SOMMARIO:
1. Una questione di drammatica attualità. 2. La tutela
dei diritti della persona detenuta. 3. La selezione
delle posizioni soggettive tutelate. 4.
La sentenza costituzionale n.
26/99 e gli sviluppi successivi. 5.Il caso
all’esame della Corte. 6. Il
reclamo avanti al magistrato di sorveglianza. 7. Il
ruolo del P.M. nel contraddittorio delle parti. 8. Gli
strumenti a tutela della terzietà del giudice. 9.
L'ottemperanza alle decisioni del magistrato di
sorveglianza. 10. Prospettive de jure condendo e
la tutela dei diritti fondamentali nella nuova cornice
europea.
1.
1. Una questione di drammatica attualità.
La
tutela delle posizioni soggettive dei
detenuti incise da atti o provvedimenti
dell’amministrazione penitenziaria costituisce
una sorta di prima linea sul fronte della
civiltà giuridica del Paese, alla luce
dell’attuale, drammatica situazione del sistema
penitenziario, connotata dall’esponenziale
aumento della popolazione carceraria e da
crescenti difficoltà ad assicurare standard
minimi di vivibilità nelle carceri. E’ proprio
tale percepita inadeguatezza degli attuali
strumenti di salvaguardia dei diritti
all’interno degli istituti di pena a fare da
sfondo alla questione di costituzionalità degli
artt. 35,14-ter e 71 della legge 26 luglio 1975,
n. 354, delibata dalla Corte costituzionale con
la sentenza 8 ottobre 2009, n. 266, in rassegna.
I punti nodali della questione sottoposta alla
Corte si articolano su una molteplicità di
profili, se pure – con una certa dose di
semplificazione – si possono complessivamente
ricondurre alla tematica della configurazione
dei poteri del giudice; dell’adeguatezza del
modello procedimentale utilizzabile dal
magistrato di sorveglianza in sede di
giurisdizione esclusiva sull’accertamento della
lesione dei diritti nell’ambito del trattamento
penitenziario, nonché dei rimedi esperibili nel
caso di inottemperanza al dictum
giudiziale.
La Corte, pur dichiarando inammissibile la
questione sottoposta, ha mostrato una
particolare sensibilità sulla delicata materia
oggetto della disamina, e non ha rinunciato a
fornire un importante contribuito a meglio
precisare l’ambito di tutela assicurato
dall’ordinamento penitenziario, dettando alcune
coordinate interpretative su cui dovrebbe
esercitarsi l’attività di adattamento che le
corti di merito sono chiamate a svolgere,
facendo corretto uso del potere interpretativo
della normativa esistente, così da adeguarla ai
principi costituzionali in tema di giusto
processo e di rispetto dei diritti fondamentali
dell’Uomo sanciti a livello europeo.
Le suggestioni offerte all’interprete dalla
pronuncia costituzionale sono, invero, numerose
e tali da imporre una riflessione sui possibili
sviluppi di una materia che presenta rilevanti
profili di incertezza e sconta la perdurante
inerzia del legislatore, che non ha ancora
risposto alla sollecitazione rivoltagli dalla
pronuncia costituzionale n. 26/99, riguardo
all’introduzione di una organica disciplina dei
c.d. “ reclami atipici” al magistrato di
sorveglianza, lasciando in definitiva alla
giurisprudenza la delicata opera nomopoietica
di riscrittura degli istituti sostanziali e
processuali esistenti.
2.
2. La tutela dei diritti della persona
detenuta.
La posizione della persona che affronta
un'esperienza di detenzione è caratterizzata
dalla soggezione ad un sistema che - per sua
stessa natura - impone limiti e stretti
controlli sulla sfera personale del soggetto,
comprimendo in varia misura alcune delle
principali facoltà soggettive
(auto-organizzazione della propria esistenza,
libertà di comunicazione, di movimento, etc.),
in funzione delle esigenze organizzative
connesse all’esecuzione penale. Tale situazione,
non scevra, evidentemente, di concreti pericoli
per la sopravvivenza dei diritti fondamentali
della persona, ha indotto sia l'ordinamento
interno (legge sull'ordinamento penitenziario 26
luglio 1975, n, 354, c.d. “Ordinamento
penitenziario”), che quello europeo (Convenzione
Europea dei Diritti dell'Uomo; Trattato di
Lisbona, in vigore dal 1° dicembre 2009) a
riconoscere nel detenuto un “soggetto debole",
destinatario di norme di specifica tutela della
sfera di facoltà personali e di salvaguardia
delle stesse nei confronti di eventuali
incisioni che non trovino valida giustificazione
in motivi di ordine e sicurezza pubblica e, in
generale, nell'esigenza di assicurare la
regolare esecuzione della pena; ovvero derivino
da modalità di esecuzione non conformi agli
standard minimi che assicurano il rispetto
della dignità della persona e dell'umanità nel
momento della detenzione.
In una prospettiva ispirata a canoni di civiltà
giuridica, occorre riconoscere che il soggetto
detenuto ha diritto non soltanto a vedere
apprestati dall'ordinamento strumenti adeguati
di tutela "negativa” (volta, cioè, alla
conservazione, delle facoltà inerenti a una
posizione soggettiva pre-esistente alla
restrizione carceraria); ma ha, altresì e in
egual misura, il diritto di usufruire della
tutela "positiva”, costituita da quelle proposte
trattamentali, cioè, finalizzate alla
rieducazione che consegue alla modificazione
della personalità del reo in senso socialmente
adeguato. La prima forma di salvaguardia trova
origine in fonti sopranazionali e nei principi
costituzionali che proteggono il nucleo di
incomprimibili diritti fondamentali della
persona umana, tali che nemmeno l’esecuzione
della sanzione penale può annichilire del tutto,
a pena d’illiceità per contrasto con il senso di
umanità cui deve essere informata l’esecuzione
della pena (art. 27, comma 3, Cost.). Il secondo
profilo è, invece, previsto dalla legislazione
sull'ordinamento penitenziario, informata al
principio secondo cui la pena deve tendere alla
rieducazione del condannato (art. 27, comma 3,
Cost.).
L’interesse pubblico alla esecuzione
della pena e l’interesse del soggetto detenuto
alla conservazione ed allo sviluppo della
propria sfera soggettiva, rappresentano, in
altri termini, due profili che possono trovarsi
in contrasto di fatto, ma sul piano giuridico
essi procedono in sintonia. La ponderazione
comparativa tra i detti interessi è realizzata
dal legislatore col ritenere suscettive di
tutela quelle (e soltanto quelle) posizioni
soggettive che non comportino un pregiudizio
degli interessi pubblici connessi all’esecuzione
penale e, in primo luogo, alla salvaguardia
dell’ordine e della sicurezza, quali condizioni
imprescindibili della stessa finalizzazione
rieducativa dell' esecuzione della pena o della
misura di sicurezza: art. 1, comma 3, L. n.
354/75; art. 2, d.p.r. 30.6.2000, n. 230).
3. La selezione delle posizioni soggettive
tutelate.
Il rapporto esecutivo penale è
caratterizzato dall’esistenza di un potere
pubblico che, con i propri atti e provvedimenti,
interagisce con i sottoposti a esecuzione penale
non già in termini unilaterali (relazione
potestà/soggezione); bensì bilaterali (
potere/diritto soggettivo- diritto affievolito-
interesse legittimo). Che di rapporto vero e
proprio e non di mera soggezione si tratti, è
reso evidente dalla considerazione che
l’ordinamento democratico riconosce, accanto al
potere organizzativo dell'amministrazione
penitenziaria, la sussistenza (recte:
permanenza), in capo al soggetto privato su cui
si esercita detto potere, di un fascio di
diritti e posizioni soggettive non sacrificabili
di fronte alle scelte discrezionali dell’organo
amministrativo,poiché
il detenuto “pur
trovandosi in situazione di privazione della
libertà personale in forza della sentenza di
condanna, è pur sempre titolare di diritti
incomprimibili, il cui esercizio non è rimesso
alla semplice discrezionalità dell’autorità
amministrativa preposta all’esecuzione della
pena detentiva, e la cui tutela pertanto non
sfugge al giudice dei diritti.”
L’ordinamento ha, coerentemente a tale
impostazione, riconosciuto, alla persona
detenuta o internata, la facoltà di agire
personalmente apud judicem a tutela delle
proprie posizioni giuridiche soggettive (artt.4
e 69, ord.penit.). L’ordinamento democratico
deve, infatti, assicurare un controllo
giurisdizionale completo ed effettivo sulle
modalità con cui lo Stato esercita il potere
organizzativo e coercitivo in ambito
penitenziario, così che non residuino spazi
vuoti di tutela nei confronti di eventuali
distorsioni nell’uso della potestà
amministrativa rispetto alle finalità
legislativamente prefissate. E', peraltro,
questione di non agevole soluzione stabilire
quali siano - concretamente - le posizioni
soggettive dei detenuti oggetto della tutela
ope judicis affermata dal Giudice delle
leggi; quali gli strumenti giurisdizionali di
tutela concretamente attivabili; quale, infine,
l’ampiezza del controllo del magistrato di
sorveglianza sull’atto amministrativo che si
assume lesivo.
La giurisprudenza costituzionale ha
stabilito che il precetto contenuto negli artt.
24 e 113, Cost. impone che venga assicurata
tutela giurisdizionale sia ai diritti aventi
rango costituzionale che alle posizioni
soggettive che trovano fondamento in fonti
normative di rango sottordinato. Si
tratta della tutela dei diritti che possono
subire pregiudizio per effetto (a) del potere
dell'Amministrazione di disporre, in presenza di
particolari presupposti indicati dalla legge,
misure speciali che modificano le modalità
concrete del "trattamento" di ciascun detenuto;
ovvero per effetto (b) di determinazioni
amministrative prese nell'ambito della gestione
ordinaria della vita del carcere.
Per effetto del ricordato arresto
costituzionale, l'ordinamento prevede ora un
articolato sistema di tutela
giurisdizionalizzata delle posizioni soggettive
dei detenuti che siano lese all'Amministrazione
nell'ambito del trattamento penitenziario. La
giurisprudenza ha, tuttavia, dato una lettura
restrittiva delle possibilità dischiuse dalla
pronuncia costituzionale, selezionando
rigorosamente le posizioni soggettive
suscettibili di tutela, riconoscendo la più
ampia tutela giurisdizionale assicurata dal
combinato disposto degli artt. 35 e
69, ord. penit.,
soltanto alle doglianze riferibili alla
violazione di diritti soggettivi. Mentre,
infatti, è ammesso il ricorso ex art.
111, Cost., avverso le decisioni del magistrato
di sorveglianza resi su reclamo avverso atti
dell'Amministrazione penitenziaria che incidono
su diritti soggettivi dei detenuti (a es. in
tema di modalità di perquisizione personale:
Cass. I, 3.2.2004);
tale possibilità è, invece, negata nel caso di
ordinanze emesse dal magistrato di sorveglianza
a seguito di un reclamo generico in ordine a
provvedimenti dell'Amministrazione penitenziaria
che non incidono sui diritti soggettivi del
detenuto (a es. nel caso di reclamo nei
confronti del rigetto delle richieste di avere
copia di un'istanza, di dotazione di acqua calda
e docce nelle celle, di rimozione di un pannello
posto sulle finestre della cella, ecc. :
Cass.I, 21.5.2008).
Si tratta, a ben considerare, di una posizione
che risente della concezione tradizionale della
giustiziabilità delle posizioni soggettive,
laddove, alla luce di una moderna concezione
della giurisdizione esclusiva del magistrato di
sorveglianza in materia di trattamento
penitenziario, la tradizionale partizione tra
diritti e interessi legittimi perde valore
sostanziale, dal momento che tutte le lesioni
delle posizioni soggettive dei detenuti incise
per effetto del trattamento penitenziario sono
suscettibili di tutela concentrata presso il
magistrato di sorveglianza, così che in materia
la tradizionale distinzione tra diritti ed
interessi legittimi assume rilievo del tutto
marginale.
Piuttosto, deve riconoscersi che l’abuso/cattivo
uso del potere pubblico costituisce la
fattispecie generatrice dell’illecito dal quale
si può produrre la lesione del diritto, e tanto
più essa potrà trovare ristoro, quanto più
l’ordinamento estenderà l’ambito del controllo
giurisdizionale sull’attività
dell’amministrazione penitenziaria. Il punto
critico sta nel selezionare, tra tutte le
doglianze che pervengono alla magistratura di
sorveglianza, quali debbano comportare
l'adozione della procedura giurisdizionalizzata
introdotta dalla Corte costituzionale. Il
problema non si pone, ovviamente, riguardo alle
ipotesi in cui sia applicabile una procedura
specifica, espressamente prevista dalla legge (a
es., in tema di reclamo avverso il decreto che
dispone controlli sulla corrispondenza dei
detenuti:art.
18 ter, ord. penit.);
bensì in relazione a quelle fattispecie
indeterminate per cui resta esperibile
(unicamente) la via del ricorso "atipico"
previsto dall'art. 35, ord. penit.
Il problema più complesso (e più importante in
pratica) è allora stabilire dove passi il
confine tra le posizioni pienamente tutelabili e
aspettative di mero fatto. In effetti, si
possono ipotizzare modelli teorici assai
diversi, ma la soluzione resta difficile. Una
delle tentazioni più irresistibili per
l'interprete, in proposito, è cercare di
selezionare tra diritti soggettivi e interessi
legittimi, o modelli concettuali simili, che
tuttavia – nell’ambito della giurisdizione
esclusiva, tendono a perdere consistenza.
Un'altra strada può essere percorsa verificando
se, nella fattispecie, sono in gioco interessi
che effettivamente non sono o non devono essere
incisi dalla detenzione (e allora la tutela è
quella ordinaria), ovvero si tratta di interessi
che vengono incisi dalla detenzione. Ma se si
verifica questa seconda situazione è evidente
che l'interessato si trova in una posizione
giuridicamente differente da quella del soggetto
libero. Nella situazione, cioé, di chi ha
posizioni giuridiche da contemperare con la
detenzione, o meglio con lo scopo della
detenzione.
Tale situazione è delicatissima e
meritevole della massima attenzione e tutela,
anzi forse di tutela più attenta e intensa di
quella di un soggetto libero, ma pur sempre
differente. Il giudizio da compiere è sempre
quello della proporzione tra le esigenze di
sicurezza (sociale e penitenziaria) e interesse
del singolo. Siamo, in altri termini,
nell'ambito della valutazione della
proporzionalità dell'azione amministrativa,
nell'attuazione dei suoi scopi, rispetto ai
diritti individuali. La linea di confine della
tutela accordata dall'ordinamento sembra dover
essere, allora, quella delle aspettative di mero
fatto: non è azionabile la procedura a fronte di
doglianze che non coinvolgano lesione di
posizioni giuridicamente tutelate, ma mere
aspettative.
A simmetriche conclusioni si approda con
riferimento alle fattispecie generatrici del
danno risarcibile: il danno si genera – attesa
la particolare condizione del soggetto detenuto
– in due ipotesi: qualora la condotta
dell’Amministrazione incida su posizioni della
sfera soggettiva non comprimibili in assoluto;
ovvero nel caso l'azione amministrativa involga
profili soggettivi connotabili dal potere
organizzativo, senza rispettare il criterio di
proporzione tra esigenze di sicurezza sociale e
penitenziaria e interesse della singola persona
In altri termini: il sacrificio imposto al
singolo non deve eccedere quello minimo
necessario, e non deve ledere posizioni non
sacrificabili in assoluto. Tra queste ultime va
annoverata la lesione da detenzione inumana, la
cui lesione è tutelata dalla CEDU con un “equa
soddisfazione” (cfr. art. 41, Convenzione EDU),
ma che trova anche nell'ordinamento interno un
adeguato riconoscimento.
Il catalogo dei diritti non
comprimibili dal potere organizzativo
dell'amministrazione penitenziaria, che rispetto
ad essi riveste una posizione di garanzia,
coincide con i diritti fondamentali enunciati
dalla Carta costituzionale. Rileva,
anzitutto, la tutela della salute, quale bene
giuridico primario tutelato in via primaria
dall’art. 32, Cost. e – sia pure in via
indiretta e con specifico riferimento
all’esecuzione penale – dall’art. 27, comma 3,
Cost., che vieta l’adozione di pratiche
contrarie al senso di umanità nel corso
dell’esecuzione delle pene.
Parimenti, deve essere riconosciuto il “diritto
a non essere curato”, implicante un
comportamento passivo/omissivo con il quale si
realizza un aspetto della personalità umana: si
pensi, a es., al rifiuto di cure dettato
dall’adesione a particolari gruppi religiosi (a
es. in tema di trasfusioni di sangue), da idee
politiche (manifestazione suprema di ribellione
allo Stato), da motivazioni personali
(affermazione di sé di fronte
all’istituzionalizzazione penitenziaria).
Viene quindi in linea di conto il
riconoscimento della dignità umana, che deve
essere salvaguardata anche nella condizione
restrittiva della libertà personale.
L’amministrazione penitenziaria assume in tal
senso una posizione di garanzia al rispetto
della dignità umana dei detenuti e degli
internati. Essa non può essere sacrificata se
non nei limiti strettamente necessari a
garantire l’ordine e la sicurezza degli
istituti. Particolarmente impellente,
nell’attuale situazione di sovraffollamento
degli istituti di pena, è il dovere
dell’Amministrazione penitenziaria di garantire
sufficienti condizioni di vivibilità nelle
camere di detenzione, evitando di custodire
nelle celle un numero di detenuti superiori a
quello consentito. L’eventuale violazione di
tali parametri è tutelabile di fronte al
magistrato di sorveglianza e in sede europea
(CEDU). In terzo luogo, è suscettibile di tutela
la violazione del diritto del detenuto alla
comunicazione con l’esterno
(art. 18, ord.penit.) La più recente
giurisprudenza ha riconosciuto ai colloqui
natura di vero e proprio diritto, tutelabile in
sede giurisdizionale, riconoscendo al giudice
“più vicino” (il magistrato di sorveglianza)
incisivi poteri di controllo e sanzione
dell’eventuale illegittimità dell’atto di
diniego emesso dall’Amministrazione
penitenziaria.
E’ stata, altresì, recentemente riconosciuta la
tutela giurisdizionale del diritto alla
procreazione.
Tale posizione soggettiva
assume spessore maggiormente significativo
quando il ricorso a tale procedura sia
necessario per rimuovere le cause impeditive
della procreazione, quali sterilità o di infertilità,
alla luce delle “Linee guida in materia di
procreazione medicalmente assistita”, di cui al
decreto del Ministero della Salute dd. 11 aprile
2008, pubblicato in G.U. n. 101 del 30 aprile
2008.
E’, infine, tutelato il rispetto dell’
“umanità”, il diritto, cioè, ad una detenzione
sofferta nel rispetto delle condizioni di
“umanità” (art. 27, comma 3, Cost.; art. 3,
CEDU). Si tratta di posizione non sacrificabile,
in senso assoluto.
4. La sentenza
costituzionale n. 26/99 e gli sviluppi
successivi.
L'art. 35, L. 26.7.1975, 354 e l'art.
75, d.P.R. 30.6.2000, n. 230,
rendono possibile al detenuto l'immediato
contatto con il magistrato di sorveglianza e la
possibilità, per tutti i detenuti e internati,
di rivolgersi direttamente a detta autorità
giudiziaria, anche per mezzo di periodici
colloqui individuali. Nel corso di tali
colloqui, i detenuti possono presentare istanze
o reclami al magistrato di sorveglianza che,
svolti i necessari accertamenti, comunicherà
agli interessati i provvedimenti adottati o i
motivi che ne hanno determinato il mancato
accoglimento. Il magistrato di sorveglianza può,
inoltre, effettuare accessi ispettivi presso gli
istituti di prevenzione e pena, su denuncia o di
ufficio, per verificare personalmente la
sussistenza di eventuali violazioni dei diritti
dei detenuti o altre situazioni di illegalità,
disponendo all'esito i provvedimenti necessari a
far cessare le irregolarità eventualmente
riscontrate.
Tuttavia, l'ordinamento penitenziario, pur
riconoscendo in capo ai soggetti detenuti un
fascio di diritti soggettivi e facoltà, non ha
espressamente previsto correlative forme di
tutela giurisdizionale a salvaguardia di quelle
posizioni soggettive, adeguate al riconosciuto
rango di primaria importanza delle situazioni
giuridiche che fanno capo alla persona detenuta.
Tale situazione si pone(va) in contrasto con i
principi costituzionali, segnatamente con quelli
concernenti il diritto di difesa giurisdizionale
dei diritti e interessi delle persone, sancito
dall'art.
24, Cost.
Investita della questione di incostituzionalità
degli
artt. 35
e 69, L. 26.7.1975, n. 354, sotto il profilo che
tali norme non garantivano alcuna tutela
giurisdizionale nei confronti delle eventuali
lesioni dei diritti soggettivi dei detenuti, la
Corte, con una sentenza per molti aspetti
"storica", ha dichiarato l'illegittimità
costituzionale degli
artt. 35
e 69, L. 26.7.1975, n. 354 nella parte in cui
non prevedono una tutela giurisdizionale nei
confronti degli atti dell'amministrazione
penitenziaria lesivi dei diritti di coloro che
sono sottoposti a restrizione della libertà
personale (Corte
cost., 8-11.2.1999, n. 26).
Si è realizzato, con tale arresto, un importante
passo nella direzione della
giurisdizionalizzazione dell'esecuzione
penitenziaria che, tuttavia, appariva monco,
poiché la Corte non indicava un modello
procedimentale tra i tanti azionabili.
La svolta decisiva nella tormentata questione
della scelta del rito applicabile ai
procedimenti per reclamo in materia di colloqui
dei detenuti si è determinata in seguito
all’intervento delle Sezioni Unite, che hanno
individuato quale strumento procedimentale
idoneo ad assicurare, nella materia de qua,
forme garantite di tutela giurisdizionale dei
detenuti, il procedimento disciplinato dall’art.
14-ter, L. 26.7.1975, n. 354.
La Cassazione riunita, adottando
un’interpretazione secundum Constitutionem
della normativa in materia di mezzi di tutela
designati dai caratteri della giurisdizione,
assicurati dall’ordinamento nei confronti della
lesioni delle posizioni soggettive dei detenuti,
alla luce del quadro costituzionale delineato
secondo le progressive sequenze ermeneutiche
illustrate dalla sentenza n. 26 del 1999, ha
autorevolmente affermato che un simile mezzo non
può che identificarsi – proprio per le esigenze
di speditezza e semplificazione che
necessariamente devono contrassegnarlo,
considerando le posizioni soggettive fatte
valere, in quello previsto dal disposto
dell’art.14-ter della legge
sull’ordinamento penitenziario.
In seguito a tale arresto, la giurisprudenza dei
magistrati di sorveglianza e della Corte di
cassazione, nonché parte della dottrina, ha
configurato ex novo il reclamo di cui al
citato art. 35, attribuendogli carattere
giurisdizionale nel prevedere la possibilità di
decidere mediante l'adozione della procedura
prevista dagli artt. 69, sesto comma, e 14-ter
per i reclami dei detenuti e degli internati
concernenti la lesione di posizioni soggettive.
La pronuncia della Suprema Corte è assai rilevante perché alla
“approvazione” circa il rito adottato dal
magistrato di sorveglianza consegue che a tale
giudice viene riconosciuta la competenza a
conoscere delle violazioni subite dai detenuti
nelle loro posizioni soggettive e dunque che
essi sono titolari di posizioni giuridiche che
per la loro stretta inerenza alla persona umana
sono qualificabili come diritti soggettivi.
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5.Il caso all’esame della Corte.
Il quadro giuridico-normativo sopra sinteticamente
riassunto induce il giudice rimettente a
sottoporre – come accennato – alla Corte la
questione della illegittimità costituzionale
dell’assetto disciplinato dagli artt.14-ter, 35
e 71 dell’ordinamento penitenziario,
articolandola su alcuni profili di ritenuto
contrasto con le norme costituzionali ed
europee. Anzitutto, il procedimento ex
art. 14-ter, ord. penit., non garantirebbe un
adeguato contraddittorio, poiché non prevede la
partecipazione dell’Amministrazione
penitenziaria, laddove all’interessato è
consentita la partecipazione al procedimento con
il ministero del difensore. In secondo luogo, la
posizione del magistrato di sorveglianza, organo
incaricato della vigilanza sugli istituti di
prevenzione e pena e dotato del potere-dovere di
impartire le disposizioni necessarie ad
eliminare le violazioni dei diritti dei
detenuti, farebbe dubitare della terzietà di
tale A.G. nel momento in cui sia chiamato a
verificare la legittimità dell'operato
dell'amministrazione penitenziaria e la
sussistenza, in concreto, di lesioni delle
posizioni soggettive di singoli detenuti.
Infine, il carattere non vincolante per
l’amministrazione della decisione assunta dal
giudice si risolverebbe in una forma di denegata
tutela per il soggetto che sia leso in un
proprio diritto per effetto della condotta della
P.A.
La Corte ha individuato alcuni profili di
inammissibilità e assunto la conseguente
decisione. Ciò che pare interessante, sotto tale
profilo, è l’approfondimento che la Consulta
opera nell’indicare con precisione
all’interprete quali strade siano percorribili
ai fini dell’adeguamento in via ermeneutica
dell’attuale disciplina ai principi
costituzionali ed europei evocati dal
rimettente, ciò che costituisce- e la Corte lo
ricorda espressamente – un dovere cui
l’interprete non può sottrarsi.
6. Il reclamo avanti al magistrato di
sorveglianza.
Anzitutto, la sentenza in rassegna “rassicura” il
rimettente sulla adeguatezza dell’attuale
strumento di tutela delle posizioni soggettive
dei detenuti previsto dalla legge penitenziaria,
rappresentato dal reclamo “giurisdizionalizzato”
forgiato dall’arresto costituzionale n. 26/99 e
dagli sviluppi giurisprudenziali che ne sono
conseguiti. Tale assetto è stato posto in
discussione in seguito alla sentenza
costituzionale n. 341/2006, che ha sottratto
alla competenza del magistrato di sorveglianza
le controversie di natura laburistica insorte
tra l'Amministrazione e i soggetti detenuti,
proprio ritenendo lo strumento di cui all'art.
35, ord.penit., inadeguato ad assicurare un
idonea soglia di garanzia giurisdizionale. La
Corte ha dunque precisato il suo pensiero,
chiarendo che l’inadeguatezza del rito ex
art. 14-ter, ord.penit., deve essere
limitata alla materia laburistica, poiché
ingenera una ingiustificata disparità di
trattamento con riguardo esclusivo a quella
particolare categoria di posizioni giuridiche,
mentre per quanto concerne le altre posizioni
incise nel corso del trattamento penitenziario
rimane fermo il principio dell’adeguatezza della
tutela assicurata con il reclamo al giudice di
sorveglianza.
La Corte ha, precisamente, osservato che
l’arresto n. 341/2006 aveva ritenuto illegittima
ogni «irrazionale ingiustificata
discriminazione», con riguardo ai diritti
inerenti alle prestazioni lavorative, tra i
detenuti e gli altri cittadini; così che il
procedimento di cui all’art. 14-ter, ord.
penit., carente sotto il profilo delle garanzie
difensive, alla luce del coordinato disposto di
cui agli artt. 24, secondo comma, e 111, secondo
comma, Cost., appariva inidoneo – se riferito
alle controversie di lavoro – ad assicurare un
nucleo minimo di contraddittorio e di difesa
(ponendo in evidenza, tra l'altro, che il terzo
eventualmente interessato quale controparte del
lavoratore restava addirittura escluso dal
contraddittorio).
Tale approdo, peraltro, non ha affatto posto in
discussione la competenza generale della
magistratura di sorveglianza, “avendo inciso su
una ben precisa tipologia di reclami in materia
di lavoro, ossia con riferimento a situazioni
giuridiche per le quali nell'ordinamento
generale è istituito un giudice specializzato.”
Anzi, la Corte riafferma la validità
dell’impianto generale, già delineato con la
sentenza n. 212/1997, per la quale l'ordinamento
penitenziario costituisce “un assetto
chiaramente ispirato al criterio per cui la
funzione di tutela giurisdizionale dei diritti
dei detenuti è posta in capo a tali uffici della
magistratura ordinaria.”
La distribuzione delle competenze,
pare, in definitiva, sistematizzabile nel senso
che il detenuto, al pari di ogni altro soggetto
dell'ordinamento, è tutelato nelle forma
civilistica e penalistica secondo gli strumenti
ordinari: potrà quindi ricorrere al giudice
civile per ottenere il risarcimento del danno
aquiliano per fatto doloso o colposo
dell'amministrazione (a es. nel caso di
infortunio occorso in seguito a carenze
addebitabili all'amministrazione); potrà
rivolgersi al giudice penale nel caso si ritenga
vittima di un reato (a es., nel caso di
omissioni o di condotte dell'amministrazioni che
integrino fattispecie presidiate a livello
penale); potrà, infine, rivolgersi al G.A. per
ottenere l'annullamento dell'atto amministrativo
che assuma illegittimo. Ma egli, in ragione
della sua posizione di soggetto debole”, gode di
una tutela maggiore per tutte le incisioni della
propria sfera soggettiva che siano
consequenziali all'effettuazione del trattamento
penitenziario, la cui cognizione è attribuita
alla giurisdizione esclusiva del magistrato di
sorveglianza Nell'ambito di tale giurisdizione,
la detta A.G. opera con lo strumento della mera
segnalazione all'amministrazione, nel caso venga
investito di doglianze inerenti a mere
aspettative di fatto; mentre opera con
provvedimento giurisdizionale nel caso di
violazione di posizioni soggettive
normativamente tutelate, attraverso il
procedimento di cui al coordinato disposto degli
artt. 14-ter, 35 e 69, ord. penit.
7. Il ruolo del P.M. nel contraddittorio delle
parti.
Un’indicazione assai stimolante offerta dalla
sentenza in commento concerne la disciplina del
contraddittorio, che il rimettente aveva
ritenuto inadeguata soprattutto con riferimento
alla non prevista partecipazione
dell’amministrazione penitenziaria al
procedimento, potendo essa unicamente
interloquire mediante la presentazione di
memorie. La Corte indica la possibilità di
integrare in via ermeneutica l’attuale assetto
verificando la possibilità che le ragioni
dell’amministrazione siano rappresentate in
udienza dal pubblico ministero nel
contraddittorio col difensore del reclamante.
La suggestione ha indubbiamente il pregio
dell’assoluta novità, dacché non era mai stata
ipotizzata – a quanto consta – la possibilità
che la difesa della P.A. fosse assunta
dall’organo della pubblica accusa; tuttavia, la
soluzione pare di difficile praticabilità, e la
sinteticità dell’indicazione offerta dalla Corte
non aiuta certamente l’interprete. E però, non
si può non rilevare la difficoltà di assegnare
al P.M. compiti di difesa tecnica della
posizione dell’Amministrazione, che parrebbero
meglio disimpegnati da un difensore anche
formalmente individuato come tale (e, per
rimanere nell’ambito pubblicistico, potrebbe
invece verificarsi la possibilità di avvalersi,
da parte della P.A., dell’Avvocatura dello
Stato), senza contare il fatto che –
inevitabilmente – nell’ambito del procedimento
avanti al magistrato di sorveglianza il ruolo
della parte pubblica e quello del “difensore”
dell’amministrazione verrebbero a confliggere,
se non altro nel momento in cui al P.M. viene
chiesto di formulare le conclusioni sulle
ragioni illustrate nel contraddittorio delle
parti.
Inoltre, più in generale, un ruolo così
scopertamente “di parte” esperito dal pubblico
ministero – nei termini ipotizzati dalla Corte –
finirebbe per inquinare la posizione
dell’organo dell’accusa nel quadro
dell’esecuzione penale e penitenziaria, dal
momento che in tale sede il P.M: esercita il
ruolo di tutela delle ragioni dello Stato, e
dunque pur sempre agisce quale soggetto “terzo”
e “imparziale”, nel perseguimento di tali
obiettivi. Il carattere pubblicistico delle
funzioni svolte dal P.M. appare evidente alla
luce dell’art. 112, Cost., da cui si ricava
il principio che la funzione
esecutiva è obbligatoria, connotando la
discrezionalità del P.M. a tale obiettivo, così
che, per tale ragione, si comprende come, nella
fase dell’esecuzione penale, la partecipazione
del pubblico ministero all’udienza è sempre
necessaria (art. 666, c. p. p.).
L’obbligatorietà , d’altra parte, deriva dalla
evidente assenza di discrezionalità rilevabile
sia nel codice di rito ( “il pubblico ministero
… cura di ufficio”, art. 655, comma 1, c.p.p. ;
“il pubblico ministero emette ordine di
esecuzione”, art. 656, comma 1, c.p.p.; art.
659, comma 1, c.p.p.; ecc.) ovvero dalle leggi
speciali relative ad esecuzione di provvedimenti
giudiziari suscettibili di esecuzione.
8. Gli strumenti a tutela della terzietà del
giudice.
La Corte ritiene che gli istituti
dell’astensione e della ricusazione –
applicabili, quali istituti di valenza generale,
anche ai procedimenti davanti alla magistratura
di sorveglianza – siano sufficienti ad
assicurare il profilo di terzietà del giudice.
Nelle materie affidate alla magistratura di
sorveglianza, tuttavia, la specificità delle
fattispecie, impregnate dell’aura rieducativa
che spira dal principio costituzionale di cui
all’art.27, comma 3, Cost., impone alcune
necessarie precisazioni. Anzitutto, sotto il
primo profilo, l’equidistanza formale del
giudice tra la parte pubblica (amministrazione
penitenziaria) e soggetto privato (il detenuto o
l’internato) è fortemente incisa dalle
disposizioni dell’Ordinamento penitenziario che
attribuiscono alle persone ristrette una serie
articolata di diritti e posizioni attive nei
confronti dell’amministrazione penitenziaria
(art.1, Ord.pen.), identificando nel magistrato
di sorveglianza il “garante dei diritti” dei
detenuti (art.69, Ord.pen.).
In questa cornice del tutto
peculiare, “imparzialità” del giudice può allora
sottendere un ruolo attivo del magistrato,
chiamato, nel confronto di due parti, la
pubblica e la privata, che hanno, per loro
natura, poteri differenziati (l’amministrazione
quello di connotare, attraverso l’utilizzo di
poteri autoritativi, la posizione soggettiva del
detenuto al fine di somministrare l’esecuzione
della pena), a “riequilibrare” la posizione di
debolezza del condannato o internato,
nell’ambito di un rapporto tra amministrazione
penitenziaria e soggetto passivo
dell’esecuzione, non più di mera soggezione di
quest’ultimo nei confronti della prima, quanto
di rapporto giuridico caratterizzato dalla
reciprocità di diritti e doveri, alla luce della
connotazione rieducativa propria della (di ogni)
pena.
In secondo luogo, la posizione di terzietà del
giudice nell’ambito del procedimento di
sorveglianza è anch’essa peculiare, laddove
generalmente non vi è, in tale contesto, una
sostanziale
differenza di posizione tra il giudicante e la
parte pubblica, poiché entrambi
istituzionalmente incaricati di realizzare, se
pure all’interno dei propri specifici ruoli, la
realizzazione della “pretesa punitiva” dello
Stato alla luce della legislazione vigente in
tema di benefici penitenziari e della
finalizzazione rieducativa della pena.
Non v’è, in altre parole, nel procedimento
di sorveglianza, una contrapposizione dialettica
tra il ruolo dell’accusa e quello della difesa
in termini di confronto sul tema
colpevolezza/innocenza dell’imputato, destinata
ad essere risolta dal giudice “terzo”. Vi è,
piuttosto, o dovrebbe esservi, una tendenziale
convergenza nell’individuazione della pena
“legittima”, cioè, della soluzione esecutiva che
meglio di altre si presta ad assicurare
all’esecuzione penale, nel caso concreto, le
migliori
chances
di realizzazione della finalità rieducativa
costituzionalmente valorizzata.
|
9. L'ottemperanza alle decisioni del magistrato di
sorveglianza.
La sentenza in rassegna si occupa infine del dubbio
espresso dal rimettente sul carattere non vincolante per
l'amministrazione dei provvedimenti del magistrato di
sorveglianza. Sulla base del richiamo alla
interpretazione letterale, la Corte riafferma la natura
delle prescrizioni od ordini emessi dal magistrato di
sorveglianza quali disposizioni, “il cui carattere
vincolante per l'amministrazione penitenziaria è
intrinseco alle finalità di tutela che la norma stessa
persegue.” Nulla tuttavia è detto sulla questione più
spinosa, quella degli strumenti per garantire la
esecuzione coattiva del dictum giudiziale nei
confronti dell’amministrazione penitenziaria.
La principale ragione
dell'inefficacia pratica della tutela prevista dagli
artt.35, 69, ord. penit. risiede, invero, nel fatto che
le decisioni assunte dal magistrato di sorveglianza, se
pure formalmente vincolanti per le parti e soprattutto
per l'Amministrazione penitenziaria, sono del tutto
prive della possibilità di essere eseguite in forma
coattiva nel caso di inottemperanza. Ciò è dovuto ad una
grave carenza normativa, che non prevede una specifica
disciplina dell'esecuzione di tali provvedimenti. Tale
presa d'atto è alla base del diffuso scetticismo
manifestato dalla dottrina in ordine alla concreta
efficacia dell'istituto.
La casistica è alquanto articolata.
Anzitutto, può darsi il caso in cui il magistrato di
sorveglianza abbia riconosciuto la lesione della
posizione soggettiva di un detenuto provocata da una
condotta dell'Amministrazione, materializzata in un atto
amministrativo (es. programma di trattamento; sanzione
disciplinare; diniego di autorizzazione a colloqui,
telefonate, etc.). In tal caso, l'ordinanza del
magistrato che afferma la sussistenza della lesione (e
del correlativo diritto negato) disapplica l'atto
amministrativo, ma tale esito può non essere sufficiente
al ristoro della posizione incisa, nel caso
l'Amministrazione non uniformi la propria condotta al
rispetto del dictum: a es., a poco vale, per
l'interessato, vedere riconosciuto il diritto al
colloquio con un proprio familiare se poi
l'Amministrazione persiste nel negare l'autorizzazione
all'ingresso in istituto del congiunto. In secondo
luogo, può verificarsi che il magistrato di sorveglianza
accerti l’incisione di una posizione soggettiva non
comprimibile (es. ha ristretto i detenuti in spazi
troppo angusti; ha negato prestazioni sanitarie
necessarie, etc.) da parte di una scelta organizzativa
dell'Amministrazione. In terzo luogo, è possibile che il
giudice accerti che una determinata situazione o stato
di fatto contrasta con i diritti dei detenuti (a es.
assenza di servizi igienici; insalubrità dei luoghi di
detenzione, etc.). Anche in questi casi, la mera
declaratoria della sussistenza di una lesione è lettera
morta laddove non sia consentito al giudice di emettere
sentenze di condanna in seguito all'accertamento
dell'illiceità di determinati fatti o condotte,
imputabili all'Amministrazione penitenziaria; né dettare
alla medesima prescrizioni assistite da sanzioni per il
caso di inottemperanza, così che il provvedimento del
magistrato di sorveglianza possa costituire titolo
esecutivo contro la P.A.
Il diritto vivente è, allo stato attuale, contrario
alla possibilità che il magistrato di sorveglianza possa
emettere pronunce di annullamento dell'atto
amministrativo e/o di condanna dell'Amministrazione.
Pesa, soprattutto, la ragione che l'attuale
configurazione della procedura di reclamo davanti al
magistrato non garantisce un livello di contraddittorio
adeguato – sotto il profilo delle garanzie
costituzionali in tema di contradditorio e diritto di
difesa - a sostenere una eventuale pronuncia di
condanna.
Nella stessa ottica restrittiva, la giurisprudenza
mantiene un atteggiamento assai prudente, e nega la
possibilità di ricorso ex
art. 111, Cost.,
avverso le decisioni assunte dal magistrato di
sorveglianza ai sensi dell'art. 35, ord. penit., anche
dopo la sentenza costituzionale
n. 26/1999.
Tale arresto costituzionale non è ritenuto, infatti, di
ostacolo alla ravvisata inammissibilità dei gravami
esperiti mediante lo strumento dell'art.
111, Cost.,
poiché la declaratoria di parziale illegittimità
costituzionale del ricordato art. 35 non consente di
intervenire additivamente sul sistema normativo vigente.
Tale indirizzo si richiama al principio secondo cui
soltanto la violazione di un diritto soggettivo della
persona detenuta giustifica l'attivazione del
procedimento giurisdizionale davanti al magistrato di
sorveglianza ai sensi dell'art.
69, ord. penit.,
e che unicamente tale ambito è tutelato dalla garanzia
del ricorso ex
art. 111, Cost.
Siffatto orientamento è stato confermato dalle pronunce
più recenti, secondo cui l'ordinamento non prevede
nessun mezzo di impugnazione avverso provvedimenti
eventualmente adottati sui generici reclami proposti
nelle forme di cui all'art. 35, ord. penit., che possono
essere indirizzati a una pluralità indifferenziata di
organi amministrativi o giurisdizionali.
In ogni caso, l'ottemperanza alla decisione rimane un
aspetto problematico, qualunque sia l'opzione che si
adotta. Anche sotto questo aspetto, si possono
ipotizzare soluzioni molto diverse. La più incisiva è
ritenere che il pronunciamento del magistrato di
sorveglianza secondo quanto previsto dall'art.
69, 5° co., L. 26.7.1975, n. 354,
comporti che le direttive del magistrato si
sostituiscono a quelle del vertice dell'Amministrazione
(che sarebbe una sorta di commissario ad acta
individuato ex lege, incaricato dell'esecuzione
del contenuto precettivo della pronunzia giudiziale),
con conseguente immediato dovere degli operatori
penitenziari di attuare la decisione, disapplicando gli
eventuali ordini contrari degli organi gerarchicamente
sovraordinati (Direttore, Provveditorato e D.A.P.). In
tale ricostruzione, il potere di ingerenza del
magistrato di sorveglianza assumerebbe un contenuto
invasivo nell'area dell'Amministrazione di eccezionale
(e forse non opportuna) rilevanza. È assai dubbio che
questo fosse il significato della norma in esame nella
mente del legislatore. Nell'ipotesi in cui si ritenesse
il provvedimento una condanna a carico della P.A.,
sarebbero attivabili le reazioni per l'inottemperanza al
giudicato, con tutti i problemi - di ben nota rilevanza
- rispetto all'esecuzione coattiva di un facere,
per di più da parte della P.A. Se, invece, si ritiene
che il provvedimento sia un accertamento di una condotta
antigiuridica, l'effetto della decisione è limitato alla
dichiarazione di illegittimità di un certo assetto. Tale
accertamento non ha però effetti diretti dal punto di
vista esecutivo, pur potendo formare oggetto della
valutazione incidentale quando sorga un diverso giudizio
(disciplinare o penale) sulle eventuali responsabilità.
10. Prospettive de jure condendo e
la tutela dei diritti fondamentali nella nuova cornice
europea.
De jure condendo,
occorre riconoscere che la scarsa effettività della
tutela dei diritti all'interno del carcere è soprattutto
originata dalla situazione di fatto che vede i soggetti
detenuti grandemente limitati nella possibilità di far
valere in giudizio le proprie pretese risarcitorie in
ragione delle oggettive limitazioni imposte dalla
restrizione carceraria. Ne deriva la necessità, alla
luce del disposto costituzionale (artt. 3,24 Cost.), di
implementare il ruolo del “giudice vicino”, e dunque del
magistrato di sorveglianza. In tale prospettiva, si può
pensare a strutturare la giurisdizione del magistrato di
sorveglianza sul modello della giurisdizione esclusiva
del G.A., riconoscendo la competenza sulla base
dell’attribuzione “a blocchi di materie” (attualmente,
con riguardo, a es., a tutto quanto concerne il
trattamento penitenziario), ed attribuendo, entro tali
ambiti, incisivi poteri al giudice in ordine
all'annullamento dell'atto amministrativo illegittimo ed
al consequenziale ristoro patrimoniale; nonché in
relazione alla possibilità di accertare la lesioni di
posizioni soggettive e di pronunciare condanna al
risarcimento del danno ex artt. 2043 e 2059, c.c.
Sul piano processuale, occorre adottare il procedimento
ex artt. 666 e ss., c.p.p., più garantito della
procedura sommaria di cui all’art. 14-ter, ord.
penit., in materia di cognizione sulla lesione delle
posizioni soggettive in materia di trattamento
penitenziario, attribuendo, anche sulla scorta
dell'autorevole indicazione venuta dalla Corte
costituzionale (sent. 266/09) le funzioni di tutela
delle ragioni dell'Amministrazione al PM, quale
“avvocato della parte pubblica”. A garanzia
dell'effettività dell'intervento del magistrato di
sorveglianza, sarebbe opportuno, infine, stabilire una
taxatio per ogni giorno di inottemperanza
dell'Amministrazione alle disposizioni impartite dal
giudice di sorveglianza, da versarsi a favore della
cassa delle ammende a titolo di sanzione processuale,
sulla base della loro immediata vincolatività per
l'Amministrazione. La materi della tutela dei diritti
delle persone detenute è oggetto anche di interventi
normativi di matrice europea. Il Trattato di
Lisbona, entrato in vigore il 1° dicembre 2009, amplia,
infatti, la prospettiva della protezione dei diritti
fondamentali nello spazio europeo.
La nuova fonte pattizia dichiara che l’Unione si fonda
su un insieme di valori, taluni dei quali non erano
esplicitamente menzionati nei trattati precedenti:
dignità, eguaglianza, tolleranza, giustizia, solidarietà
(art. 2, Trattato dell'Unione Europea). Alla solenne
proclamazione consegue l'obbligo per gli Stati aderenti
e per le istituzioni europee di adeguare i propri
ordinamenti e - più in generale – la propria politica
alla tutela di quei valori, anche nelle relazioni
internazionali (art. 3, p. 5, Trattato UE).
L'attribuzione di pieno valore giuridico alla Carta dei
Diritti fondamentali dell'Uomo (art. 6, TUE) e
l’adesione dell’Unione alla CEDU (art. 12, TUE)
determina un radicale cambiamento di prospettiva, che
vincola direttamente gli ordinamenti interni al rispetto
della dignità e dei diritti delle persone, con
particolare riguardo per i soggetti che risultano
particolarmente a rischio. Tra le "Osservazioni",
indirizzate dall' Osservatorio sul rispetto dei diritti
fondamentali in Europa al Parlamento europeo ai fini
dell'attuazione di una migliore protezione dei diritti
fondamentali, si trovano alcune importanti enunciazioni,
che investono direttamente la questione della tutela dei
diritti delle persone in stato di limitazione della
libertà personale.
In particolare, si raccomanda il ravvicinamento delle
legislazioni con riguardo alle disposizioni relative a
“standard minimi di detenzione" (minimum standards in
prison conditions: cfr. relazione Turco 24
febbraio 2004, recante "Proposta di raccomandazione del
Parlamento europeo destinata al Consiglio sui diritti
dei detenuti nell’Unione europea"). E' auspicato che gli
strumenti adottati in materia non siano limitati ai soli
casi “transfrontalieri” ma siano suscettibili di
applicarsi a tutte le persone coinvolte in procedimenti
penali negli Stati membri, "creando un elevato zoccolo
comune di diritti per tutti coloro che si trovano nel
territorio dell’UE." E', inoltre, raccomandata la
stipula di accordi internazionali di assistenza
giudiziaria e di estradizione con gli Stati terzi che in
tema di diritti fondamentali, al fine di prevenire "ogni
rischio di trattamenti inumani e degradanti."
Sul piano giudiziario, la prevista adesione dell’Unione
alla CEDU, la forza vincolante attribuita alla Carta dei
diritti fondamentali e il - pur limitato - ampliamento
dei poteri della Corte di Giustizia rappresentano
convergenti fattori destinati a potenziare il ruolo e
gli spazi di intervento dei giudici delle Corti europee
e nazionali. Nello spazio europeo, in definitiva, la
tutela dei diritti è sempre più affidata ad un sistema
“multilivello” in cui si intersecano gli ordinamenti
nazionali, l’ordinamento comunitario e l’ordinamento
CEDU.
Le fonti internazionali valorizzano
soprattutto il profilo di tutela dei
diritti fondamentali afferenti alla
persona detenuta: a salvaguardia della
sfera di libertà, patrimonio di ogni
persona umana, è posto il presidio
dell’art. 5, L. 848/1955 (Convenzione
per la salvaguardia dei diritti
dell’uomo e delle libertà fondamentali),
che sancisce il diritto di tutti alla
libertà e alla sicurezza, stabilendo
i casi tassativi nei quali tale diritto
può essere limitato. A tutela della
dignità della persona si pone l’art. 7,
L. 25.10.1977, n. 881, di ratifica ed
esecuzione del patto internazionale
relativo ai diritti civili e politici,
firmato a New York il 16 dicembre 1966,
a sanzione dell’illiceità di pene
inumane e degradanti. Gli artt. 10 e 11
della L. 3.11.1988, n. 498 (Ratifica
della Convenzione contro la tortura ed
altre pene o trattamenti crudeli,
disumani o degradanti, firmata a New
York il 10 dicembre 1984), impongono
agli Stati membri di reprimere in ogni
modo possibile il ricorso alla tortura
dei soggetti detenuti, prevedendo (art.
14) il diritto ad un equo risarcimento
alle vittime
di torture. L’art. 5, comma 5, L.
848/1955 e l’art. 9, comma 5, l.
881/1977, attribuiscono alla persona che
ha subito senza legittima ragione un
periodo di arresto o detenzione il
diritto a un congruo indennizzo. Sul
piano della rieducazione dei condannati,
la Risoluzione O.N.U. 30.8.1955 offre
interessanti spunti di riflessione sulle
implicazioni correlate ai diritti della
persona in ambito carcerario: il par. 65
stabilisce che il trattamento dei
condannati a pene privative della
libertà deve avere lo scopo “di
suscitare in essi la volontà e le
capacità che permetteranno loro, dopo la
liberazione, di vivere nel rispetto
della legge e di provvedere a se
stessi”, aggiungendo: “Tale trattamento
deve essere tale da incoraggiare nel
soggetto il rispetto di se stesso e da
sviluppare in lui il senso della
responsabilità.” Il successivo par. 71,
prevede, in tema di lavoro alle
dipendenze dell’Amministrazione
penitenziaria, che esso
“deve
essere, nei limiti del possibile, di
tale natura da mantenere ed aumentare
(…) la capacità di guadagnare
onestamente da vivere dopo la
liberazione (…) Nei limiti compatibili
con una selezione professionale
razionale e con le esigenze
dell’Amministrazione e della disciplina
penitenziaria, i detenuti devono poter
scegliere il genere di lavoro che
desiderano compiere”(Ris.ONU
30.8.1955,par.71).
Il par. 78 impone all’Amministrazione
penitenziaria di organizzare all’interno
degli istituti di pena delle attività
volte a favorire il benessere fisico ed
intellettuale dei detenuti.
Questi ultimi devono essere “(…)
incoraggiati a mantenere o iniziare
relazioni con persone o enti esterni che
possono favorire gli interessi della sua
famiglia e il proprio riadattamento
sociale”
(Ris.ONU 30.8.1955, par.80).
Nell'ordinamento interno, la tutela dei
diritti della persona detenuta si fonda
sulla già ricordata legge di riforma
dell’Ordinamento penitenziario (L.
26.7.1975, n. 354), ampiamente
modificata dalla legge 10.10.1986, n.
663 (c.d. “legge Gozzini”); e dal
correlato regolamento di esecuzione
(d.P.R. 30.6.2000, n. 230).
A tale corpus fondamentale si
aggiungono numerose leggi
extravagantes, che hanno inciso
sulla disciplina di specifici profili,
quali la L. 26.5.98, n. 165, in materia
di applicazione provvisoria delle misure
alternative alla detenzione; la L.
19.12.2002, n. 277, in materia di
riforma della liberazione anticipata; la
L. 8.4.2004, n. 95, in materia di
controllo sulla corrispondenza dei
detenuti. In dottrina, sulla tutela dei
diritti dei detenuti, cfr. P. Corso,
Il procedimento per reclamo, in
Manuale della Esecuzione penitenziaria,
Monduzzi, 2006, 256; M.G.
Coppetta, commento all'art. 35 della
legge del 26 luglio 1975 n. 354,
"Diritto di reclamo", in Ordinamento
penitenziario, a cura di Vittorio
Grevi, Glauco Giostra, e Franco Della
Casa, III edizione, Cedam, Padova 2006,
391; F. Della Casa, commento
all'art. 69 della legge del 26 luglio
1975 n. 354, "Funzioni e provvedimento
del magistrato di Sorveglianza", in
L’Ordinamento Penitenziario, cit.
822; F. Fiorentin, La tutela
dei diritti dei detenuti, in
Ordinamento penitenziario,(collana
“Giurisprudenza Critica”, diretta da P.
Cendon), Utet, Torino 2005, 70;
F. Fiorentin, Il reclamo nei casi
previsti dall'art. 69 della legge del 26
luglio 1975 n. 354,
in L'Ordinamento Penitenziario,
cit.,79; M. Ruotolo, La tutela dei
diritti dei detenuti, in Diritti
dei detenuti e Costituzione,
Giappichelli, Torino 2002, 189;
A. Pennisi, Il tipo di procedimento
giurisdizionale per la tutela delle
posizioni soggettive dei detenuti,
in Diritti dei detenuti, cit.,245. |
Il riconoscimento in capo alla persona
condannata di uno status coerente con la
titolarità di diritti e interessi non
comprimibili neppure per effetto
dell’applicazione della pena detentiva non ha
costituito un approdo immediato, bensì una
progressiva codificazione delle posizioni
giuridiche attive dei detenuti, a partire
dall’intervento della Corte costituzionale che,
con una storica decisione in tema di liberazione
condizionale (art. 176, c.p.), affermò il
diritto del condannato a che, verificandosi le
condizioni poste dalla norma di diritto
sostanziale, il protrarsi della realizzazione
della pretesa punitiva sia riesaminato, al fine
di accertare se la quantità di pena già espiata
abbia, o no, assolto il suo fine rieducativo
(sentenza n. 204/1974). Tale diritto, stabilì la
Consulta, “deve trovare nella legge una valida e
ragionevole garanzia giurisdizionale”. La
riforma dell’ordinamento penitenziario, varata
proprio su impulso della sentenza costituzionale
n. 204/1974, ha determinato un vero e proprio
ribaltamento dei tradizionali rapporti fra
il detenuto e l’Amministrazione penitenziaria,
di tal che la figura del detenuto viene portata
in primo piano, non più quale soggetto passivo
dell’esecuzione penale, bensì quale titolare di
posizioni soggettive e destinatario delle
proposte trattamentali degli operatori
penitenziari.
Vi fu anche chi osservò, non senza una sfumatura
paradossale, come la riforma penitenziaria
rappresentasse “il solenne riconoscimento che lo
status di detenuto o di internato non
solo non fa venir meno la posizione di lui come
titolare di diritti soggettivi connessi a tale
status, ma, anzi, altri gliene
attribuisce” (G.Galli,
La politica criminale in Italia negli
anni 1974-77, Giuffré, Milano 1978,128).
Corte Cost., sent. 8-11.2.1999, n. 26/1999,
G.U.17.2.1999, n.7, I Serie Speciale.
Così Corte Cost. n. 212/1997. Più in generale,
per il riconoscimento che, anche in situazioni
di restrizione della libertà personale,
sussistono diritti che l’ordinamento tutela,
cfr. le sentenze della Corte Costituzionale n.
410/1993, n. 351/1996, n. 376/1997 e la stessa
Corte Cost., sent. n. 26/1999, cit.
Corte Cost., sent. n. 26/1999, cit.
Cfr. F. Fiorentin – A.
Marcheselli,
Il punto sui diritti dei detenuti, in
Giur.Merito 2006, I, 20: “Si
tratta di un aspetto che incide pesantemente
sulla efficacia della tutela, posto che è la
stessa materiale difficoltà di governare la
massa delle istanze, denunce, segnalazioni a
rendere tardiva e inefficiente la tutela, poiché
una indiscriminata attuazione di tali modelli
per ogni segnalazione ricevuta non solo rischia
di comportare la paralisi della attività, ma
renderebbe pressoché impossibile la selezione
dei casi: la diluizione degli interventi su una
miriade di casi ne eliderebbe la capacità di
penetrazione.”
“Il
riconoscimento nella Costituzione dei diritti
inviolabili inerenti la persona non aventi
natura economica implicitamente, ma
necessariamente, ne esige la tutela, ed in tal
modo configura un caso determinato dalla legge,
al massimo livello, di risarcimento del danno
non patrimoniale”
(Sez.Un. n. 26972/2008).
La potestà punitiva dello Stato, che si esplica
nella sottoposizione coattiva del condannato
alla detenzione trova un limite nella
salvaguardia della salute, tutelata quale bene e
valore primario dalla Costituzione
(Cass. Sez. I, 26.4.1994, n. 1138,Tana, in
Ced Cass.).
Cfr. Mantovani F.,
Diritto Penale,CEDAM,Padova
1988. V. anche Manna A.,
Considerazioni in tema di consenso
presunto,Parte Prima,
in La Giustizia Penale,1984, II,168-192,
e L’operatività del consenso presunto
nell’ordinamento penale italiano, in La
Giustizia Penale,1984, II,231-255. Secondo
tale A., “Il
consenso del paziente deve essere in ogni caso
richiesto, ma non per rendere lecito
l’intervento con riferimento ai beni della vita
e dell’integrità fisica, bensì per rispettare il
diritto alla libera determinazione del paziente
medesimo. In altri termini, se il medico omette
di chiedere al malato l’assenso per l’operazione
e quest’ultimo era in condizioni di
manifestarlo, commetterà in primo luogo il
delitto di violenza privata o quello, forse più
consono alla fattispecie, previsto dall’art. 613
c.p., e ciò a prescindere dalle ulteriori
ipotesi criminose inerenti ai delitti di lesione
e di omicidio.” Sul c.d. “sciopero della fame”, cfr. I.Allegranti I. e G.Giusti,
Lo sciopero della fame del detenuto. Aspetti
medico-legali e deontologici, CEDAM,Padova
1983.
Sui profili di liceità dell’alimentazione
forzata nel caso di sciopero della fame, cfr. L.
Riello,
Sciopero della fame e alimentazione forzata,
in Nuovo Diritto,
1982, 369 ss.
V. anche
Onida V.,
Dignità della persona e diritto di essere
ammalati, in Questioni giuridiche,
1982,
361. In giurisprudenza si è affermato il
principio secondo cui: “Nel caso di rifiuto di intervento in
rapporto ai casi di “sciopero della fame”, il
sanitario dell’istituto penitenziario sarà
tenuto, per un verso, ad informare l’interessato
circa e conseguenze che tale condotta può
comportare sulle condizioni di salute;
dall’altro, in presenza di una determinazione
autentica e genuina non può che fermarsi,
ancorché l’omissione dell’intervento terapeutico
possa cagionare il pericolo di un aggravamento
dello stato di salute dell’infermo e, persino,
la sua morte”
(Cass. Sez. I, 29.5.2002, n. 26446,in
Cass.Pen,2003,542).
“Il rispetto della dignità della persona, che il
detenuto ha ritenuto violata dall’operato
dell’Amministrazione penitenziaria, costituisce
una posizione giuridica soggettiva qualificabile
quale diritto soggettivo pieno e
costituzionalmente tutelato dall’art. 27 Cost..
Ne consegue l’ammissibilità del reclamo al
magistrato di sorveglianza ai sensi dell’art. 69
Ord.penit., anche alla luce della sentenza della
Corte Costituzionale n. 99/26, la quale,
riconosciuta la carenza, nell’ordinamento
vigente, di uno strumento giuridico adeguato di
tutela delle eventuali lesioni dei diritti delle
persone detenute, auspica un intervento del
legislatore nel senso indicato,essendo ad ogni
effetto insufficiente l’attuale disciplina
dettata dagli artt. 35 e 69 Ord.pen “
(Mag.sorv.Vercelli,ord.17.4.2003,in Giur.
Merito , 2003,9).
La giurisprudenza più recente ha condiviso
l’orientamento secondo cui “I reclami contro i
provvedimenti dell'Amministrazione penitenziaria
che incidono sui diritti dei detenuti, tra cui
quelli relativi ai colloqui e alle
conversazioni telefoniche, danno origine a
procedimenti che si concludono con decisioni
del magistrato di sorveglianza munite della
forma e del contenuto della giurisdizione. Ne
consegue che in mancanza di forme procedurali
speciali relative alla materia dei reclami
contro gli atti dell'Amministrazione lesivi
dei diritti dei detenuti, l'attuazione della
tutela giurisdizionale deve necessariamente
realizzarsi attraverso l'ordinario modello
procedimentale delineato dall'art. 678 cod.
proc. pen., che attraverso il rinvio all'art.
666, comma 6, dello stesso codice, rende
ricorribili per cassazione le ordinanze emesse
dalla magistratura di sorveglianza.” (Cass.
Sez. I, 15.5.2002, n. 22573, p.m. in proc.
Valenti,in Ced Cass.;conforme Cass. Sez.
I, 19.2.2002, n. 654, Di Liberto, in Rass.
Pen. Crim.,2002,231). Un indirizzo di merito
ha affermato che “Il reclamo proposto dal detenuto
riguarda il diniego di concessione
dell’autorizzazione al colloquio con la signora.
XXX, persona diversa da familiare o convivente.
(…) La posizione giuridica dell’odierno
reclamante consiste nel diritto alla corretta
osservanza delle norme in materia di colloqui,
espressamente individuata dalla ricordata
sentenza delle SS.UU. come posizione giuridica
soggettiva suscettibile di tutela
giurisdizionale piena, e pertanto adeguatamente
valutabile con la procedura prevista dagli artt.
14 ter e 69 L. 354/75.” (Mag.sorv.Varese, ord.
24.2.2005). In dottrina, per un ampio
excursus giurisprudenziale, sia consentito
il rinvio a F. Fiorentin- G.G.Sandrelli,
L’esecuzione dei provvedimenti giurisdizionali,
CEDAM,Padova 2007.
Per quanto concerne i profili di tutela a
livello europeo, il
leading case
è costituito dalla sentenza CEDU 15.11.1996
(Diana c. Italia, in S. Bartole - B.
Conforti- P. Raimondi,
Commentario alla Convenzione Europea per la
tutela dei diritti dell’uomo e delle libertà
fondamentali,
Cedam,Padova 2001, 311-312.
Cass., Sez.
I,10.05.07, n. 20673, in Ced Cass.
Ricorrendo le condizioni previste dalla legge,
l’accesso alla procreazione assistita integra,
infatti, un diritto soggettivo perfetto
garantito al cittadino dall'art. 4 della legge
19 febbraio 2004, n. 40 (“Norme in materia di
procreazione medicalmente assistita”, pubblicata
in G.U. n. 45 del 24 febbraio 2004). Nella
giurisprudenza europea rileva la decisione
adottata dalla CEDU (Grande Chambre, sent. 4
dicembre 2007, Dickson vs. Regno Unito), che ha
condannato il Regno Unito per violazione
dell’art. 8 della Convenzione. La giurisprudenza di merito si è
occupata di un caso in cui tale procedura
appariva la più idonea ad evitare rischi per il
feto, poiché il padre, detenuto, era risultato
positivo per HCV (Mag.
sorv. Padova, ordinanza 29 gennaio 2009).
La Corte ricorda che l’articolo 3 della
Convenzione sancisce uno dei valori fondamentali
delle società democratiche. Esso proibisce in
termini assoluti la tortura e le pene o
trattamenti inumani o degradanti, quali che
siano i fatti commessi dalla persona interessata
(Saadi c/Italia [GC], n. 37201/06, § 127, 28
febbraio 2008, e Labita c/Italia [GC], n.
26772/95, § 119, CEDU 2000-IV). Esso impone allo
Stato di assicurarsi che le condizioni detentive
di ogni detenuto siano compatibili con il
rispetto della dignità umana, che le modalità di
esecuzione della misura non sottopongano
l’interessato ad un disagio o ad una prova
d’intensità superiore all’inevitabile livello di
sofferenza inerente alla detenzione e che,
tenuto conto delle esigenze pratiche della
reclusione, la salute e il benessere del
detenuto siano adeguatamente assicurate (Kudła
c/Polonia [GC], n. 30210/96, § 92-94, CEDU
2000-XI).
In dottrina, ex plurimis, cfr. A.Presutti,
La disciplina del procedimento di
sorveglianza dalla normativa penitenziaria al
nuovo codice di procedura penale, in
RIDPP, 1993,993. La Corte costituzionale,
con la sentenza n. 26/99, aveva precisato che “(…)i
procedimenti e le varianti procedurali previste,
nei singoli casi, dall’ordinamento, sono
numerosi e importanti, cosicché manca un rimedio
giurisdizionale che possa essere considerato di
carattere generale, che possa essere assunto ad
archetipo da estendere ad ogni ipotesi di
violazione di diritti della persona detenuta.”
Sez.Un.,
26.2.2003,n. 25079,Gianni,in Giust. Pen.,2004,II,282-300):
“(..)l'esistenza di un microsistema
entro il quale lo stato di detenzione, lasciando
sopravvivere posizioni soggettive e spazi di
tutela giurisdizionale coincidenti col diritto
di azione, anche a prescindere dalle
tipizzazioni stratificate da novazioni
legislative o da decisioni della Corte
costituzionale, impone la verifica dello
strumento attivabile, da attivare sempre e
comunque in un modello diretto ad investire la
magistratura di sorveglianza” (Sez. Un. penali,
26 febbraio 2003, n. 25079).
“(…) sembra dunque sgomberato il campo
da dubbi residui circa la titolarità in capo ai
detenuti di diritti soggettivi e la conseguente
attribuzione al giudice ordinario della
competenza a conoscere delle eventuali lesioni
di tali diritti poste in essere … mediante atti
dell'Amministrazione penitenziaria. Legittimata dunque a conoscere di atti e comportamenti lesivi
provenienti dall’Amministrazione penitenziaria è
la magistratura di sorveglianza, alla quale la
Corte costituzionale riconosce “una
tendenzialmente piena funzione di garanzia dei
diritti dei detenuti e degli internati”e,
specificamente il magistrato di sorveglianza
quale giudice “più vicino””(L.Cesaris
, Nota a ord.Mag.Sorv.Agrigento 8.11.2001,
in Rass. Pen. Crim., 2002, 237.
Nello stesso senso, cfr. Della
Casa F., Un
importante passo verso la tutela giurisdizionale
del detenuto,
in Dir.Pen.Proc.,1999, 859).
Cass.
Sez.I,14.4.2005, n.
13986,
Rv.
231438, Di Bari, CED
Cass.
Si rilevano, infine, dei limiti all’autonomia
valutativa del pubblico ministero: non gli è
consentito, a es., di emettere ordine esecutivo
anche se, dall’esame dei precedenti, egli
riscontri la revocabilità della sospensione
condizionale: occorre che l’accertamento segua
ad un provvedimento definitivo del giudice al
riguardo, assunto nel contraddittorio del
condannato (Cass.Sez.I, 15.3.1996, Verde, CP,
1997, 434; Cass.Sez. VI, 9.2.1996, Orlando,
CP, 1997; Cass. Sez.
VI, 27.8.1997, Mangione, CP, 1998,
2048; Cass. Sez. 5, 28.3.1996, PM. in proc.
Juric, CED Cass. ; Cass. Sez.
I, 8.2.1999, PM. in proc. Pelle, CP,
2000, 947).
Per tutti, cfr. V.Grevi (a
cura di),
Scelte di politica penitenziaria e ideologie del
trattamento nella l.10 ottobre 1986, n.663,
in L’ordinamento penitenziario dopo la
riforma (L.10 ottobre 1986, n.663), CEDAM,
Padova
1988, 83.
Cfr.
Osservatorio sul rispetto dei diritti
fondamentali in Europa,(reperibile alla url
www.europeanrights.eu), I diritti fondamentali
nello spazio di libertà sicurezza e giustizia -
prospettive e responsabilità dopo il trattato di
Lisbona, 2009.
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