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Tra le principali innovazioni
introdotte con il c.d. Decreto «Salva Italia», varato
con Decreto Legge 6 dicembre 2011, n. 201 (in Gazzetta
Ufficiale 6 dicembre 2011, n. 284), definitivamente
varato con modifiche con l’approvazione del disegno di
legge n.3066 il 22 dicembre 2011 e recante
''Disposizioni urgenti per la crescita, l'equità e il
consolidamento dei conti pubblici'', vi è indubbiamente
la norma che eleva, a strumento principe di tutela, la
sanzione penale, col fine di garantire la correttezza
dei rapporti tra la Amministrazione Finanziaria dello
Stato ed il contribuente.
L’articolo 11 comma 1 del D.L.
201/2011, sotto la rubrica “Emersione di base
imponibile”, infatti, recita “Chiunque, a seguito delle
richieste effettuate nell’esercizio dei poteri di cui
agli articoli 32 e 33 del decreto del Presidente della
Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, e agli articoli 51
e 52 del decreto del Presidente della Repubblica 29
settembre 1972, n. 633, esibisce o trasmette atti o
documenti falsi in tutto o in parte ovvero fornisce dati
e notizie non rispondenti al vero è punito ai sensi
dell’articolo 76 del decreto del Presidente della
Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445. La disposizione di
cui al primo periodo, relativamente ai dati e alle
notizie non rispondenti al vero, si applica solo se a
seguito delle richieste di cui al medesimo periodo si
configurano le fattispecie di cui al decreto legislativo
10 marzo 2000, n.74.
Come si evince chiaramente dalla
appena menzionata rubrica della norma in esame la ratio
dell’intervento legislativo è la lotta alla evasione
fiscale.
Va preliminarmente osservato come
in sede di conversione da parte del Parlamento del D.L.
201/2001, sia stato aggiunto l’ultimo capoverso della
norma in esame, con la funzione di restringere il campo
di applicazione della medesima.
Sotto il profilo delle scelte di
politica criminale, prosegue dunque, senza tentennamento
alcuno, la tendenza del legislatore ad una decisa
inversione di rotta rispetto alla linea a suo tempo
intrapresa con l’approvazione del D.Lgs. 74/2000 e la
abolizione della legge n° 516/1982, quando nella lotta
alla evasione fiscale si era, invece, privilegiato il
ricorso a sanzioni amministrative, lasciando alla
sanzione penale il ruolo di extrema ratio, operante solo
in presenza di condotte decettive in danno della
amministrazione finanziaria dello Stato.
Il superamento della impostazione
originaria propria del D.Lgs. 74/2000 si era infatti già
manifestata con l’introduzione, dopo la metà del primo
decennio degli anni 2000, degli articoli 10 bis, 10 ter
e 10 quater del D. Lgs. 74/2000, volti a sanzionare
penalmente ed in modo grave il mero omesso versamento di
imposte dovute, seppur correttamente dichiarate. Senza,
pertanto, che le condotte incriminate fossero
caratterizzate da alcun animo decettivo.
Tale tendenza ripristinatoria
dell’utilizzo della sanzione penale nella lotta
all’evasione fiscale era poi proseguita di recente con
la legge 148/2011, che ha introdotto nuove e minori
soglie di punibilità per la applicazione delle sanzioni
penali di cui agli articoli 3 e 4 del D.Lgs. 74/2000 nel
caso di dichiarazioni dei redditi ed IVA (30.000 e
50.000 euro per l’imposta evasa, 1 milione e 2 milioni
per i corrispettivi occultati).
Ora l’utilizzo della sanzione
penale nella repressione dell’evasione fiscale trova la
sua massima esaltazione nell’articolo 11 comma 1 del
D.L. 201/2011, con cui è stata introdotta una nuova
fattispecie penale, di amplissima portata, in base alla
quale fornire dati falsi all’Amministrazione finanziaria
può comportare la reclusione fino a tre anni.
Tale norma infatti prevede la
configurabilità di un delitto per chiunque esibisca o
trasmetta atti o documenti falsi in tutto o in parte,
oppure fornisca dati o notizie non rispondenti al vero,
a seguito di richieste avanzate dall’Agenzia delle
Entrate o dalla Guardia di Finanza, nell’ambito, tra le
altre ipotesi, di questionari, inviti al
contraddittorio, accessi, ispezioni o verifiche.
La modifica introdotta con la
conversione in legge del D.L. (introduzione dell’ultimo
capoverso) pare complicare ulteriormente la precisa
definizione del campo di applicazione della nuova
incriminazione.
Scatta, infatti, la sanzione penale
per chi esibisce o trasmette all'amministrazione
finanziaria atti o documenti falsi. Se invece si
comunicano notizie non rispondenti al vero il reato
scatta soltanto se, successivamente alle richieste del
fisco, ed in conseguenza di queste, sia configurabile un
delitto tributario. Questo quanto emerge dalla nuova
versione dell'articolo 11, del Dl 201/2011.
Le condotte cui è ricollegata la
tutela penale, dopo la modifica in sede di conversione,
sono in concreto ora due: l'esibizione o la trasmissione
di atti o documenti falsi; la comunicazione di dati e
notizie non rispondenti al vero.
Entrambe devono seguire una
richiesta effettuata dall'Agenzia delle Entrate o della
Guardia di Finanza nell'esercizio dei poteri ai fini
dell'accertamento delle imposte sui redditi e dell'Iva.
Tuttavia, mentre nella prima
ipotesi (casi di falsità di atti o documenti trasmessi),
il reato si configura a prescindere dalle conseguenze
della condotta del contribuente che ha trasmesso o
esibito tali atti o documenti falsi, nella seconda,
l'emendamento approvato in sede di conversione prevede
che la sanzione penale trovi applicazione solo se, a
seguito delle richieste, si configurano le fattispecie
previste dal decreto 74/2000 (delitti imposte sui
redditi e Iva).
Come evidente e come chiarito anche
dalla Suprema Corte in una recentissima pronuncia in
tema di frode fiscale (Cass. Pen., Sez. III, 15 dicembre
2011, n° 46591/11) è irrilevante la distinzione tra
falso ideologico o materiale dell’atto.
Ciò posto si potrà, quindi,
verificare che coloro che emettono o utilizzano fatture
false risponderanno del nuovo reato per il solo fatto di
averle esibite o trasmesse all'amministrazione
Finanziaria. Ne consegue pertanto che questi soggetti,
il più delle volte, verranno perseguiti per due reati in
concorso: emissione (o utilizzazione) di fatture false
ed esibizione di documenti falsi.
Per quanto concerne, invece, la
comunicazione di informazioni o dati non rispondenti al
vero, le modifiche, hanno strutturato una autonoma
ipotesi delittuosa che si configura solo laddove, a
seguito delle richieste, si configuri un altro reato in
base al decreto legislativo 74/2000.
Tale seconda fattispecie lascia
perplessi sotto il profilo interpretativo. Parrebbe in
ossequio al principio di tassatività ritenere che il
reato tributario “successivo” debba essere conseguenza
diretta, o meno, delle informazioni non veritiere, ma
nel caso di fattispecie che si configura al superamento
di una soglia, quale effetto deterministico dovrà essere
attribuito alle false informazioni.
Allo stato attuale, ed in attesa
dei primi spunti interpretativi, è evidente che il
contribuente, onde minimizzare il rischio penale dovrà
privilegiare ove possibile, risposte alle richiesta
della Amministrazione Finanziaria che non implichino a
sua cura trasmissione di atti o documenti.
Le due fattispecie non hanno invece
distinzione sotto il profilo dell’apparato
sanzionatorio, che è quello stesso posto da alcuni anni
a presidio delle c.d. “autocertificazioni”, che il
privato cittadino rilascia alla Pubblica Amministrazione
Ciò che si nota immediatamente è
l’evidente anticipazione della soglia della tutela
penale rispetto al fenomeno della evasione. Il reato si
perfeziona infatti a prescindere dall’accertamento o
meno di una evasione, in quanto si puniscono le mere
condotte di mendacio al Fisco e, dunque, sia le condotte
prodromiche alla evasione, che quelle condotte
verosimilmente volte a rendere più difficoltoso allo
Stato l’accertamento di una evasione fiscale già
avvenuta od in fieri. Ciò sempre e comunque per la
trasmissione di atti o documenti falsi.
Ora, infatti, con l’art. 11 comma 1
D.L. 201/2011 ogni atto o documento che viene esibito,
trasmesso, al Fisco, a fronte di una sua richiesta,
assurge a vera e propria autocertificazione, con quel
che ne consegue, in termini di punibilità, in caso di
falsità dell’atto o documento, ovvero la reclusione fino
a tre anni.
Nel caso poi in conseguenza delle
comunicazione si integri altro reato tributario, anche
la semplice comunicazione o dichiarazione assurgerà al
rango di autocertificazione oggetto di tutela penale.
E’ importante sottolineare che si
tratta della introduzione di una nuova fattispecie
incriminatrice, in quanto, prima della sua entrata in
vigore, le suddette condotte attive erano sanzionate
unicamente in via amministrativa (art. 10 D.lvo
471/1997[1]).
Trattandosi di nuova incriminazione
essa è, per dettato costituzionale, come tutte le norme
penali, irrettroattiva e pertanto troverà applicazione
solo per i fatti (comunicazioni, dichiarazioni o
documenti prodotti al fisco) commessi successivamente
alla entrata in vigore del DL 201/2011 e dunque dopo il
06 dicembre 2011.
Particolarmente preoccupante è la
formulazione legislativa della norma atta a sanzionare
chiunque esibisca o trasmetta atti o documenti falsi in
tutto o in parte, oppure, con i limiti di cui sopra,
fornisca dati o notizie non rispondenti al vero, a
seguito di richieste avanzate dall’Agenzia delle Entrate
o dalla Guardia di Finanza, nell’ambito, tra le altre
ipotesi, di questionari, inviti al contraddittorio,
accessi, ispezioni o verifiche.
Se tale formulazione generica può
sollevare dubbi di legittimità costituzionale per
violazione dei canoni di tassatività e determinatezza
propri delle norme penali, il primo rischio concreto che
si
corre è proprio quello di un
amplissimo campo di applicazione della norma, nonché di
definire i confini fra le due nuove fattispecie. Si
pensi ad uno dei casi più frequenti: la risposta ad un
questionario scritto della Amministrazione Finanziaria
può integrare la trasmissione di atti o documenti
(considerata la rilevanza del falso ideologico) ovvero
costituisce (come parrebbe preferibile) mera
trasmissione scritta di notizie false?
Andiamo comunque a vedere,
sinteticamente, quale può essere il campo, estremamente
vasto, di applicazione della nuova fattispecie
incriminatrice.
Sotto il profilo dei soggetti
attivi si nota immediatamente come il reato, lungi dal
configurarsi come reato proprio del contribuente, può
essere commesso da “chiunque” e dunque anche da
consulenti, professionisti, intermediari finanziari che
non rispondano correttamente alle richieste della
amministrazione finanziaria nel corso di un controllo su
una persona fisica o giuridica dei cui dati sono in
possesso.
Sotto il profilo dei soggetti
destinatari delle richieste del fisco, che possono
portare a responsabilità penale, sono davvero una
molteplicità i potenziali soggetti attivi. Si pensi a
titolo meramente esemplificativo e senza alcuna pretesa
di essere esaustivi:
- a persone fisiche e
giuridiche quando è in corso un controllo nei loro
confronti (richieste in occasione di verifiche fiscali,
richieste a comparire di persona, indicazioni su
prelevamenti e finanziamenti, richieste mezzo lettera di
trasmissione di atti e documenti, invio al contribuente
di questionari, richiesta dei rapporti intrattenuti con
gli intermediari finanziari ...)
- a persone fisiche e
giuridiche quando non è in corso un controllo nei loro
confronti (invio di questionari, richiesta di dati e
notizie, richiesta di trasmissione di atti o documenti
…)
- a intermediari
finanziari;
- a notai, procuratori del
registro, conservatori dei registri immobiliari e altri
pubblici ufficiali;
- a organi e
amministrazioni dello stato, enti pubblici,
assicurazioni …;
- a professionisti sui
rapporti con i clienti;
Quanto alla natura delle richieste
è sufficiente, in questa sede, ricordare come assai
spesso le istanze degli uffici della Amministrazione
finanziaria siano di frequente assai ampie e generiche
nei contenuti e per contro assai onerose quanto a mole
di informazioni e documenti di cui si pretende la
consegna.
Si potrebbe giungere al paradosso
che anche la produzione di una dichiarazione dei
redditi, a fronte di una richiesta del Fisco
nell’esercizio dei poteri di cui agli artt. 32 e 33 del
DPR 600/1973, potrebbe, a determinate condizioni,
divenire presupposto di contestazione penale ex art. 11
comma 1 del DL 201/2011, ove si rivelasse infedele la
dichiarazione prodotta anche per importi assolutamente
risibili.
Ciò in evidente contrasto con la
ratio ispiratrice della riforma del 2000 e con profili
di dubbia costituzionalità per violazione dell’articolo
3 della Costituzione in relazione al reato di
dichiarazione infedele ex art. 4 del DLgs. 74/2000, per
il perfezionarsi del quale è tuttora necessario che
l’imposta evasa sia superiore a 50.000 euro e che la
base imponibile non dichiarata sia superiore al 10% di
quella indicata in dichiarazione e comunque a 2 milioni
di euro.
Alla luce di quanto sopra pare
assolutamente condivisibile l’assunto secondo cui
laddove vi sia anche il minimo dubbio, sia opportuno,
quando possibile, opporre il diniego di collaborazione a
fronte di richieste della Amministrazione Finanziaria
dello Stato, per due ordini di ragioni.
Innanzitutto, considerato che dal
punto di vista della prassi accade, assai di sovente,
che vengano richiesti dati o documenti che potrebbero
essere acquisiti autonomamente dall’ente accertatore
semplicemente rivolgendosi alla Guardia di Finanza
ovvero ad altra Sede della Agenzia delle Entrate, giova
ricordare che la lett. f) del comma 1 dell’art. 7 del
recente DL 70/2011, convertito nella L. 106/2011,
dispone che “i contribuenti non devono fornire
informazioni che siano già in possesso del Fisco e degli
enti previdenziali ovvero che da questi possono essere
direttamente acquisite da altre Amministrazioni”.
In altre parole, appare legittimo e
senz’altro comprensibile, ove non addirittura
consigliabile, il comportamento del contribuente o del
di lui professionista o consulente che, in sede di
richieste di dati, notizie e documenti esercitate
dall’Amministrazione finanziaria ex artt. 32 e 33 del
DPR 600/1973, opponga il suo diritto di non esibire,
trasmettere o fornire alcunché, ogniqualvolta si tratti
di informazioni concernenti, a mero titolo
esemplificativo, documentazione fiscale già presentata,
bilanci depositati presso il Registro delle imprese,
beni immobili, beni mobili registrati e, alla luce delle
recenti novità, qualsivoglia rapporto con intermediari
finanziari.
Al di fuori delle predette ipotesi
di diniego legittimo, deve banalmente rilevarsi che,
mentre il mendacio scritto, ma con i limiti di cui
sopra, anche verbale è ora sanzionato penalmente, la
semplice reticenza, anche laddove non giustificata,
rimane sanzionata solo in via amministrativa, con la
multa da euro 258 ad euro 2.065, ai sensi dell’art. 11
D.Lgs. 471/1997[2]. In base al principio di tassatività,
infatti, le condotte omissive non paiono riconducibili
alla fattispecie penale neointrodotta dall’art. 11 comma
1 D.L. 201/2011.
Ci sia, infine, consentito
concludere queste brevissime osservazioni con un, almeno
apparente, nodo gordiano presente nella norma in esame,
che alimenta i dubbi di legittimità costituzionale della
stessa.
Supponiamo che le richieste della
Amministrazione Finanziaria dello Stato vadano a colpire
un soggetto che ha posto in essere condotte di evasione
fiscale penalmente rilevanti (si pensi a colui che ha
utilizzato in contabilità delle fatture per operazioni
inesistenti). Il soggetto si troverebbe nella
paradossale situazione di dover autodenunciare la
consumata frode fiscale ovvero incorrere nel reato di
cui all’art. 11 comma 1 D.L. 201/2011, con buona pace
del principio cardine del diritto secondo cui “nemo
tenetur se detegere”.
Avv. Enrico Fontana, dicembre 2011
(riproduzione riservata)
[1] Art. 10 D.Lgs. 18 dicembre
1997, n. 471 (Riforma delle sanzioni tributarie non
penali in materia di imposte dirette, di imposta sul
valore aggiunto e di riscossione del tributi, a norma
dell'articolo 3, comma 133, lettera q) , della legge 23
dicembre 1996, n. 662): “Violazione degli obblighi degli
operatori finanziari. 1. Se viene omessa la trasmissione
dei dati, delle notizie e dei documenti richiesti ai
sensi dell' articolo 32, primo comma, numero 7, del
decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre
1973, n. 600 , e dell'articolo 51, secondo comma, numero
7, del decreto del Presidente della Repubblica 26
ottobre 1972, n. 633 nell'esercizio dei poteri inerenti
all'accertamento delle imposte dirette o dell'imposta
sul valore aggiunto ovvero i documenti trasmessi non
rispondono al vero o sono incompleti, si applica la
sanzione amministrativa da euro 2.065 ad euro 20.658. Si
considera omessa la trasmissione non eseguita nel
termine prescritto. La sanzione è ridotta alla metà se
il ritardo non eccede i quindici giorni.
1-bis. La sanzione prevista al
comma 1 si applica nel caso di violazione degli obblighi
di comunicazione previsti dall' articolo 7, sesto comma,
del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre
1973, n. 605.
2. La sanzione prevista nel comma 1
si applica nel caso di violazione degli obblighi
inerenti alle richieste rivolte alle società ed enti di
assicurazione e alle società ed enti che effettuano
istituzionalmente riscossioni e pagamenti per conto di
terzi ovvero attività di gestione ed intermediazione
finanziaria, anche in forma fiduciaria, nonché all'Ente
poste italiane.
3. Fino a prova contraria, si
presume che autori della violazione siano coloro che
hanno sottoscritto le risposte e, in mancanza di
risposta, i legali rappresentanti della banca, società o
ente.
4. All'irrogazione delle sanzioni
provvede l'ufficio nella cui circoscrizione si trova il
domicilio fiscale del contribuente al quale si riferisce
la richiesta.
[2] Art.11 d.Lsg. 471/1997: “Altre
violazioni in materia di imposte dirette e di imposta
sul valore aggiunto.
1. Sono punite con la sanzione
amministrativa da euro 258 ad euro 2.065 le seguenti
violazioni:
a) omissione di ogni comunicazione
prescritta dalla legge tributaria anche se non richiesta
dagli uffici o dalla Guardia di finanza al contribuente
o a terzi nell'esercizio dei poteri di verifica ed
accertamento in materia di imposte dirette e di imposta
sul valore aggiunto o invio di tali comunicazioni con
dati incompleti o non veritieri;
b) mancata restituzione dei
questionari inviati al contribuente o a terzi
nell'esercizio dei poteri di cui alla precedente lettera
a) o loro restituzione con risposte incomplete o non
veritiere;
c) inottemperanza all'invito a
comparire e a qualsiasi altra richiesta fatta dagli
uffici o dalla Guardia di finanza nell'esercizio dei
poteri loro conferiti”. |