarie
poste in essere dall’Agenzia delle Entrate o dalla
Guardia di finanza, bensì soltanto quella – prevista dai
richiamati articoli 33, comma 3, del Dpr 600/1973 e/o
63, comma 1, del Dpr 633/1972 – del procuratore della
Repubblica per la trasmissione agli uffici finanziari
della documentazione acquisita nell’ambito di un
processo penale.
Tanto più che nel caso trattato non
necessitava neppure quest’ultima per la sopravvenuta
depenalizzazione della violazione, che rendeva
insussistenti le superiori esigenze di riservatezza e
carente di ogni potere l’autorità giudiziaria. Né tale
mancanza ha procurato un “concreto pregiudizio al
contribuente” (Cassazione, sentenze 18836/2006,
14023/2007 e 16874/2009).
In tal modo, svincolati da
qualsiasi altro ostacolo, rivivono gli ordinari poteri
di accertamento che consentono all’Amministrazione
finanziaria (nell’ambito descritto dagli articoli 39 del
Dpr 600/1973 e 54 e 55 del Dpr 633/1972) di poter
ricostruire la posizione reddituale del contribuente
sulla base di tutti gli elementi che, a qualsiasi titolo
e a prescindere dalla fonte di provenienza, siano stati
legittimamente acquisiti all’istruttoria.
Conti intestati a terzi
In tale contesto, non può neppure
costituire impedimento la lamentela del contribuente
circa l’utilizzazione dei riscontri su conti intestati a
soggetti terzi, in quanto, ai fini fiscali, sono valide
le ispezioni sul conto di un collaboratore
dell’imprenditore, nonostante la revoca
dell’autorizzazione dell’autorità giudiziaria.
Infatti, sia la prassi
amministrativa (circolare 32/2006) sia la giurisprudenza
consolidata tollerano ispezioni sui conti dei familiari
del contribuente, anche in mancanza di un’espressa
previsione normativa, per cui risulta ormai fuor di
dubbio l’estendibilità delle indagini ai conti di
“terzi”, ossia di soggetti non direttamente interessati
dall’attività di controllo, ma sui quali il soggetto
passivo d’imposta possa operare.
In particolare, è stato deciso che,
a norma dell’articolo 32, comma 1, n. 7), del Dpr
600/1973, gli uffici finanziari, previa autorizzazione
della direzione regionale delle Entrate, possono
acquisire dagli istituti di credito non solo copia dei
conti bancari intrattenuti con il contribuente (con la
specificazione di tutti i rapporti inerenti o connessi a
tali conti, comprese le garanzie prestate da terzi) e
ulteriori dati, notizie e documenti di carattere
specifico relativi a tali conti, bensì anche analoghe
indicazioni relative a ogni altro soggetto. Questo
quando sia dimostrato, anche sulla base di presunzioni
gravi, precise e concordanti, che il contribuente è
l’effettivo possessore dei redditi formalmente intestati
a tale diverso soggetto (Cassazione, sentenze 8683/2002,
374/2009, 21454/2009 e 5913/2010).
E’ stato poi affermato (Cassazione,
sentenze 8507/2010 e 16062/2010) che l’utilizzazione dei
dati risultanti dalle copie dei conti correnti bancari
non può ritenersi limitata, in caso di società di
capitali, ai conti formalmente intestati all’ente, ma
riguarda anche quelli formalmente intestati ai soci,
amministratori o procuratori generali, allorché risulti
provata dall’Amministrazione finanziaria, anche tramite
presunzioni, la natura fittizia dell’intestazione o,
comunque, la sostanziale riferibilità all’ente dei conti
medesimi o di alcuni loro singoli dati.
In sostanza, nell’ambito degli
accertamenti finanziari, la presunzione del denaro
affluito nei conti rimane fondata se non viene
adeguatamente giustificata mediante la “prova di
estraneità” (Cassazione, sentenze 27032/2007 e
5913/2011).
Il pregio della sentenza 10573/2011
consiste, quindi, nel fatto che la Corte, ampliando la
casistica, fa un altro passo avanti ammettendo
l’ispezione anche sui conti dei collaboratori.
Né, ha aggiunto, la tutela del
segreto bancario può ostacolare l’accertamento di
illeciti tributari. Un’affermazione in linea con la
posizione assunta dalla Corte costituzionale (sentenza
51/1992), secondo cui la tutela del segreto bancario non
può spingersi fino a costituire ostacolo o intralcio
all’attuazione di esigenze costituzionali primarie, come
l’accertamento degli illeciti tributari, costituenti
ipotesi di particolare gravità in quanto rappresentano
violazione di un dovere inderogabile di solidarietà. La
Consulta, con la richiamata sentenza, ha precisato che
il paradigma di garanzia proprio dei diritti di libertà
personale è inapplicabile al segreto bancario, non
essendo alla base di quest’ultimo valori della persona
umana da tutelare, ma più semplicemente istituzioni
economiche e interessi patrimoniali.
Infine, nelle stesse motivazioni,
il Collegio di legittimità ha ricordato che, sia nel
diritto interno sia nel sistema comunitario (articolo 17
direttiva 77/388/Cee), il contribuente non può detrarsi
l’Iva assolta su operazioni elusive, in quanto volte a
conseguire il solo risultato del beneficio fiscale,
senza una reale e autonoma ragione economica
giustificatrice delle operazioni economiche che, perciò,
risultano eseguite in forma solo apparentemente corretta
(Cassazione 10352/2006).
Salvatore Servidio |