Persona e danno.it
Un recente appello firmato da
autorevoli personalità del mondo cattolico ha messo bene
in luce i motivi per cui si ritiene urgente, oggi,
varare la legge sulle "direttive anticipate di
trattamento". Personalmente condivido i principi
ispiratori di quell'appello, e le preoccupazioni che lo
animano. Per questo motivo ritengo utile contribuire
alla riflessione con qualche ulteriore annotazione.
Va precisato che la legge che andrà
in discussione ha un titolo molto ampio, che rende
ragione di un fatto: al suo interno si collocano
articoli che riguardano l'eutanasia, il suicidio
assistito, le cure palliative, il fine vita, gli stati
vegetativi, l'alleanza terapeutica, nonché, ovviamente,
il consenso informato. Ciò che, secondo gli estensori
della legge, dovrebbe attraversare questi argomenti è
appunto il tema delle dichiarazioni anticipate di
trattamento che un soggetto in grado di intendere e
volere può redigere per esprimere dei desiderata
rispetto a una situazione in cui non potrà dare il
proprio consenso informato a prassi di cura e di
assistenza. Se guardiamo ai motivi che oggi vengono
addotti dai sostenitori di questa legge, essi sono
riconducibili all'impegno a favore della vita e della
salute del cittadino, alla preoccupazione di vietare sia
l'eutanasia, sia il suicidio assistito e di ripristinare
la cosiddetta alleanza terapeutica. Sono motivi
assolutamente condivisibili. Alcuni oppositori di questa
legge, che in certi casi coincidono con coloro che per
primi hanno caldeggiato, sotto un governo di diverso
orientamento politico, l'introduzione del cosiddetto
testamento biologico, lamentano le restrizioni poste
all'esercizio della volontà del cittadino, chiedono che
l'ultima parola non sia lasciata al medico, ma al
paziente stesso, contestano l'articolo connesso
all'impossibilità di rifiutare in anticipo alimentazione
e idratazione e, in alcuni, più rari casi, si spingono a
difendere esplicitamente anche l'introduzione
dell'eutanasia e del suicidio assistito. Ora, partendo
da una piena e incondizionata adesione ai principi
ispiratori di questa legge, resta però da chiedersi se
davvero si ottenga l'effetto sperato introducendo un
riconoscimento giuridico delle direttive anticipate, che
già ora potevano essere "prese in considerazione" dai
medici (secondo quanto prescritto dal Codice
deontologico e dalla cosiddetta Convenzione di Oviedo).
A nessuno sfugge che in fondo questa legge consente ciò
che già è consentito e vieta quanto è già vietato,
lasciando l'ultima parola al medico. Perché allora una
legge? Ora, si dice, questa scelta è dovuta al fatto che
con il caso Englaro si è creato un vuoto legislativo di
fronte alla cosiddetta magistratura creativa che ha
abusato in termini interpretativi delle pretese volontà
espresse da Eluana e perciò bisogna chiarire i limiti
entro cui la volontà pregressa di un cittadino può
essere accolta dal medico e riconosciuta dalla società.
Qui, a mio avviso, si colloca però una questione
decisiva, che potrebbe capovolgere il disegno della
legge stessa. Finora le dichiarazioni non avevano alcun
riconoscimento giuridico e perciò l'ultima parola era
lasciata al medico, il quale peraltro doveva evitare sia
l'accanimento terapeutico, sia ogni forma di eutanasia.
Se ci si fosse limitati a chiarire le fattispecie in cui
si incorreva in un reato qualora si fosse prestato
ascolto a dichiarazioni, spontanee e libere, che di
fatto potevano contenere indicazioni atte a indurre
comportamenti che potevano essere concausa della morte
del paziente, si sarebbe ottenuto l'effetto di
rafforzare la tutela della vita umana senza però dare
eccessiva consistenza alla volontà pregressa del
cittadino, facendo valere un atteggiamento fiduciario
nei confronti della medicina e del medico. Ma facendo
una legge che, come questa, riferendosi alla
Costituzione e al principio del consenso informato
conferma in modo autorevole il peso della volontà
pregressa del cittadino, si apre facilmente una strada
che può portare a stabilire almeno due situazioni non
previste, ma prevedibili.
La prima è che, in nome di questo
riconoscimento della volontà del cittadino, presente in
questa legge, si tenti, ricorrendo ad ulteriore sede
giuridica, di togliere i vincoli attualmente presenti e
si aprano le porte sia all'eutanasia, sia al suicidio
assistito. Non si può dimenticare, infatti, che questa
legge non esclude affatto la legittimità del rifiuto di
ciò che si può annoverare sotto la voce delle cure, per
cui un cittadino, in previsione di trovarsi in uno stato
vegetativo, potrebbe rifiutare preventivamente di
ricevere degli antibiotici, o di poter usufruire di
ossigeno e eventuale respiratore. La legge prevede
soltanto che non vengano sospese alimentazione e
idratazione. Chi si oppone ai principi ispiratori di
questa legge troverebbe in questa impostazione, mi
sembra, una breccia per poter dire che se il cittadino
ha il diritto di rifiutare delle terapie, a maggior
ragione può rifiutare ciò che non rientra nelle terapie.
In seconda battuta, si potrebbe
sostenere che, una volta poste delle limitazioni alle
scelte del cittadino, non avrebbe senso lasciare
l'ultima parola al medico: se, infatti, ciò che si può
chiedere è conforme alle legge, non determina alcun
reato, risponde al principio per cui ogni trattamento
medico richiede il consenso informato, allora non si
capisce perché il medico possa poi decidere di seguire o
no delle indicazioni scritte e certificate. Detto in
altro modo, si potrebbe chiedere di trasformare le
"dichiarazioni" in "direttive anticipate", vincolanti
l'operato del medico. Del resto non si capirebbe perché
istituire un registro nazionale di pure dichiarazioni
che in ogni caso verrebbero valutate dal medico nelle
varie situazioni.
Queste brecce presenti nella legge
sono dovute al fatto che, sull'onda del caso Eluana, se
ne è di fatto seguita la logica. A mio avviso, soltanto
indebolendo il valore giuridico delle dichiarazioni
anticipate e rafforzando i criteri che permettano di
riconoscere e vietare i casi di suicidio assistito e di
eutanasia si potrebbe evitare ogni futuro abuso
interpretativo delle dichiarazioni stesse, che pure
moralmente hanno un loro specifico valore. Se si
riconoscono giuridicamente le dichiarazioni anticipate
si ottiene lo stesso risultato? Personalmente penso di
no.
Chi, come lo scrivente, condivide ì
principi ispiratori di questa legge, ritiene che il nodo
teorico che rende difficilmente praticabile l'auspicata
alleanza terapeutica stia proprio nella questione del
peso giuridico da attribuire a una volontà non attuale e
al venir meno di un quadro generale di fiducia nella
medicina e nell'assistenza, minata da un'enfasi
irrealistica posta sul principio dell'autonomia e della
libertà, che rischia di trovare indiretta conferma in
questa legge.
Il dibattito su come scrivere una
legge che favorisca l'assistenza e impedisca l'eutanasia
è un campo in cui sono legittime diverse interpretazioni
e certamente non lo si può trasformare in una prova
generale di "consenso", più o meno informato.
Soprattutto è necessario non
confondere mai le questioni di fine vita con quelle che
riguardano le persone, giovani e meno giovani, che si
trovano nelle condizioni di stato vegetativo o di minima
coscienza: per loro la vita è un fatto e un fine, e non
una fine. Ciò che sicuramente oggi ci è richiesto è
quello di valorizzare le buone pratiche mediche e
assistenziali che permettono di guardare con fiducia al
gesto di affidarsi ad altri quando non saremo più in
grado di essere noi il punto di riferimento per noi
stessi e per coloro che ci amano.
Perché, legge sì legge no, chi non
vorrà fissare su un registro pubblico i suoi desideri
merita di trovare lo sguardo attento e competente di un
medico capace di comprendere il significato della
proporzionalità dei trattamenti e della generosa
perseveranza terapeutica. |