Articolo di David Mancini
Sommario: 1) L'emergenza della
tratta a scopo di sfruttamento del lavoro. Diffusione
del fenomeno e percezione sociale. 2) Conoscenza del
fenomeno e intervento multi-agenzia. 3) Parametri
normativi di riferimento per un definizione di lavoro
forzato. 3.1) Le Convenzioni OIL sul lavoro forzato.
3.2) L’approdo normativo dell’ONU e dell’Europa.
L’arresto della CEDU. 4) La definizione del lavoro
forzato. Un problema superato a livello internazionale,
ma persistente nelle legislazioni penali nazionali. 5)
Il progetto di legge C2784 della xv^ legislatura e la
definizione di grave sfruttamento lavorativo. 6) L’art.
12 del D.L. 13 agosto 2011, n. 138, convertito nella
legge 14 settembre 2011, n. 148, che introduce l’art.
603bis del codice penale.
1. L'emergenza della tratta a scopo
di sfruttamento del lavoro. Diffusione del fenomeno e
percezione sociale
Lo sfruttamento lavorativo è una
condizione che spesso contraddistingue i migranti
provenienti dai diversi continenti, ma può coinvolgere
anche i cittadini dell'Unione europea (come nel caso dei
tanti cittadini neocomunitari).
In realtà, il lavoro forzato, come
riconosciuto autorevolmente, è ancora un fenomeno
sottovalutato[1] e scarsamente contrastato, ma per
opinione unanime è anche la forma di schiavitù moderna
più diffusa e meno percepita. Una delle spiegazioni
possibili risiede nella considerazione che, al di là
delle forme più estreme in cui si assiste ad una
sostanziale privazione della libertà di azione e
movimento attraverso metodi coercitivi o violenti, lo
sfruttamento del lavoro avviene in modo sommerso,
impalpabile, in contesti difficilmente monitorabili
dagli organi preposti. A differenza dello sfruttamento
sessuale, poi, presenta sfumature più variegate che
possono rendere più arduo identificarne le vittime,
percepirne o qualificarne il disvalore.
Le situazioni di lavoro forzato
possono svilupparsi particolarmente in determinati
settori economici che si prestano a pratiche abusive o
irregolari. Le macroaree della grey economy, del lavoro
clandestino, del lavoro nero, sono tutti campi che
possono favorire la nascita di relazioni di sfruttamento
tra datore di lavoro e lavoratore. Il lavoro
nell’edilizia, quello nel settore agricolo, in
stabilimenti manifatturieri, il lavoro domestico, nel
settore della pesca e del turismo sono tra gli ambiti
lavorativi che maggiormente fanno registrare situazioni
di grave sfruttamento del lavoro. L’emersione di queste
forme di lavoro forzato o di grave sfruttamento
lavorativo è ardua per la vulnerabilità ed il timore
delle vittime, per la difficoltà di monitorare e di
investigare degli organi competenti e talvolta per
l’assenza di validi strumenti normativi, sia in termini
di assistenza e protezione delle vittime, sia in termini
repressivi.
Nel mondo ogni giorno milioni di
persone - tra cui una percentuale significativa di
bambini [2] - sono sfruttati. Peraltro, la varietà di
forme di sfruttamento del lavoro è infinita, e comprende
anche le forme di sfruttamento come l'accattonaggio
forzato, la costrizione a compiere reati, come borseggi,
scippi, furti, la ricezione, il trasporto e/o la
cessione di merci rubate e di sostanze stupefacenti[3].
Secondo l'Organizzazione
Internazionale del Lavoro (OIL), il numero di persone
vittime del traffico a livello mondiale ammonta, come
minimo e secondo stime di qualche anno fa, a 2,45
milioni, di cui almeno mezzo milione sono nell'area
geografica OSCE[4]. Questa stima non tiene conto dei
casi di servitù per debiti, in cui le vittime sono
soggiogati e sfruttati con mezzi sottili, di solito
tramite una combinazione di minacce e vincoli economici.
In molti paesi, tra cui gli Stati
partecipanti all'OSCE, diversi settori del lavoro non
hanno ancora un minimo di disciplina interna in linea
con le norme internazionali del lavoro. Questo conduce
alla protezione diseguale dei lavoratori in termini di
salario minimo, orario di lavoro, ferie, straordinari,
sicurezza sociale. In altre parole, più precario è lo
status giuridico del lavoratore migrante, maggiore è la
sua vulnerabilità e la potenziale dipendenza dal datore
di lavoro.
Naturalmente, non tutti i
lavoratori migranti sono vittime della tratta. Ma un
numero significativo di essi sono progressivamente
sfruttati fino alla condizione estrema della tratta a
scopo di sfruttamento lavorativo, molto più di quanto
non sia stato riconosciuto fino ad oggi. Vi sono molti
settori del lavoro che per caratteristiche strutturali
si prestano all’abuso della posizione di vulnerabilità
dei lavoratori.
La tratta non mostra alcun segno di
cedimento in tutto il mondo. E’ quindi fondamentale, per
cambiare la percezione comune del fenomeno - spesso
trattato come un reato marginale e lontano dalla realtà
comune – quasi esclusivamente riguardante il settore
dello sfruttamento sessuale.
Al contrario, il traffico a scopo
di sfruttamento del lavoro assume connotati e dimensioni
sempre più diffuse e preoccupanti.
Le interdipendenze in un mondo
globalizzato, la spinta al profitto e la competizione
economica che portano alla necessità di ridurre i costi
di produzione, soprattutto in periodi recessivi e di
pesante crisi economica, nonchè le pratiche attuali di
consumo e produzione dell'economia mondiale hanno
indotto un aumento della domanda di manodopera a basso
costo ed a condizioni “fuori mercato”.
Il rischio attuale è che la tratta
a scopo di sfruttamento lavorativo diventi una
componente strutturale di determinati settori
produttivi, con i gruppi criminali organizzati sempre
più protesi a sfruttare la vulnerabilità sociale dei
lavoratori, specialmente dei lavoratori migranti.
Il lavoro forzato quale forma della
tratta di persone è un fenomeno con cui l’Italia ha
cominciato a fare i conti in tempi relativamente
recenti. Infatti, sia le indagini conoscitive che le
azioni di supporto alle vittime si sono sviluppate
lentamente nel corso degli ultimi anni. Solo da pochi
anni ed a partire dal 2006, malgrado la previsione
normativa dell’art. 18 del decreto legislativo n.
286/1998, i programmi di protezione sociale possono
accogliere anche persone trafficate a scopo di grave
sfruttamento lavorativo. La prima ricerca sociale su
tale fenomeno è stata pubblicata nel 2003[5], per essere
seguita poi da altri specifici studi[6]. Le conoscenze
finora acquisite sul fenomeno derivano soprattutto dalle
informazioni fornite da vittime prese in carico dai
programmi di protezione sociale, dall’esperienza dei
testimoni privilegiati/e che operano nel settore
anti-tratta e dalle indagini penali in materia.
L’Europa dell’Est è l’area
geografica da cui proviene la maggior parte delle
vittime, seguita da Africa, Asia e, infine, America
Latina. Gli uomini costituiscono la maggioranza delle
vittime ad oggi identificate, sebbene si registrino
proporzioni diverse tra la presenza maschile e quella
femminile a seconda del paese di provenienza. La fascia
d’età più rappresentata, per entrambi i generi, è quella
tra i 30 e i 40 anni. Infine, il livello di
scolarizzazione pare essere mediamente alto, in
particolare per le donne che risultano essere
generalmente più scolarizzare degli uomini[7].
I principali push e pull factors
coincidono con quelli sussistenti per le vittime di
tratta a scopo di sfruttamento sessuale e per le persone
migranti in generale. La necessità di migliorare le
proprie condizioni di vita e l’economia familiare sono
le motivazioni principali che spingono le vittime a
migrare. Alcune persone, per lo più provenienti da paesi
africani o asiatici, lasciano il proprio paese anche per
motivi politici, sociali, etnici e religiosi.
Nella maggior parte dei casi il
percorso migratorio inizia con la scelta volontaria del
migrante di espatriare, mentre di rado la partenza è
frutto di un atto coercitivo. Il costo del pagamento del
viaggio varia in base alla distanza da coprire dal paese
di origine all’Italia e, molto spesso, viene corrisposto
dopo aver chiesto un prestito a parenti/amici o a
persone estranee[8], spesso inserite in organizzazioni
criminali che fungono da intermediarie con quelle che
sottoporranno a controllo e sfruttamento il lavoratore o
la lavoratrice una volta giunto/a a destinazione. Il
debito contratto diventa quindi un fattore di
vulnerabilità decisivo per il lavoratore o la
lavoratrice migrante.
La necessità di restituire quanto
prima il denaro preso in prestito in patria per
sostenere il viaggio rende vulnerabile il migrante e lo
spinge verso situazioni di grave sfruttamento, poiché
subordinato psicologicamente ed economicamente nei
confronti del datore di lavoro e dell’eventuale
intermediario (in termini gergali, “caporale”).
Sebbene vi siano casi in cui le
vittime lasciano il proprio paese conoscendo già la
propria destinazione lavorativa, la maggior parte sembra
partire senza avere informazioni sufficienti per trovare
un lavoro una volta approdate in Italia. I principali
canali informali e formali a cui generalmente si
rivolgono per trovare informazioni su possibilità
occupazionali sono: a) parenti ed amici già presenti sul
territorio italiano; b) caporali – spesso connazionali –
che fungono da mediatori illegali tra datori di lavoro e
la manodopera; c) datori di lavoro contattati o di cui
si è avuto il nominativo prima della partenza dal paese
di origine; e) agenzie del lavoro ordinarie o
interinali. I settori produttivi italiani principalmente
coinvolti in casi di tratta a scopo di lavoro forzato
sono quello industriale (principalmente nei comparti
delle costruzioni, del tessile-abbigliamento e della
meccanica/metallurgica), quello dei servizi
(specialmente nel lavoro domestico e nel settore
turistico e ristoro-alberghiero) e in quello agricolo
(in particolare nei comparti floro-vivaistico e
produzione in serra, piantagione e semina, raccolta e
immagazzinamento merci).
Le vittime sono costrette a subire
condizioni di vita e di lavoro difficili che non possono
negoziare: hanno orari di lavoro molto lunghi e senza
pause intermedie; percepiscono retribuzioni molto
inferiori a quelle pattuite e a quelle stabilite per
legge; vengono pagate irregolarmente o non vengono
pagate affatto; vengono illuse rispetto all’ottenimento
di permessi di soggiorno, per cui, a volte, sono
costrette a versare del denaro; sono costrette a
svolgere mansioni pesanti, nocive o pericolose; devono
subire comportamenti xenofobi, discriminazioni di genere
o molestie sessuali. A perpetrare azioni mirate
all’assoggettamento e allo sfruttamento dei lavoratori e
delle lavoratrici vi sono in primo luogo i datori di
lavoro, seguiti da caporali senza scrupoli che chiedono
continuamente denaro ai migranti per qualsiasi “servizio
richiesto”: impiego giornaliero, trasporto dal luogo di
ritrovo a quello di lavoro e viceversa, affitto di un
posto letto (spesso in soluzioni alloggiative disumane e
in condizioni igienico-sanitarie pessime), invio di
denaro in patria e così via[9].
2. Conoscenza del fenomeno e
intervento multiagenzia
La stessa conoscenza del fenomeno
della tratta a scopo di sfruttamento lavorativo sconta
un gap rispetto alle ricerche effettuate nel campo della
tratta a scopo di sfruttamento sessuale. Le vittime di
tratta a scopo di sfruttamento lavorativo sono ancor più
invisibili e sono indotte ad emergere solo quando fatti
specifici e traumatici accadono, come nel caso di gravi
incidenti sul lavoro.
Il fenomeno è dunque in ombra. Ad
esempio, finora esistono ancora pochi elementi
conoscitivi e giudiziari da cui desumere l’esistenza
delle c.d. organizzazioni a doppia sponda, vale a dire
di organizzazioni all’interno delle quali le fasi del
reclutamento di lavoratori migranti nei Paesi di origine
siano direttamente connesse con la destinazione ultima
dello sfruttamento attraverso network criminali
collegati in grado di suddividersi i ruoli sulla base di
programmazioni preventive. Si colgono in alcune recenti
indagini elementi da cui rilevare legami tra taluni
datori di lavoro italiani e agenzie di collocamento o di
intermediazione di manodopera situate nei Paesi di
origine, ma ancora manca la certezza della ricostruzione
giudiziaria. Pertanto, sulla base delle attuali
conoscenze, la maggior parte dei migranti irregolari
sfruttati nel lavoro intraprende un percorso migratorio
autonomo affidandosi alle reti di smuggling, per poi,
mediante l’aiuto di comunità di connazionali o di
intermediari abusivi, etnici e non, trovare lavoro nel
Paese di destinazione, in situazione di tale precarietà
e vulnerabilità da prestare facilmente il fianco a
potenziali forme di sfruttamento[10].
Il lavoro forzato può essere
generalmente individuato in presenza di almeno due
circostanze: 1) la costante minaccia di sanzioni; 2) la
sottomissione al lavoro contro la propria volontà[11].
Finora, il trafficking con scopo di
sfruttamento sessuale ha dominato il dibattito e
l’identificazione delle vittima di trafficking per
lavoro forzato è stata ancora più ardua e problematica,
tanto che manca una definizione di lavoro forzato
all’interno del Protocollo per prevenire, reprimere e
punire la tratta di persone, specialmente donne e
bambini, allegato alla Convenzione delle Nazioni Unite
contro la criminalità organizzata transnazionale,
siglata a Palermo nel dicembre 2000. Una delle ragioni
principali di questa assenza può essere data dal fatto
che in molti Paesi il trafficking finalizzato allo
sfruttamento lavorativo non è percepito e regolato come
un fatto di rilevanza penale, sia per ragioni
macroeconomiche (in alcuni Stati è proprio l'apparato
statuale a tollerare lo sfruttamento), sia perchè molto
spesso i confini tra grave sfruttamento lavorativo,
lavoro precario, lavoro mal retribuito e privo di
garanzie non sono di facile sottolineatura.
Ciò non significa che non sia
preciso compito degli Stati individuare le risposte
punitive per ogni forma di sfruttamento lavorativo.
A livello internazionale matura la
consapevolezza che la sfida non può essere raccolta
esclusivamente dagli organismi di contrasto oppure dalle
ONG. E’ necessaria la partecipazione protagonista della
comunità e delle parti sociali In questo scenario, le
parti sociali possono e devono svolgere un ruolo
maggiore nel contrasto al lavoro forzato o sfruttato, in
termini di organizzazione del lavoro, di formazione del
personale, di sensibilizzazione del problema e di
creazione di opportunità di lavoro per i gruppi
vulnerabili[12].
Il contributo del settore privato è
infatti potenzialmente decisivo in tre aree. In primo
luogo, il settore privato può rispondere al lavoro
forzato come soggetto attivo di iniziative di
responsabilità sociale e anche di riduzione dei rischi
per le imprese che traggono utilità dal lavoro
sfruttato. Ad esempio la riduzione dei rischi è connessa
alle sanzioni per responsabilità delle ente, allorchè
questo trae vantaggio dalla tratta a scopo di
sfruttamento lavorativo, ma può riguardare anche la
tutela dell’immagine di un’impresa. In secondo luogo, il
settore privato può svolgere un ruolo fondamentale nel
reinserimento socio-lavorativo delle vittime che
vogliano tornare nel loro paese di origine o di
inclusione sociale nel Paese di accoglienza,
contribuendo a minimizzare i rischi di nuova caduta
nella tratta. Infine, il settore privato, con il
sostegno di adeguate politiche economiche, potrebbe
svolgere un ruolo importante nell'affrontare le
disuguaglianze socio-economiche che creano un ambiente
favorevole all’attecchimento della tratta di esseri
umani e del lavoro forzato. Il grave sfruttamento
lavorativo non è soltanto una lesione di diritti
fondamentali della persona, ma è un germe che inquina i
tessuti economici e produttivi, poiché altera la
concorrenza tra le imprese, secondo uno schema che
presenta alcune affinità con il dualismo tra impresa
legale e impresa criminale.
In ambito OSCE[13], sono stati
compiuti negli ultimi dieci anni progressi significativi
per creare consapevolezza sul fenomeno della tratta a
scopo di sfruttamento lavorativo, grazie agli sforzi e
alla partnership di governi, organizzazioni
internazionali, ONG e sindacati[14]. In questo contesto,
le partnership tra ONG e sindacati sono importanti. Essi
hanno ruoli distinti, anzi complementari. I sindacati
hanno il compito fondamentale di proteggere e migliorare
gli standard lavorativi di tutti i lavoratori, nazionali
e immigrati, e possono giocare un ruolo cruciale nella
lotta contro la tratta. Tale ruolo può variare da
promuovere e monitorare l'attuazione dei salari minimi e
altre condizioni di lavoro, pressione sui governi per
assicurare condizioni di lavoro dignitose e accesso alla
giustizia, nonché sostenere i lavoratori nella
rivendicazione individuale e collettiva dei loro.
E anche essenziale che i sindacati
rafforzino la loro capacità di raggiungere i lavoratori
del settore del lavoro nero e nei settori
tradizionalmente più soggetti a sfruttamento. I
sindacati potrebbero anche mettere la loro esperienza e
competenza a disposizione delle associazioni dei
lavoratori migranti, regolari ed irregolari.
Al fine di migliorare
l'identificazione e la protezione delle vittime
sfruttate in settori economici, è necessario allargare
l'approccio multidisciplinare e di creare partnership
per assicurare, in collaborazione con le forze
dell’ordine e la magistratura inquirente, la
partecipazione attiva delle ONG, degli ispettori del
lavoro, dei sindacati e delle organizzazioni per i
diritti dei migranti una azione di contrasto più
efficace al grave sfruttamento lavorativo.
A questo proposito, assume, dunque,
un ruolo prioritario la capacità degli operatori di
adottare gli accorgimenti di base per un approccio
corretto con la potenziale vittima, che fatica a
percepirsi come tale o spesso rifiuta di riconoscersi
tale. Il lavoro integrato di identificazione è, quindi,
prioritario. Le azioni disorganiche possono essere
occasionalmente utili, ma in generale sono destinate al
fallimento, con la pesante conseguenza della mancata
identificazione delle possibili vittime e della loro
involontaria riconsegna al mercato dello sfruttamento.
Occorre un’adeguata formazione
degli operatori, necessariamente integrata e
multiprofessionale. In un fenomeno così caratterizzato
dalla multidisciplinarietà, ogni operatore deve
conoscere le prerogative e le specificità delle altre
professionalità per agire consapevolmente e in sinergia.
Non può esservi attività
d’identificazione se manca adeguata assistenza e
protezione. Per queste ragioni, in Italia l’art. 18,
d.lgs. n. 286/1998 ha rappresentato uno strumento
fondamentale nell’ottica dell’approccio centrato sul
rispetto dei diritti umani[15]. Le legislazioni italiana
e belga hanno costituito l’esempio di riferimento
europeo per la costruzione di un modello
d’identificazione, assistenza e protezione alle vittime
di tratta.
Proprio l’art. 18 contiene al suo
interno le indicazioni sui presupposti organizzativi e
operativi rivolti alle diverse istituzioni coinvolte.
Esso è uno strumento polifunzionale che richiede
l’intervento congiunto dei diversi attori. La piena
realizzazione delle sue potenzialità impone azioni
integrate tra i diversi enti coinvolti, affinché
realmente l’opportunità normativa raggiunga gli scopi
sul piano sociale e giudiziario.
Se gli attori coinvolti riescono a
pianificare, nel rispetto dei ruoli, strategie comuni di
intervento si riduce il rischio che i fenomeni criminali
restino sommersi o che le vittime non vengano trattate
come tali. Alla formazione delle professionalità deve
far seguito uno stabile lavoro di rete, affinché si
attivino procedure collegate in caso di contatto, nei
diversi ambiti, con potenziali vittime di tratta. In
Italia si sono realizzate alcune buone prassi,
formalizzate con procedure permanenti e condivise dagli
enti interessati, che hanno costituito un esempio anche
in ambito internazionale. Il metodo da perseguire è
quello della cooperazione multiagenzia che, non è frutto
di fantasia creativa, ma è la traduzione in prassi di
previsioni normative internazionali. In quest’ottica,
l’approccio di sistema al fenomeno sin dalla fase
dell’identificazione delle vittime, le risposte
preventive e repressive integrate attraverso la
cooperazione, la creazione di reti, le buone prassi e i
protocolli di intervento, la formazione
multidisciplinare sono elementi necessari in termini di
prevenzione, di assistenza, protezione e reinserimento
sociale delle vittime, di repressione dei criminali.
Nel settore dello sfruttamento del
lavoro, poi, è necessario un profondo cambiamento
culturale anche negli ispettori del lavoro, ai quali è
stato tradizionalmente inculcato un ruolo di verifica
amministrativa e formale, mentre oggi nel mondo del
lavoro irregolare possono celarsi tracce di gravissimi
reati contro i diritti umani.
La magistratura deve essere in
prima linea nella proposizione di nuovi modelli, anche
organizzativi, capaci di affrontare i cambiamenti, come
rileva il C.S.M. con la Risoluzione specifica sulla
materia della violenza di genere in data 8 luglio 2009.
La successiva Delibera del 21 luglio 2009, rivolta ai
dirigenti degli uffici giudiziari, indica espressamente
la necessità di provvedere alla promozione e
l’elaborazione di protocolli di intesa multiagenzia (con
altre autorità giudiziarie, soggetti istituzionali, enti
e associazioni di volontariato che operano nel settore
delle violenze di genere). L’obiettivo fondamentale è
quello dell’identificazione, assistenza e protezione
della vittima[16].
Questi interventi del C.S.M. sono
in sintonia con le norme sovranazionali, tra cui:
protocollo ONU sul trafficking
in persons: artt. 6, 9, 10;
protocollo ONU sullo smuggling
of migrants: artt. 14 e 16;
decisione quadro UE 19 luglio
2002 sulla lotta alla tratta degli esseri umani: art. 7;
piano d’azione UE dicembre 2005
sulle migliori pratiche, le norme e le procedure per
contrastare e prevenire la tratta di esseri umani (cfr.
par. 5(i)) e relativa “valutazione e monitoraggio
dell’attuazione ...” del 2008;
programma di Stoccolma, Un
Europa aperta e sicura al servizio e a tutela dei
cittadini, approvato dal Consiglio europeo nel dicembre
2009;
convenzione di Varsavia del
Consiglio d’Europa 16 maggio 2005 sulla lotta contro la
tratta di esseri umani: artt. 5, 10, 12, 14, 27, 28, 29.
In particolare, l’art. 35 fa espresso obbligo agli Stati
di promuovere accordi intersoggettivi e
multidisciplinari, anche con le ONG e con la società
civile. A tale Convenzione l’Italia ha dato finalmente
ratifica ed esecuzione, seppure in chiave minimalista,
con la legge 2 luglio 2010, n. 108;
nuova direttiva 2011/36/UE del
parlamento europeo e del consiglio del 5 aprile 2011
concernente la prevenzione e la repressione della tratta
di esseri umani e la protezione delle vittime –
considerando n. 6 e articoli 11, 12, 13.
Anche la decisione quadro del 15
marzo 2001 (2001/220/GAI) sulla posizione della vittima
nel procedimento penale, nei suoi considerando e
nell’art. 13, introduce obblighi per gli Stati di
garantire interventi stabili di organizzazioni di
assistenza alle vittime nel corso del procedimento.
Lo strumento italiano dell’art. 18,
d.lgs. n. 286/1998 si presta ad essere la base per
modelli di interventi basati sulla cooperazione
multiagenzia, come dimostrano recenti studi che si
prefiggono l’obiettivo di pervenire
all’istituzionalizzazione delle procedure multiagenzia a
livello nazionale e transnazionale, e alla creazione di
reti collegate e di meccanismi di coordinamento
interdisciplinari[17].
3. Parametri normativi di
riferimento per un definizione di lavoro forzato
Volendo tracciare alcune generali
linee identificative delle situazioni di lavoro forzato
è possibile richiamare almeno sei tipologie di condotte
abusive, così come enucleate dall’OIL: 1) violenza
fisica o sessuale ovvero minaccia di tale violenza; 2)
limitazioni alla libertà di movimento del lavoratore; 3)
lavoro prestato sotto il vincolo della restituzione di
un debito; 4) trattenimento del salario o rifiuto
completo di pagarlo; 5) sottrazione e trattenimento del
passaporto o dei documenti di identità; 6) minaccia di
denuncia del lavoratore alle autorità.
Ovviamente, ciascuna di queste
condotte, soprattutto quelle di natura più
“contrattuale”, dovrebbe essere ampiamente illustrata
dai legislatori nazionali per evidenziare quale
intensità deve assumere ed a quali altri elementi si
deve unire, per qualificare le diverse forme di
sfruttamento, fino a parlare di lavoro forzato e/o di
tratta a scopo di sfruttamento lavorativo.
A parere di chi scrive, un dato
attuale, alla luce del Protocollo addizionale ONU sul
trafficking che, come detto, non fornisce una
definizione di lavoro forzato ma lo contiene nella
definizione più ampia di tratta di persone e che si
affianca alle numerose Convenzioni OIL, è l’obbligo per
gli Stati di introdurre una specifica previsione
incriminatrice per tutti i casi di grave sfruttamento
lavorativo che esulino dalla fattispecie più generale di
trafficking, a prescindere che la vittima sia un
lavoratore migrante irregolare, proprio perché si tratta
sempre di problematiche attinenti a violazioni di
diritti umani e non soltanto ai temi dell’immigrazione
negli Stati di destinazione[18], come molte
legislazioni, tra cui quella italiana, hanno finora
presupposto.
In sostanza, non pare accettabile
una situazione normativa contraddistinta da una profonda
frattura tra i concetti di lavoro forzato e tratta a
scopo di sfruttamento lavorativo (sanzionati quali gravi
reati contro i diritti fondamentali) e tutti gli altri
casi di sfruttamento lavorativo non assimilabili ai
precedenti che appaiono relegati in un limbo
bagatellare, malgrado anch’essi costituiscano gravi
violazioni dei diritti delle persone. Peraltro, la
soluzione non può essere quella forzata di far rientrare
lo sfruttamento lavorativo tout court nel fenomeno della
tratta, che costituisce un area più ristretta e
qualificata.
Certo è che il compito di delineare
i confini dello sfruttamento lavorativo nelle sue
diverse qualificazioni (lavoro irregolare e sommerso,
grave sfruttamento lavorativo non identificabile come
tratta, tratta a scopo di sfruttamento lavorativo e/o
lavoro forzato) è tutt’altro che agevole, se è vero che
i primi tentativi dimostrano non poche difficoltà nel
fornire definizioni condivisibili di grave sfruttamento
lavorativo (quando non si traduca in vera e propria
tratta di persone) che siano sufficientemente chiare per
gli interpreti, non siano eccessivamente restrittive e
d’altro canto, non si confondano con più blande (e
talvolta quasi fisiologiche) irregolarità nelle
relazioni tra datore di lavoro e lavoratore.
3.1. Le Convenzioni OIL sul lavoro
forzato
La Convenzione sul lavoro forzato
del 1930 (n. 29) definisce il lavoro forzato, impone
agli Stati di criminalizzare e contiene un elenco di
eccezioni. L'articolo 2, par. 1 definisce “lavoro
forzato o obbligatorio” ogni lavoro o servizio che si
esige da una persona sotto minaccia di una punizione, e
per il quale detta persona non si è offerta
volontariamente.
L'articolo 2, par. 2 prevede
eccezioni per il lavoro che è richiesto da: (1) servizio
militare obbligatorio, a condizione che sia di carattere
puramente militare, (2) normali obblighi civici, (3) una
condanna da parte di un tribunale; (4) casi di
emergenza, e (5) servizi pubblici minori eseguiti da
membri di una comunità e nel diretto interesse della
comunità.
Il "lavoro forzato o obbligatorio a
vantaggio di privati, aziende o associazioni" è stato
immediatamente proibito (art. 4, cpv. 1), ma il
riferimento ai lavori forzati imposti dalle autorità
pubbliche non è stato originariamente bandito a titolo
definitivo. Piuttosto, gli Stati membri si sono
impegnati a "sopprimere l'uso del servizio forzato o
obbligatorio in tutte le sue forme entro il periodo più
breve possibile" (art. 1, cpv. 1). Durante un periodo
transitorio, in realtà mai espressamente specificato, il
ricorso al lavoro forzato avrebbe potuto essere
consentito "solo per fini pubblici e come eccezionali
misura" (art. 1, cpv. 2). Dal 1998, l’OIL si è
espressamente soffermata sul fatto che questo periodo di
transizione non può più essere invocato per giustificare
pratiche di lavoro forzato[19].
L’articolo 25 della Convenzione del
1930 prevede l’obbligo di criminalizzazione del lavoro
forzato: l'esazione illegale di lavoro forzato o
obbligatorio è punito come un reato penale, e sarà un
obbligo per ogni Stato membro che ratifichi la presente
convenzione per garantire che le sanzioni imposte dalla
legge siano davvero adeguate e vengano rigorosamente
rispettate.
Circa la definizione dell’articolo
2 nel corso degli anni il Comitato di esperti dell’OIL
sull’applicazione delle convenzioni ha elaborato
indagini e studi. Il concetto di lavoro o servizio reso
obbligatorio non può essere esteso alle prestazioni
scolastiche obbligatorie o alla formazione
professionale. Ma nel caso in cui la formazione
professionale "comporta una certa quantità di lavoro
pratico", può essere necessario esaminare attentamente
il contesto fattuale, per determinare se si tratta
realmente di attività di formazione professionale o, al
contrario, se comporta l'esazione di lavoro o di
servizio nella definizione di lavoro forzato o
obbligatorio.
Il concetto di minaccia di una
punizione deve essere interpretato in senso ampio. Essa
non deve essere interpretata come minaccia di sanzioni
penali, ma potrebbe anche assumere la forma di una
perdita di diritti o privilegi, come una promozione, il
trasferimento, l'accesso a nuova occupazione, la
fruizione dell’alloggio, ecc.. Molta attenzione è stata
dedicata alla questo elemento, in particolare sotto il
profilo della coercizione psicologica o di costrizione
economica. In generale, gli organi di controllo dell'OIL
hanno riconosciuto che la coercizione psicologica
potrebbe equivalere alla minaccia di una sanzione,
mentre non ugualmente si è ritenuto per una situazione
generale di costrizione economica, che potrebbe tradursi
in una minaccia di sanzione solo unitamente ad altri
elementi concreti, di volta in volta valutabili in
relazione a casi specifici.
Il concetto di offerta volontaria
rileva nel senso che il lavoro eseguito sotto la
minaccia di una punizione non è un lavoro accettato
volontariamente. In altre parole, non esiste un offerta
volontaria sotto minaccia ovvero se originata da inganno
e frode. In ogni momento deve essere affermato il
diritto inalienabile del lavoratore alla libera scelta
del lavoro; di conseguenza occorre valutare sempre la
duplice condizione se il consenso al lavoro sia frutto
di una libera scelta del lavoratore e se questi conservi
la possibilità di revocare il suo consenso.
La Convenzione sull’abolizione del
lavoro forzato del 1957 (n. 105) non opera alcuna
modifica alla definizione di lavoro forzato fornita con
la convenzione n. 29. Le due convenzioni sono
complementari. La Convenzione n. 105 è lo strumento più
recente e trae forza ed origine dalla Convenzione n. 29;
mira a proibire il lavoro forzato o obbligatorio in casi
specifici, mentre la Convenzione n. 29, d'altra parte,
stabilisce un divieto generale di lavoro forzato e
obbligatorio, ammettendo solo poche eccezioni.
L'articolo 1 stabilisce che il
lavoro forzato o obbligatorio non può essere utilizzato:
(A) come mezzo di coercizione politica o di istruzione,
o come una punizione per la detenzione o esprimere
opinioni politiche o viste ideologicamente opposte al
sistema istituito politico, sociale o economico; (B)
come metodo di mobilitazione e l'utilizzo di lavoro a
fini di sviluppo economico; (C) come strumento di
disciplina del lavoro; (D) come punizione per aver
partecipato a scioperi; (E) come un mezzo di
discriminazione razziale, sociale, nazionale o
religiosa.
La Convenzione sulle peggiori forme
di lavoro minorile del 1999 (n. 182) definisce
all’articolo 3 il lavoro minorile gravemente sfruttato
come: (A) tutte le forme di schiavitù o pratiche
analoghe alla schiavitù, quali la vendita e la tratta di
minori, la servitù per debiti e l'asservimento, il
lavoro forzato o obbligatorio, compreso il reclutamento
forzato o obbligatorio di minori per l'impiego nei
conflitti armati; (B) l'impiego, l'ingaggio o l'offerta
del minore a fini di prostituzione, per la produzione di
materiale pornografico o di spettacoli pornografici; (C)
l'impiego, l'ingaggio o l'offerta del minore ai fini di
attività illecite, in particolare per la produzione e il
traffico di droga come sono definiti dai trattati
internazionali pertinenti; (D) i lavori che, per sua
natura o per le circostanze in cui viene svolto, rischi
di compromettere la salute, la sicurezza o la moralità
dei bambini.
L'articolo 7 prevede che ogni Stato
membro "adotta tutte le misure necessarie per garantire
l'effettiva attuazione e l'applicazione delle
disposizioni attuative della presente convenzione
compresa la fornitura e l'applicazione di sanzioni
penali o altre sanzioni".
3.2. L’approdo normativo dell’ONU e
dell’Europa. L’arresto della CEDU
Il tema dello sfruttamento del
lavoro animava anche la Lega delle Nazioni, preoccupata
per il continuo commercio di schiavi africani, tanto che
si procedeva alla nomina di una commissione temporanea
sulla schiavitù nel 1924 al fine di indagare e riferire
sulla questione. Nel 1926, la Lega adottava la
Convenzione sulla schiavitù, entrata in vigore nel 1927.
Questo è stato il primo strumento internazionale a
fornire una definizione giuridica di schiavitù.
L'articolo 1 stabilisce che la schiavitù è lo stato o la
condizione di un individuo sul quale si esercitano
qualunque o tutti i poteri inerenti al diritto di
proprietà.
C'è stato dibattito su un eventuale
inserimento del riferimento al lavoro forzato, ma alla
fine i delegati hanno deciso di trattarlo separatamente.
A differenza del lavoro forzato descritto dalla
Convezione OIL del 1930, la Convenzione ONU sulla
schiavitù non conteneva deroghe ammissibili e nessun
periodo di transizione. Le parti venivano obbligate a
disporre, progressivamente e nel più breve tempo
possibile, la completa abolizione della schiavitù in
tutte le sue forme (art. 2 [b]). Nel preambolo, la Lega
sottolineò il suo desiderio di "prevenire il lavoro
forzato che presenti condizioni analoghe alla
schiavitù".
La Convenzione supplementare
sull'abolizione della schiavitù, della tratta degli
schiavi e delle istituzioni e pratiche analoghe alla
schiavitù, venne adottata nel 1956 dalle Nazioni Unite,
che citavano sia la Convenzione OIL sul lavoro forzato
che la Convenzione sulla schiavitù, decidendo così di
adottare una Convenzione supplementare relativa
all'abolizione della schiavitù. Il Preambolo osservava
che "la schiavitù, la tratta degli schiavi e le
istituzioni e pratiche analoghe alla schiavitù non sono
ancora state eliminate in tutte le parti del mondo", ed
esprimeva la necessità che la Convenzione sulla
schiavitù del 1926 avrebbe dovuto essere implementata
dalla conclusione di un convenzione supplementare,
progettata per intensificare gli sforzi nazionali e
internazionali. L'intento era quello di vietare e/o
criminalizzare anche la servitù per debiti, la servitù
della gleba, il matrimonio servile e alcune forme di
lavoro minorile.
Nel 1990, l'aumento della
migrazione globale e le prime risultanze di ingenti
traffici criminali da parte di organizzazioni
transnazionali indirizzavano l'attenzione del mondo sul
problema della tratta di uomini, donne e bambini sia per
sfruttamento sessuale e lavorativo. Nel dicembre 1998,
l'Assemblea generale dell'ONU approvava una risoluzione
per istituire un comitato ad hoc per affrontare la
problematica della tratta di persone e del traffico di
migranti. Nel dicembre del 2000 nasceva la Convenzione
di Palermo dulla criminalità organizzata transnazionale.
Il Protocollo sul trafficking delle
Nazioni Unite per prevenire, reprimere e punire la
tratta di persone, specialmente donne e bambini, è il
primo strumento internazionale per definire la tratta di
persone, anche in assenza di una specifica definizione
del lavoro forzato[20]. Una prima bozza del Protocollo
addizionale sulla tratta definiva il lavoro forzato come
ogni lavoro o servizio ottenuto da una persona sotto la
minaccia [o] uso della forza [o coercizione], e per il
quale la persona non si offre se stessa o con libera e
consenso informato, seguito da un elenco di eccezioni
simili a quelle della Convenzione n. 29.
Si è sostenuto, infatti, ad opera
di alcuni Paesi che il lavoro forzato avrebbe dovuto
essere definito con riferimento alla definizione OIL, ma
alla fine il Protocollo addizionale non ha adottato
alcun riferimento alla Convenzione n. 29 o agli elementi
di lavoro forzato nel testo finale30. Tuttavia, è
opinione assolutamente unanime e autorevole di plurimi
consessi internazionali che la definizione di tratta di
cui all’art. 3 del protocollo addizionale sul
trafficking contenga gli elementi essenziali delle
Convenzioni OIL n. 29, 105 e 182, nonché degli altri
strumenti normativi internazionali che vietano la
schiavitù[21].
Anche il Consiglio d'Europa, con la
Convenzione del 29 maggio 2005 sulla lotta contro la
tratta di esseri umani, siglata a Varsavia, adotta la
definizione Protocollo addizionale ONU sul trafficking,
prendendo atto che la Dichiarazione universale dei
diritti umani e le convenzioni OIL sul lavoro forzato
sono rilevanti per la definizione di tratta a scopo di
sfruttamento lavorativo. Di conseguenza, non corre
alcuna distinzione tra i concetti giuridici di tratta a
scopo di sfruttamento lavorativo e di lavoro forzato,
essendo le condotte generali descritte dall’art. 3 del
Protocollo addizionale sul trafficking pienamente
esaustive e comprensive degli elementi caratterizzanti
il lavoro forzato.
Sul punto, un fondamentale arresto,
di diretta rilevanza anche nel panorama
giurisprudenziale italiano, lo ritroviamo nella
disposizione dell’articolo 4 della Convenzione europea
per la salvaguardia dei diritti dell’uomo, così come
interpretato dalla Corte europea di Strasburgo con le
sentenze Siliadin c. Francia, sentenza 26 luglio 2005,
n. 73316/01 e Rantsev c. Cipro e Russia, sentenza 7
gennaio 2010, n. 25965/04[22].
La Corte europea dei diritti
dell’uomo afferma che l’assenza di un riferimento
esplicito alla tratta all’interno della CEDU non
sorprende. Essa si è ispirata alla Dichiarazione
Universale ONU dei diritti dell’uomo del 1948, che pure
non faceva diretta menzione della tratta. Nel suo art. 4
la Dichiarazione faceva riferimento alla “schiavitù e al
commercio di schiavi in ogni forma”. Tuttavia, ciò non
significa che queste norme non vadano interpretate quale
diritto vivente in relazione ai fenomeni dei nostri
giorni. I crescenti standard di tutela richiesti nella
protezione dei diritti umani impongono interpretazioni e
misure legali adeguate. La Corte rileva che la tratta di
persone, come fenomeno criminale globale, ha avuto
un’enorme crescita negli ultimi anni. Il Protocollo ONU
di Palermo del 2000 e la Convenzione COE del 2005
dimostrano l’attenzione internazionale al fenomeno. Sono
proprio questi due strumenti normativi ad essere
richiamati dalla Corte per addivenire ad
un’interpretazione evolutiva del fenomeno tratta.
La Corte, chiamata sul caso
Siliadin a stabilire quale interpretazione dare all’art.
4 della CEDU e se questa norma potesse ricomprendere
anche il concetto di tratta di persone, ha sottolineato
che la tratta di persone, il cui obiettivo ultimo è lo
sfruttamento della persona in ogni campo, tra cui quello
lavorativo, si sostanzia nell’esercizio di poteri
corrispondenti a quelli di proprietà. Le persone vengono
trattate come strumenti da vendere e acquistare e/o da
assoggettare a lavoro forzato o a sfruttamento sessuale.
Non vi è dubbio che la tratta leda la dignità umana
delle vittime e non sia compatibile con i valori di una
società democratica. Secondo un’interpretazione attuale
della CEDU non è importante verificare se sussista la
schiavitù, la servitù o il lavoro forzato (in base alle
definizioni delle Convenzioni ONU e OIL); ciò che conta
è che sussistano gli elementi essenziali richiesti
nell’art. 3 del Protocollo addizionale ONU sulla tratta
e nell’art. 4 della Convenzione COE del 2005 che, in
sostanza, ricomprendono i fenomeni descritti nei
precedenti testi normativi internazionali; in caso
affermativo, certamente la tratta rientra nell’alveo
interpretativo dell’art. 4 CEDU, così come attualizzato
e interpretato dalla giurisprudenza della Corte.
Di conseguenza, sostiene la Corte
di Strasburgo, la griglia di strumenti di assistenza e
protezione esistenti nelle legislazioni nazionali deve
essere adeguata ad assicurare un’efficace tutela delle
vittime; anche per quelle che sono solo potenzialmente
tali. E queste misure devono essere aggiuntive rispetto
a quelle di stretta repressione penale.
Osserva la Corte che il Protocollo
di Palermo e la Convenzione antitratta COE impongono un
approccio olistico per un’efficace azione di contrasto
alla tratta, con la necessaria previsione di misure di
assistenza e protezione delle vittime. La lettura in
combinato disposto degli artt. 2, 3 e 4 della CEDU
richiede che gli Stati attivino le misure di protezione
delle potenziali vittime di tratta, che debbono essere
tempestivamente identificate. È obbligatorio per gli
Stati istituire misure di protezione dell’incolumità
fisica delle vittime, anche nei Paesi di origine,
stabilire programmi di prevenzione e contrasto alla
tratta, garantire la formazione per forze di polizia e
magistrati, prevedere l’obbligo di indagare sulle
potenziali situazioni di tratta che prescindano,
comunque, dalle denunce delle vittime, ma che siano
orientate da protocolli operativi autonomi. Una indagine
efficiente deve essere indipendente dalla collaborazione
delle vittime ed essere diretta alla individuazione e
alla punizione dei responsabili.
Queste considerazioni della Corte
di Strasburgo sono di primaria importanza, alla luce del
rafforzato valore all’interno del nostro ordinamento,
dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, delle
norme CEDU e della giurisprudenza della Corte che le
interpreta. Inoltre, i principi e le azioni di
intervento sono in piena sintonia con la nuova direttiva
2011/36/UE[23] del parlamento europeo e del consiglio
del 5 aprile 2011 concernente la prevenzione e la
repressione della tratta di esseri umani e la protezione
delle vittime, e che sostituisce la decisione quadro del
Consiglio 2002/629/GAI[24] e che si incanala nel solco
disegnato, anche per il futuro, dall’Unione europea con
il Programma di Stoccolma, Un Europa aperta e sicura al
servizio e a tutela dei cittadini, approvato dal
Consiglio europeo del 10-11 dicembre 2009[25].
La nuova direttiva UE contro la
tratta è un esempio avanzato di come il contrasto al
fenomeno criminale debba essere centrato sulla tutela
dei diritti umani, in ogni momento del percorso di
contrasto, dal momento dell’identificazione della
potenziale vittima, all’assistenza ed alla protezione,
al reinserimento socio lavorativo, alla
sensibilizzazione della società, alla formazione degli
operatori e delle istituzioni, secondo la strategia
dell’intervento integrato e multi agenzia.
Per quanto riguarda la
giurisprudenza nazionale, vengono incoraggiate le
posizioni illuminate della Suprema Corte di Cassazione
che in materia è perfettamente in linea con la normativa
sovranazionale e con l’interpretazione della Corte di
Strasburgo[26].
4. La definizione del lavoro
forzato. Un problema superato a livello internazionale,
ma persistente nelle legislazioni penali nazionali
Qualche tentativo di definizione
del lavoro forzato è presente in alcuni Paesi di
destinazione come Germania, Olanda, Francia e
Belgio[27].
In Germania, la tratta a scopo di
sfruttamento del lavoro forzato si riscontra quando vi è
impiego del lavoratore in condizioni lavorative che
mostrano una palese disparità rispetto alle condizioni
di lavoro di altri lavoratori dello stesso settore o di
analoghi. Si tratta di una definizione molto
restrittiva, che apre la scena a una notevole serie di
problemi applicativi.
In Olanda, l’articolo 273b del
codice penale, novellato nel 2005, individua il lavoro
forzato, nell’ambito del più generale reato di tratta,
nelle forme di sfruttamento che ledono i diritti
fondamentali e la dignità di una persona vulnerabile.
In Francia vi sono tre diversi
profili punitivi che disciplinano distintamente una il
reclutamento, l’accoglienza e la tratta della vittima e
le altre due lo sfruttamento del lavoro forzato. In ogni
caso il lavoro forzato è definito in modo restrittivo
come “condizioni di lavoro o di vita contrarie alla
dignità del lavoratore” (art. 225 -4), ovvero come
“lavoro non retribuito o lavoro la cui retribuzione
appare chiaramente completamente sproporzionato rispetto
all’importanza della prestazione lavorativa fornita”
(art. 225-13) ovvero ancora come lavoro prestato da un
lavoratore “la cui vulnerabilità o dipendenza è
conosciuta dal reo” (art. 225-14)
Analogamente, nella legislazione
belga (legge 10 agosto 2005 di modifica al codice
penale, art. 433d) che punisce le azioni di chi
(mediante i presupposti del reclutamento, trasporto,
etc.) induce una persona a (o permette alla persona di)
lavorare in condizioni contrarie alla dignità umana.
L’esplicazione di cosa integrerebbe le suddette
condizioni non è contenuta nella legge belga, ma è
illustrata nel corso dei lavori parlamentari ed in
successive direttive ministeriali (che evidentemente in
Italia non potrebbero avere un ruolo decisivo
nell’interpretazione di una norma così ampia) le quali
menzionano salari molto bassi o completamente negati,
orario di lavoro prolungato rispetto ai limiti legali o
contrattuali, condizioni inidonee di sicurezza dei
luoghi di lavoro.
Certamente utile è la previsione,
sia in Francia che in Belgio, secondo cui in caso di
reclutamento finalizzato all’impiego lavorativo in
condizioni contrarie alla dignità umana non è necessaria
la prova di alcuna coercizione, che invece, costituisce
una circostanza aggravante della condotta[28].
Tuttavia, definire il lavoro
forzato in termini di contrarietà rispetto alla dignità
umana significa operare una lettura molto restrittiva
della Convenzione OIL n. 29, abbandonando in un’area
grigia molteplici situazioni di grave sfruttamento
lavorativo che potrebbero rientrare nell’alveo del
lavoro forzato. In Olanda si tenta di ovviare a questa
debolezza con l’affiancamento di indici di sfruttamento
ritenuti gravi e qualificativi.
In linea con le ambiguità
legislative di tanti Paesi, anche all’interno del nostro
ordinamento mancavano definizioni e discipline
legislative in grado di fronteggiare i fenomeni di
sfruttamento lavorativo, salvo quanto si dirà nei
prossimi paragrafi. Vi sono state asperità anche
maggiori nel processo volto a definire con esattezza
quali siano le condotte di grave sfruttamento lavorativo
che possano essere sanzionate in quanto assimilate al
lavoro forzato o che possano essere introdotte come
nuove ipotesi di reato dirette a colmare le zone grigie
in cui proliferano situazioni di approfittamento e
sfruttamento non tanto gravi da venire considerate
lavoro forzato o tratta a scopo di sfruttamento
lavorativo.
Questo è un problema rilevante,
alla luce della nostra legislazione penale vigente che –
almeno fino all’introduzione dell’art. 603bis c.p. di
cui si dirà - non prevedeva adeguate risposte di
contrasto, salvo che le condotte poste in essere abbiano
le caratteristiche previste dai reati di tratta o
riduzione in schiavitù, nel qual caso evidentemente
saranno applicabili gli articoli 600, 601 o 602 del
codice penale. Inoltre, altro interrogativo che si
poneva - ora parzialmente risolto - è se, eventualmente,
a questa diversa tipologia di vittime fossero
applicabili gli strumenti di tutela e protezione
sociale, a partire dall’art. 18 del decreto legislativo
286 del 1998 fino all’art. 13 della legge 228 del 2003.
La giurisprudenza implicitamente
riconosce l’esistenza di questa “zona grigia” di tutela
penale, allorchè precisa che le condizioni inique di
lavoro, l'alloggio incongruo e la situazione di
necessità dei lavoratori, non configurano il reato di
schiavitù disciplinato dall'art. 600 c.p., a patto che
il soggetto rimanga libero di determinarsi nelle proprie
scelte esistenziali (Cassazione penale, sez. V, sentenza
10 febbraio-4 aprile 2011, n. 13532).
In sostanza, esiste una notevole
area che si colloca tra le previsioni incriminatici con
sanzioni penali gravi riguardanti casi di sfruttamento
lavorativo che si manifestino con gli elementi della
tratta, di cui agli articoli 600, 601 e 602 del codice
penale e, su di un livello di gravità e deterrenza
infinitamente più blando, le norme che attualmente
puniscono l’utilizzo di lavoro irregolare, che possono
essere ricondotte agli articoli 12 comma 5 e 22 comma 12
del D.Lgs. 286/1998 con riferimento ai lavoratori
extracomunitari irregolari ovvero all’art. 18 del D.Lgs.
10 settembre 2003, n. 276 (meglio conosciuto come
decreto attuativo della legge Biagi) con riferimento
all’intermediazione clandestina di manodopera (attività
meglio nota con il termine gergale di caporalato e
punita finora con reato contravvenzionale, salvo quanto
si dirà in seguito).
Su questo specifico tema, fino a
non molti anni addietro sussisteva un sostanziale
monopolio pubblico sul mercato del lavoro, cui
conseguiva il divieto di ogni forma di intermediazione e
di somministrazione di manodopera, la cui violazione
integrava i reati previsti dapprima dall’articolo 27
della legge 29 aprile 1949, n. 264 e successivamente
dagli articoli 1 e 2 della legge 23 ottobre 1960, n.
1369 (che sanzionavano penalmente la condotta di chi,
oltre ad agire come intermediario non autorizzato sul
mercato del lavoro, si interponeva illecitamente tra
lavoratore e datore di lavoro per l’intera durata del
rapporto, mantenendo fittiziamente alle proprie
dipendenze il personale utilizzato e lucrando sulle
retribuzioni).
Questo assetto è stato modificato
dall’introduzione del lavoro interinale da parte della
legge 196/1997 e, successivamente, dal D.Lgs. 10
settembre 2003, n. 276.
Quest’ultimo intervento normativo,
in particolare, ha consentito tra l’altro
l’intermediazione nella prestazione di lavoro e la
somministrazione di manodopera, seppure nell’ambito di
una precisa cornice di regole. La giurisprudenza di
legittimità, con orientamento consolidato, ha poi
chiarito che l’abrogazione delle norme incriminatrici
contenute nelle leggi 264/1949 e 1369/1960 non ha
comportato l’abolizione dei reati posti a tutela del
mercato del lavoro, atteso che le rispettive fattispecie
devono ritenersi rivivere nelle disposizioni del
menzionato articolo 18 del D.Lgs. 276/2003 (cfr.
Cassazione IV, 20 ottobre 2010, Borelli, in Ced
Cassazione Rv. 248861).
La difficoltà di reprimere le forme
di sfruttamento lavorativo non rientranti nella tratta o
comunque non necessariamente attinenti a profili di
lavoro di migranti irregolari, ha indotto talune procure
della Repubblica a cercare soluzioni residuali o
“creative” applicando norme incriminatici di parte
generale come, ad esempio, gli articoli 605, 610, 629,
572 c.p., che potenzialmente possono coprire determinate
condotte di coercizione e sfruttamento poste in essere
da datori di lavoro criminali.
Da più parti si era auspicato nel
passato un intervento legislativo, nella cui assenza
forme di sfruttamento lavorativo “intermedio” potevano
solo dare corso a reati “bagatellari.
Se si guarda ai fenomeni con
volontà di ricercare una qualche evoluzione legislativa
si nota che le forme di sfruttamento riguardavano un
tempo soggetti vulnerabili diversi dai migranti, vale a
dire, donne, minori, lavoratori adibiti a mansioni
particolari.
Possiamo partire da lontano e
menzionare esempi “storici” a prescindere dalle tante
sanzioni amministrative esistenti.
Si pensi all’art 12 lett. A) del
dlgs 532/1999 in relazione all’art. 89 co.2 lett.a e 5
del dlgs 626/94 in materia di lavoro notturno (nello
specifico omesse cure e adempimenti sanitari in favore
dei lavoratori notturni, con sanzione penale
dell’arresto da 3 a 6 mesi o dell’ammenda da 1549 a
4.131).
Il Dlgs 26.3.2001, n. 151 in tema
di tutela della maternità e paternità che ha modificato
la legge 30.12.1971 n. 1204 (tutela delle lavoratrici
madri). Le sanzioni dell’art. 18 in relazione agli artt.
16 e 17 (divieti di adibire al lavoro le donne prima e
dopo la maternità) prevedono l’arresto fino a 6 mesi.
L’art. 16 della legge 9.12.1977, n.
903 (come sostituito dal dlgs 758/1994) in relazione
all’art. 5 (circa il lavoro notturno del lavoratore
avente a carico un disabile) e in relazione all’art. 1
(come sostituito dalla legge comunitaria 1998 in materia
di parità di trattamento tra uomini e donne) che prevede
l’ammenda da 103 a 516 euro oppure l’arresto da 2 a 4
mesi e ammenda da 516 a 2582 euro.
La legge 17.10.1967, n. 977 (tutela
del lavoro dei fanciulli e adolescenti) e relative
sanzioni di cui all’art. 26 (in relazione a: tipologie
di lavoro, età minima, orario di lavoro, riposi, lavoro
notturno, controlli sanitari e di sicurezza) che prevede
l’arresto fino a sei mesi e/o 5.164 euro di ammenda.
L’art. 13 in relazione all’art. 2
della legge 18.12.1973 (in tema di violazioni del
committente di lavoro a domicilio) che prevede l’arresto
fino a 6 mesi.
L’art. 38 dello Statuto dei
lavoratori (in relazioni a controlli discriminatori e
pervasivi) che prevede l’ammenda da 154 a 1549 euro o
l’arresto da 15 giorni a 1 anno.
Si tratta di alcuni riferimenti
esemplificativi a norme che tutelano condotte di datori
di lavoro che si avvalgono di lavoratori “vulnerabili” e
ne sfruttano tale debolezza in violazione di precisi
obblighi di legge. Sono condotte riconducibili al
concetto di sfruttamento, in conseguenza di relazioni
“impari” tra datori di lavoro “forti” e lavoratori
“deboli”. Ma le sanzioni penali attengono a
contravvenzioni e dunque sono prive di una reale
efficacia deterrente. La tutela del lavoro dalle forme
di sfruttamento, che sono amplificate dal mercato del
lavoro depresso o sregolato, è una precisa esigenza
posta dall’art. 36 Cost.[29].
5. Il progetto di legge C2784 della
XV^ legislatura e la definizione di grave sfruttamento
lavorativo
Nella precedente legislatura venne
esaminato alla camera dei deputati, dopo essere stato
approvato al senato, il progetto di legge n. 2784, che
non divenne legge perché la legislatura si interruppe
prematuramente. Questo progetto, dal titolo interventi
per il contrasto del lavoro irregolare mirava a colmare
le evidenti lacune sopra esposte, principalmente
attraverso l’introduzione di una norma, l’articolo
603bis c.p., dal seguente tenore:
(Grave sfruttamento dell'attività
lavorativa) - salvo che il fatto costituisca più grave
reato, chiunque recluti lavoratori, ovvero ne organizzi
l'attività lavorativa, sottoponendo gli stessi a grave
sfruttamento, mediante violenza, minaccia o
intimidazione, anche non continuative, esercitate nei
confronti del lavoratore sottoposto a condizioni
lavorative caratterizzate da gravi violazioni di norme
contrattuali o di legge ovvero a un trattamento
personale degradante, connesso alla organizzazione e
gestione delle prestazioni, è punito con la reclusione
da tre a otto anni, nonché con la multa di euro 9.000
per ogni persona reclutata o occupata. La pena è
aumentata se tra le persone reclutate o occupate di cui
al precedente periodo vi sono minori degli anni diciotto
o stranieri irregolarmente soggiornanti.
La condanna per il delitto di cui
al primo comma comporta:
a) l'incapacità di contrattare
con la pubblica amministrazione, per il periodo di un
anno;
b) la perdita del diritto di
beneficiare di qualsiasi agevolazione, finanziamento,
premio, restituzione e sostegno regionale, delle
province autonome, nazionale e comunitario per l'anno o
la campagna a cui si riferisce l'illecito accertato e la
revoca dei suddetti benefìci già concessi per il
medesimo anno o campagna. Nel settore agricolo si
applicano, a tale fine, l'articolo 33 del decreto
legislativo 18 maggio 2001, n. 228, e successive
modificazioni, e l'articolo 3, comma 5, della legge 23
dicembre 1986, n. 898;
c) ove si accerti l'occupazione
di almeno un lavoratore straniero irregolarmente
soggiornante sul territorio nazionale, la sospensione
delle attività dell'unità produttiva interessata per un
mese, con esclusione delle attività concernenti cicli
biologici agricoli o di allevamento del bestiame».
Questo progetto di art. 603bis
c.p., intendeva sanzionare tutti coloro che reclutano
lavoratori, ovvero ne organizzano l'attività lavorativa,
sottoponendoli a grave sfruttamento mediante violenza o
minaccia o intimidazione (anche non continuative) e le
cui condizioni di lavoro costituiscono violazione di
norme contrattuali o di legge o sono, comunque,
considerate condizioni degradanti. La norma puniva tanto
i datori di lavoro, quanto gli intermediari (c.d.
“caporali”).
In relazione a tale disposizione si
osserva che la fattispecie in esame configurava
espressamente come alternative le tre ipotesi, con la
conseguenza che ai fini della configurabilità del reato
in esame e della applicabilità della relativa sanzione
sarebbe stato sufficiente che allo sfruttamento mediante
violenza o minaccia o intimidazione si associasse uno
solo dei tre predetti comportamenti.
Questa formulazione si sostituiva
ad una precedente versione presentata al senato – simile
a quella introdotta con il d.l. 138/2011 - in cui era
presente un discutibile automatismo tra la sussistenza
di alcuni presupposti (previsione di una retribuzione
ridotta di oltre un terzo rispetto ai minimi
contrattuali, sistematiche e gravi violazioni della
disciplina in tema di orario di lavoro e di riposi,
gravi violazioni della disciplina in materia di
sicurezza e igiene nei luoghi di lavoro, reclutamento e
avviamento al lavoro tramite intermediazione abusiva) e
sussistenza del reato.
Erano previste poi una serie di
ulteriori innovazioni, quali:
un aumento di pena ove tra i
lavoratori gravemente sfruttati vi fossero minori o
stranieri irregolarmente soggiornanti;
sanzioni interdittive
conseguenti alla condanna quali: l’incapacità per un
anno di contrattare con la PA; la perdita di
agevolazioni, premio, finanziamenti, la sospensione
dell’unità produttiva per un mese, in caso venisse
accertata l’occupazione di almeno un lavoratore
straniero irregolarmente soggiornante;
la modifica dell'articolo 380,
comma 2, lettera d), del codice di procedura penale,
consentendo così l’applicabilità dell’art. 18 del D.lgs.
286/98;
la modifica della disciplina
sanzionatoria relativa ai datori di lavoro che occupano
lavoratori stranieri irregolarmente soggiornanti, con
intervento sul comma 12 dell’articolo 22 TU in materia
di immigrazione (d.lgs. 286/1998);
l’introduzione di una nuova
fattispecie di reato riguardante il datore di lavoro che
utilizzi lavoratori stranieri irregolarmente
soggiornanti usufruendo di un'attività di
intermediazione abusiva di manodopera ai sensi dell’art.
18 del d.lgs. 10 settembre 2003, n. 276, recante riforma
della disciplina in materia di occupazione e mercato del
lavoro;
la possibilità che, a fini
cautelari, venisse disposto il sequestro del luogo di
lavoro (ai sensi dell’art. 321 c.p.p.) in cui risulti
occupato il lavoratore straniero che versi nelle
condizioni sopra esposte;
l’estensione delle pene
accessorie previste per il progettato art. 603 bis c.p.
alle sopra esposte nuove norme incriminatrici;
l’estensione della disciplina
sulla responsabilità amministrativa delle persone
giuridiche di cui al decreto legislativo n. 231/2001.
Orbene, con questo intervento
legislativo sarebbe stata prevista una griglia
abbastanza completa di risposte sanzionatorie in un
ambito (il grave sfruttamento lavorativo) che ne aveva
forte esigenza. Il tutto nell’ottica della tutela di
diritti fondamentali delle persone adibite al lavoro e
con la corretta valorizzazione degli strumenti di
assistenza e protezione, tenendo ben presente che la
grande parte delle situazioni di sfruttamento
lavorativo, posto in essere, magari per il tramite di
“caporali etnici” (cioè della stessa nazionalità o
origine geografica dei lavoratori assunti e sfruttati),
da tanti datori di lavoro senza scrupoli, se non collusi
con la criminalità organizzata, trova una sponda nelle
lacune del testo unico in materia di immigrazione, con
particolare riferimento al sistema degli ingressi nel
territorio dello Stato e della stipula dei contratti di
lavoro, quale presupposto per l’ottenimento del permesso
di soggiorno e della permanenza in Italia.
6. L’art. 12 del D.L. 13 agosto
2011, n. 138, convertito nella legge 14 settembre 2011,
n. 148, che introduce l’art. 603bis del codice penale
Senonchè, alla fine, nei convulsi
giorni dell’estate 2011, caratterizzata dall’annaspare
faticoso di un legislatore proteso alla ricerca di
manovre finanziarie in grado di restituire fiducia agli
investitori internazionali e nuova spinta ad un’economia
italiana in grave crisi, vedevano la luce gli articoli
603bis e 603ter del codice penale[30], con
caratteristiche che sono ben diverse da quelle che
avevano impegnato il parlamento nella precedente
legislatura e, soprattutto, lasciando profondi dubbi
circa la concreta applicabilità della nuova
incriminazione e circa la sua effettiva utilità rispetto
alle esigenze.
Finalmente il legislatore ha
riconosciuto l’esistenza di una terra di nessuno nel
sistema repressivo delle distorsioni del mercato del
lavoro, individuando la mancanza di un’incriminazione in
grado di punire le condotte che rientrano nella mera
violazione delle regole poste dall’art. 18 del D.lgs.
276/2003 (che ora diviene davvero residuale) ma non
integrano i reati di cui agli art. 600, 601, 602 c.p..
Il reato così introdotto si pone a livello intermedio in
termini di disvalore e di risposta sanzionatoria, come
testimonia la clausola introduttiva di sussidiarietà per
il caso che il fatto costituisca un più grave reato.
Correttamente il nuovo reato viene
inserito nella prima sezione del capo III del titolo XII
della parte speciale del codice penale dedicata ai reati
contro la libertà individuale. Il bene tutelato è la
stessa dignità umana, offesa dalla privazione della
libertà e dalla mercificazione dell’essere umano.
Ciò è in linea con l’idea del grave
sfruttamento del lavoro inteso come lesione di un
diritto fondamentale dell’uomo[31].
La condotta tipica del nuovo reato
è quella di chi svolge un’attività organizzata di
intermediazione, reclutando manodopera ovvero
organizzandone il lavoro in maniera caratterizzata dallo
sfruttamento, mediante violenza, minaccia o
intimidazione, nonché approfittando dello stato di
bisogno o di necessità dei lavoratori.
Appare evidente l’intento del
legislatore di proporre una formulazione restrittiva e
ciò costituisce il principale motivo di perplessità.
Non è agevole capire quale sia il
rapporto sussistente tra la condotta tipica di
intermediazione e la specificazione: reclutando
manodopera ovvero organizzandone l’attività lavorativa
caratterizzata da sfruttamento. La lettura della norma
prima facie indurrebbe a ritenere che restino fuori
dall’ambito della norma incriminatrice le condotte di
reclutamento e organizzazione tenute direttamente
dall’utilizzatore (quindi dal datore di lavoro) senza
ricorrere all’interposizione di altri soggetti. In
questo senso si può dire che l’art. 603bis c.p.
sembrerebbe prevedere un reato proprio
dell’intermediario (in gergo caporale) sia egli di
fatto, o sia abilitato all’attività di intermediazione
secondo le regole del D.lgs. 276/2003.
E se questa è la scelta
legislativa, allora essa è senza dubbio miope, poiché
non colma le lacune sanzionatorie già descritte, del
tutto evidenti, invece, ove si comprenda la
fenomenologia del grave sfruttamento lavorativo, poiché
accade sovente che l’intermediario (caporale) sia
persona in accordo con il datore di lavoro, che si pone
nei confronti di quest’ultimo addirittura come figura
subordinata nella scala criminale[32].
Peraltro, le azioni descritte nelle
specificazioni non forniscono una definizione specifica
dell’attività di intermediazione, ma contribuiscono a
completare il concetto di condotta tipica. Ma se
l’interpretazione conduce alla sopra esposta soluzione
riduttiva, non può non rilevarsi come il concetto di
intermediazione e dunque di reclutamento, sia diverso da
quello di organizzazione, che attiene allo svolgimento
del rapporto di lavoro e dovrebbe essere, invece, di
autonoma pertinenza del datore di lavoro, se non in casi
residuali[33]. Per fare un esempio pratico, anche ove il
caporale non si limitasse al reclutamento dei
braccianti, ma si occupasse anche di raggrupparli
quotidianamente e di condurli sui luoghi di lavoro, di
esigere una quota sulla paga, di alloggiarli in apposite
strutture, non si può dire che questa attività
aggiuntiva riguardi l’organizzazione del lavoro, che
invece è decisa e stabilita dal datore di lavoro, quanto
ad orari, modalità, riposi, retribuzione, etc..
Peraltro, il momento maggiormente
degradante del lavoro sfruttato non è quello
dell’intermediazione, bensì quello dell’organizzazione –
che si traduce poi nelle prestazioni sinallagmatiche tra
datore e prestatore d’opera. E’ ovvio, anche in base
all’interpretazione riduttiva ed alla luce dei principi
del concorso di persone nel reato che, ove il datore di
lavoro sia a conoscenza dei metodi svolti concorra nel
reato commesso dall’intermediario da lui incaricato e/o
utilizzato. Inoltre, il legislatore richiede che la
condotta sanzionabile sia quella di una intermediazione
svolta in maniera “organizzata”, mediante attività
specifiche alternative quali la violenza, la minaccia e
l’intimidazione, nonché mediante l’approfittamento dello
stato di bisogno o di necessità dei lavoratori[34]. Ma
l’organizzazione dell’intermediazione è cosa diversa
dall’organizzazione del lavoro,che compete al datore.
Nel progetto di legge non approvato
e sopra illustrato, si proponeva di punire chiunque
recluti lavoratori, ovvero ne organizzi l'attività
lavorativa, con la previsione di una opzione alternativa
– attraverso il termine ovvero - tra la condotta di
reclutamento e la condotta di organizzazione,
potenzialmente realizzabili dall’intermediario o dal
datore di lavoro. Il soggetto della frase (chiunque)
poteva agire reclutando i lavoratori ovvero
organizzandone l’attività. E’ evidente la differenza –
in peius in termini di chiarezza – rispetto
all’espressione chiunque svolga un’attività di
intermediazione, reclutando manodopera ovvero
organizzandone l’attività lavorativa caratterizzata da
sfruttamento, laddove il soggetto (chiunque) è colui che
svolge un’attività di intermediazione, sia reclutando i
lavoratori, sia organizzandone l’attività di lavoro.
Ma anche in questo caso, vista
l’espressione ovvero (forma rafforzata della
congiunzione disgiuntiva o, usata soprattutto quando il
secondo termine, a cui si premette, è costituito da
un’intera proposizione, secondo il dizionario Treccani
online) che rende “l’organizzazione” aggiuntiva e/o
alternativa rispetto al “reclutamento” e non già
esplicativa di esso, l’unica interpretazione logica e
ragionevole è quella per cui l’inciso ovvero
organizzandone l’attività lavorativa deve poter essere
riferito anche al datore di lavoro. Diversamente, la
scelta legislativa, oltre che miope, sarebbe
irragionevole.
Il comma 2 del nuovo articolo
603bis tenta di definire il concetto di sfruttamento che
caratterizza l’attività lavorativa oggetto della
condotta di organizzazione. Il metodo utilizzato era già
stato criticato in occasione dei dibattiti su precedenti
disegni di legge che lo propugnavano, per la sua estrema
aleatorietà. Gli indici rivelatori dello sfruttamento
sono:
a) la sistematica retribuzione
dei lavoratori in modo palesemente difforme dai
contratti collettivi nazionali o comunque sproporzionato
rispetto alla quantità e qualità del lavoro prestato;
b) la sistematica violazione
della normativa relativa all’orario di lavoro, al riposo
settimanale, all’aspettativa obbligatoria, alle ferie;
c) la sussistenza di violazioni
della normativa in materia di sicurezza e igiene nei
luoghi di lavoro, tale da esporre il lavoratore a
pericolo per la salute, la sicurezza o l’incolumità
personale;
d) la sottoposizione del
lavoratore a condizioni di lavoro, metodi di
sorveglianza, o a situazioni alloggiative
particolarmente degradanti.
Sembra, in buona sostanza, che
ancora una volta il legislatore scarichi sull’opera
interpretativa della giurisprudenza il compito di far
luce su norme oscure. Non sarà semplice capire quando la
retribuzione è palesemente difforme o sproporzionata, e
sarà di certo critico il rilevamento di violazioni alla
normativa antinfortunistica che – per loro natura –
espongono sempre il lavoratore a pericolo per la salute,
la sicurezza o l’incolumità personale. Inoltre, l’indice
formulato sub d) rivela la potenziale debolezza della
nuova incriminazione rispetto a quella di cui
all’articolo 600 c.p., rispetto alla quale è sussidiaria
e cedevole in virtù della citata clausola di riserva.
Anche in questo caso occorre
indirizzare l’interpretazione verso l’unica strada che
non risulti irragionevole. Gli indici di sfruttamento di
cui al comma 2 servono a qualifica la condotta tipica
(anzi, ne fanno parte) indicata al comma 1. Tutti gli
indici possono essere riferiti solo ad un potenziale
datore di lavoro, raramente ad un intermediario; in
particolar modo quello di cui alla lettera C)
(violazioni della normativa in materia di sicurezza e
igiene nei luoghi di lavoro) rispetto al quale qualsiasi
intermediario non può avere una diretta responsabilità o
competenza.
Per quanto attiene all’elemento
psicologico del reato, per il perfezionamento del
delitto di intermediazione illecita e sfruttamento del
lavoro è richiesto il dolo generico, il cui oggetto
comprende tutti gli elementi della fattispecie, essendo
dunque necessario che l’agente, oltre a volere la
condotta tipizzata nel l’articolo 603bis con le relative
modalità esecutive, consideri anche lo stato di bisogno
e di necessità del lavoratore.
Al comma 3 della nuova norma
vengono introdotte tre circostanze aggravanti a effetto
speciale. La prima di esse riferisce al caso in cui
vengano reclutati più di tre lavoratori. La seconda
aggravante riguarda il caso che vengano impiegati minori
in età non lavorativa, con una specificazione del tutto
desueta ed ancorata alle norme civilistiche (la soglia
dell’età lavorativa) piuttosto che alla tutela generale
del minore, senza distinzioni.
L’ultima circostanza aggravante si
ha nel caso in cui i lavoratori reclutati vengano
esposti a situazioni di grave pericolo, avuto riguardo
alle prestazioni lavorative ed alle condizioni di
svolgimento del lavoro.
Per questa ultima circostanza si
ripetono le stesse perplessità di indeterminatezza del
concetto di “situazioni di grave pericolo” che sono
state riscontrate a proposito degli indicatori di
sfruttamento menzionati nel secondo comma della norma.
Il legislatore ha introdotto per il
delitto in esame le seguenti pene accessorie:
l’interdizione dagli uffici
direttivi delle persone giuridiche o delle imprese,
verosimilmente da intendersi quale interdizione
temporanea di pari durata alla pena principale inflitta;
il divieto di concludere
contratti di appalto, di cottimo fiduciario, di
fornitura di opere, beni o servizi riguardanti la
pubblica amministrazione, e relativi subcontratti;
l’esclusione per un periodo di
due anni da agevolazioni, finanziamenti, contributi o
sussidi da parte dello Stato o di altri enti pubblici,
nonché dell’Unione europea, relativi al settore di
attività in cui ha avuto luogo lo sfruttamento.
Si tratta delle medesime pene
accessorie previste anche per il delitto di riduzione o
mantenimento in schiavitù o servitù (art. 600 c.p.) per
i casi in cui lo sfruttamento abbia a oggetto
prestazioni lavorative. A prescindere dalla
considerazione che anche in questo caso il tipo di pene
accessorie previste sembrerebbe essere pensato anche per
il datore di lavoro e non già per il mero intermediario
nel reclutamento, ciò costituirebbe l’ennesima
incongruenza del legislatore. Infatti, ad intendere
sanzionabile la sola condotta dell’intermediario, si
avrebbe la conseguenza che il severo trattamento
sanzionatorio accessorio sarebbe uguale sia verso chi
commette il delitto di tratta a scopo di sfruttamento
lavorativo e sia verso chi svolge il ruolo di
intermediario ex art. 603bis c.p., ma sarebbe
insussistente nei confronti del datore di lavoro che
sottoponga a grave sfruttamento lavorativo il prestatore
d’opera, senza ausilio di caporali, condotta questa
relegata nella più volte citata “zona grigia”.
Si tratta di una irrazionalità
talmente forte da far propendere, per ragioni logiche e
sistematiche ed in virtù della normativa sovranazionale
di riferimento, verso la diversa soluzione
interpretativa più volte suggerita che, però, dovrà nel
tempo ricevere l’eventuale avallo giurisprudenziale.
(Altalex, 26 settembre 2011.
Articolo del dott. David Mancini, Procura della
Repubblica di L'Aquila)
________________
[1] Cfr. UNODC,
Office on Drug and Crime, Trafficking in persons: global
patterns, aprile 2006, cit..
[2] L’Organizzazione Internazionale
del Lavoro stima che per il periodo 2004 2008, 215
milioni di bambini sono stati coinvolti nel lavoro
minorile in tutto il mondo, si veda: OIL, Accelerare
l'azione contro il lavoro minorile (Ginevra, 2010).
[3] EUROPOL,
OCTA 2009. EU Organised Crime Threat Assessment (L'Aia,
2009).
[4] ILO, A
Global Alliance against Forced Labour (Geneva, 2005).
[5] F. Carchedi, G. Mottura, E.
Pugliese (a cura di), Il lavoro servile e le nuove
schiavitù, Franco Angeli, Milano, 2005.
[6] F. Carchedi,
Slave Labour. Some aspects of the phenomenon in Italy
and Spain, The Federation of Protestant Churches in
Italy, Rome, 2011; T. Moritz, L. Tsourdi (a cura di),
Combating Trafficking for Forced Labour in Europe, CCME,
Bruxelles, 2011; F. Carchedi (a cura di), Schiavitù di
ritorno. Il fenomeno del lavoro gravemente
sfruttato: le vittime, i servizi di protezione, i
percorsi di uscita, il quadro normativo, Maggioli
Editore, 2010; A. Morniroli (a cura di), Vite
clandestine, Gesco edizioni, Napoli, 2010; A. D’Angelo,
M. Da Pra Pocchiesa, O. Obert (a cura di), Se è vero che
non si vuole il lavoro nero. La tratta e il grave
sfruttamento sui luoghi di lavoro, Pagine. Il sociale da
fare e pensare, n. 2/2010, Torino; P. Minguzzi, R.
Ciarrocchi, Sfruttamento lavorativo e nuove migrazioni,
Franco Angeli, Milano, 2008; A. Leogrande, Viaggio tra i
nuovi schiavi nelle campagne del Sud, Mondadori, Milano,
2008; F. Carchedi, F. Dolente, T. Bianchini, A. Marsden,
La tratta a scopo di grave sfruttamento lavorativo, in
F. Carchedi, I. Orfano (a cura di), La tratta di persone
in Italia. Il fenomeno e gli ambiti di sfruttamento,
Franco Angeli, Milano, 2007.
[7] F. Carchedi, I. Orfano (a cura
di), La tratta di persone in Italia. Il fenomeno e gli
ambiti di sfruttamento, cit.
[8] Sulla gestione criminale delle
dinamiche e delle rotte del migrante, e per riferimenti
anche bibliografici sul tema si veda D. Mancini, Tratta
di persone e traffico di migranti. Azioni di contrasto e
tutela dei diritti umani, Franco Angeli, Milano, 2009.
[9] F. Carchedi, F. Dolente, T.
Bianchini, A. Marsden, La tratta a scopo di grave
sfruttamento lavorativo, cit..
[10] In quest’ottica si colloca la
direttiva 2009/52/ce del parlamento europeo e del
consiglio del 18 giugno 2009 che introduce norme minime
relative a sanzioni e a provvedimenti nei confronti di
datori di lavoro che impiegano cittadini di paesi terzi
il cui soggiorno è irregolare.
[11] Questa nozione tuttora valida
è tratta dalla Convenzione OIL contro il lavoro forzato
N. 29 del 1930, seguita dalla Convenzione n. 105 del
1957 in tema di abolizione del lavoro forzato, di
seguito analizzate. Punto di riferimento in materia è
tuttora costituito dall’azione dell’OIL, dalle
convenzioni adottate in materia e da ultimo dalla
Dichiarazione sui principi fondamentali e sui diritti
nel lavoro del 1998. Si veda per un
maggiore approfondimento: A global alliance forced
labour, cit.; Human trafficking and forced labour
exploitation, Guidance for legislation and law
enforcement, Ginevra, 2005; Legal aspect of trafficking
for forced labour purposes in Europe, Ginevra, 2006;
Trafficking for forced labour: how to monitor the
recruitment of migrant workers, Ginevra 2006; Forced
labour and human trafficking, casebook of court
decisions, Ginevra, 2009, tutti reperibili sul sito
www.ilo.org.
[12] Nel 2010 più di 12.000 aziende
si sono impegnate - direttamente o tramite le loro
associazioni di settore - alla lotta contro la tratta
degli esseri umani con la firma del protocollo
contenente i Principi etici di Atene, che propone una
politica di tolleranza zero verso qualsiasi azienda o
organizzazione che benefici del traffico di esseri umani
(si veda
www.ungift.org/docs/ungift/pdf/Athens_principles.pdf).
[13] Per una
visione attuale, v. Combating trafficking as modern-day
slavery: a matter of rights, freedoms and security, 2010
OSCE Annual Report of the Special Representative and
Coordinator for Combating Trafficking in Human Beings,
Vienna, 2010.
[14] nel 2006 e 2007, gli Stati
partecipanti all'OSCE hanno adottato due decisioni del
Consiglio dei Ministri sul traffico per lo sfruttamento
del lavoro che, tra l'altro, richiedono un aumento della
strategia multiagenzia di cooperazione e interazione sui
temi tra funzionari dell'immigrazione, forze
dell'ordine, magistrati, funzionari e prestatori di
servizi sociali, per prevenire la tratta e proteggere i
diritti delle vittime di tratta e grave sfruttamento
lavorativo.
[15] M. G. Giammarinaro, Il
permesso di soggiorno per motivi di protezione sociale
previsto dall’art. 18 del t.u. sull’immigrazione, in
Diritto, immigrazione e cittadinanza, 1999, 4; Virgilio,
Lavori in corso nei dintorni dell’immigrazione: art. 18
e leggi in tema di traffico di esseri umani e
prostituzione, ivi, 2003, 1; V. Tola, La tratta di
esseri umani: esperienza italiana e strumenti
internazionali, nel secondo Rapporto sull’integrazione
degli immigrati in Italia, Roma, 2000. D. Mancini,
Traffico di migranti e tratta di persone, tutela dei
diritti umani e azioni di contrasto, cit., 75 ss.
[16] Documenti consultabili sul
sito www.csm.it.
[17] Si vedano le Linee Guida per
lo Sviluppo di un Sistema Transnazionale di Referral per
le Persone Trafficate in Europa, a cura del Dipartimento
per le Pari Opportunità presso la Presidenza del
Consiglio dei Ministri e di International Centre for
Migration Policy Development (ICMPD), Vienna, 2010. Il
concetto di National Referral Mechanism è stato
originariamente sviluppato dall’OSCE/ODIHIR in Sistema
Nazionale di Referral. Provvedere ai Diritti delle
Persone Trafficate. Guida Pratica, Varsavia, 2004 ed
oggi è espressamente richiamato dalla nuova direttiva
europea antitratta del 5 aprile 2011.
[18] Sui rapporti tra Convenzione
OIL n. 29 e protocollo addizionale si veda D. Mancini,
Tratta di persone e traffico di migranti, cit. pag. 92 e
ss.
[19] A tale proposito rileva
l’osservazione individuale da parte del Comitato di
esperti sull'applicazione delle convenzioni e
Recommendations concerning Convention No. 29, Forced
Labour, Bangladesh, 86th Session, Geneva,
raccomandazioni in materia di convenzione n. 29, lavoro
forzato, secondo cui , dato che la convenzione, adottata
nel 1930, prevedeva la soppressione di lavoro forzato
nel più breve tempo possibile, essendo trascorsi 67 anni
dopo la sua adozione (alla data del parere del Comitato)
la sussistenza di contrasti con le norme della
convenzione equivale ad una sua violazione.
[20] Article 3 provides, in part,
that:L'articolo 3 prevede che: For the purposes of this
Protocol:Ai fini del presente protocollo per:
(a) 'Trafficking in persons' shall
mean the recruitment, transportation, transfer,
harbouring or receipt of persons, by means of the threat
or use of force or other forms of coercion, of
abduction, of fraud, of deception, of the abuse of power
or of a position of vulnerability, or of the giving or
receiving of payments or benefits to achieve the consent
of a person having control over another person for the
purpose of exploitation.(A) Tratta di persone' si
intende il reclutamento, trasporto, trasferimento,
l'ospitare o accogliere persone, tramite la minaccia o
all'uso della forza o altre forme di coercizione, di
rapimento, frode, inganno, abuso di potere o di una
posizione di vulnerabilità o tramite il dare o ricevere
somme di denaro o vantaggi per ottenere il consenso di
una persona che ha autorità su un'altra persona a scopo
di sfruttamento. Exploitation shall include, at a
minimum, the exploitation of the prostitution of others
or other forms of sexual exploitation, Lo sfruttamento
comprende, come minimo, lo sfruttamento della
prostituzione altrui o altre forme di sfruttamento
sessuale, forced labour or services, slavery or
practices similar to slavery, servitude or the removal
of organs; lavoro forzato o servizi, schiavitù o
pratiche analoghe, l'asservimento o il prelievo di
organi;
(B) il consenso di una vittima
della tratta di persone allo sfruttamento di cui alla
lettera (a) del presente articolo è irrilevante in uno
qualsiasi dei mezzi di cui alla lettera (a) sono stati
utilizzati.
[21] Ad esempio, si pensi allo
statuto del Tribunale penale internazionale per i
crimini commessi nella ex Yugoslavia del 1993 ed allo
statuto della Corte penale internazionale di Roma del
1998.
[22] Per un commento sul punto si
veda D. Mancini, Il cammino europeo nel contrasto alla
tratta di persone, in Diritto penale e processo, 9/2010.
[23] Gazzetta ufficiale dell’Unione
europea L. 101/7 del 15.4.2011.
[24] L’art. 2 della nuova direttiva
UE descrive una serie di condotte rientranti nel
fenomeno della tratta degli esseri umani, in linea con
la definizione dell’art. 3 del protocollo addizionale
ONU sul trafficking:
- Reati relativi alla tratta di
esseri umani:
1. Gli Stati membri adottano le
misure necessarie affinché siano punibili i seguenti
atti dolosi: il reclutamento, il trasporto, il
trasferimento, l’alloggio o l’accoglienza di persone,
compreso il passaggio o il trasferimento dell’autorità
su queste persone, con la minaccia dell’uso o con l’uso
stesso della forza o di altre forme di coercizione, con
il rapimento, la frode, l’inganno, l’abuso di potere o
della posizione di vulnerabilità o con l’offerta o
l’accettazione di somme di denaro o di vantaggi per
ottenere il consenso di una persona che ha autorità su
un’altra, a fini di sfruttamento.
2. Per posizione di vulnerabilità
si intende una situazione in cui la persona in questione
non ha altra scelta effettiva ed accettabile se non
cedere all’abuso di cui è vittima.
3. Lo sfruttamento comprende, come
minimo, lo sfruttamento della prostituzione altrui o
altre forme di sfruttamento sessuale, il lavoro o i
servizi forzati, compreso l’accattonaggio, la schiavitù
o pratiche simili alla schiavitù, la servitù, lo
sfruttamento di attività illecite o il prelievo di
organi.
4. Il consenso della vittima della
tratta di esseri umani allo sfruttamento, programmato o
effettivo, è irrilevante in presenza di uno dei mezzi
indicati al paragrafo 1.
5. La condotta di cui al paragrafo
1, qualora coinvolga minori, è punita come reato di
tratta di esseri umani anche in assenza di uno dei mezzi
indicati al paragrafo 1.
6. Ai fini della presente direttiva
per «minore» si intende la persona di età inferiore ai
diciotto
[25] Vedi:
www.consilium.europa.eu/uedocs/cms_data/docs/pressdata/en/jha/114900.pdf.
[26] Sulla necessità di definire il
reato di riduzione in schiavitù e di tratta in sintonia
con la normativa sovranazionale, già Cass. pen. Sez.
III, 28 ottobre 2006, n. 2841, in cass. pen. 2007, 12,
4587.
[27] Considerazioni rilevabili
anche su Europol public information (Annex III,
Legislation on trafficking in human beings, 2005.
[28] Cfr. Forced
labour and human trafficking, casebook of court
decisions, ILO, Ginevra, 2009.
[29] Cassazione civile sez. lav. 15
febbraio 2008, n. 3868 in Guida al diritto 2008, 44, 68.
[30] Art. 12
Intermediazione illecita e
sfruttamento del lavoro 1. Dopo l'articolo 603 del
codice penale sono inseriti i seguenti:
«Art. 603-bis (Intermediazione
illecita e sfruttamento del lavoro). - Salvo che il
fatto costituisca piu' grave reato, chiunque svolga
un'attivita' organizzata di intermediazione, reclutando
manodopera o organizzandone l'attivita' lavorativa
caratterizzata da sfruttamento, mediante violenza,
minaccia, o intimidazione, approfittando dello stato di
bisogno o di necessita' dei lavoratori, e' punito con la
reclusione da cinque a otto anni e con la multa da 1.000
a 2.000 euro per ciascun lavoratore reclutato.
Ai fini del primo comma,
costituisce indice di sfruttamento la sussistenza di una
o piu' delle seguenti circostanze:
1) la sistematica retribuzione dei
lavoratori in modo palesemente difforme dai contratti
collettivi nazionali o comunque sproporzionato rispetto
alla quantita' e qualita' del lavoro prestato;
2) la sistematica violazione della
normativa relativa all'orario di lavoro, al riposo
settimanale, all'aspettativa obbligatoria, alle ferie;
3) la sussistenza di violazioni
della normativa in materia di sicurezza e igiene nei
luoghi di lavoro, tale da esporre il lavoratore a
pericolo per la salute, la sicurezza o l'incolumita'
personale;
4) la sottoposizione del lavoratore
a condizioni di lavoro, metodi di sorveglianza, o a
situazioni alloggiative particolarmente degradanti.
Costituiscono aggravante specifica
e comportano l'aumento della pena da un terzo alla
meta':
1) il fatto che il numero di
lavoratori reclutati sia superiore a tre;
2) il fatto che uno o piu' dei
soggetti reclutati siano minori in eta' non lavorativa;
3) l'aver commesso il fatto
esponendo i lavoratori intermediati a situazioni di
grave pericolo, avuto riguardo alle caratteristiche
delle prestazioni da svolgere e delle condizioni di
lavoro.
Art. 603-ter (Pene accessorie). -
La condanna per i delitti di cui agli articoli 600,
limitatamente ai casi in cui lo sfruttamento ha ad
oggetto prestazioni lavorative, e 603-bis, importa
l'interdizione dagli uffici direttivi delle persone
giuridiche o delle imprese, nonche' il divieto di
concludere contratti di appalto, di cottimo fiduciario,
di fornitura di opere, beni o servizi riguardanti la
pubblica amministrazione, e relativi subcontratti. La
condanna per i delitti di cui al primo comma importa
altresi' l'esclusione per un periodo di due anni da
agevolazioni, finanziamenti, contributi o sussidi da
parte dello Stato o di altri enti pubblici, nonche'
dell'Unione europea, relativi al settore di attivita' in
cui ha avuto luogo lo sfruttamento. L'esclusione di cui
al secondo comma e' aumentata a cinque anni quando il
fatto e' commesso da soggetto al quale sia stata
applicata la recidiva ai sensi dell'articolo 99, secondo
comma, numeri 1) e 3)».
[31] Fenomeno, ormai, più volte
riconosciuto dalla Suprema Corte nel settore dello
sfruttamento lavorativo “estremo”, rientrante nella
previsioni degli artt. 600 e 601 c.p. (cfr. Cassazione
penale sez. V, 24 settembre 2010, n. 40045; Cassazione
penale sez. V, 13 novembre 2008, n. 46128).
[32] Nello stesso senso si veda R.
Bricchetti – L. Pistorelli, Caporalato: per il nuovo
reato pene fino ad 8 anni, in Guida al diritto, 35/2011.
Si veda, pure, la relazione dell’ufficio del Massimario
della Corte di cassazione, n. III/11/2011, Roma, 5
settembre 2011, avente per oggetto Il delitto di
intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro.
Considerazioni introduttive.
[33] nel caso di soggetti titolari
di una propria organizzazione autonoma, che
professionalmente assumano appalti regolari di opere e
servizi, qualora in concreto pongano in essere un
contratto di fornitura di manodopera, che di fatto si
traduca in una gestione complessiva delle prestazioni
lavorative per conto del datore di lavoro (ad esempio
nel caso in cui il datore di lavoro interposto adotti un
modello organizzativo nuovo del lavoro dei dipendenti
attraverso l'introduzione fittizia della figura di un
responsabile a cui fanno capo i principali elementi
organizzativi - cfr. Cassazione civile sez. lav., 15
febbraio 2008, n. 3861).
[34] Appare essenziale sottolineare
che l’interpretazione della locuzione stato di bisogno o
di necessità, rimanda alle elaborazioni della suprema
Corte circa il più grave reato di riduzione in schiavitù
(Cassazione penale sez. III 6 maggio 2010, n. 21630, in
cass. pen. 2011, 4, 1443) secondo cui la situazione di
necessità, il cui approfittamento costituisce condotta
integrante il reato di riduzione o mantenimento in
schiavitù o servitù, deve essere intesa come qualsiasi
situazione di debolezza o di mancanza materiale o morale
atta a condizionare la volontà della vittima (art. 644,
comma 5 n. 3, c.p.) e non va confusa con lo "stato di
necessità" di cui all'art. 54 c.p. (si veda anche
Cassazione n. 13734 del 2009, Cassazione n. 4012 del
2006, Cassazione 2841 del 2007, Cassazione n. 3368 del
2005). |