Stile Giovanni
Parte I
L'idea che le più gravi violazioni
dei diritti umani 1, commesse con specifiche modalità
(in sostanza, attuate in modo sistematico e/o su larga
scala contro popolazioni civili, o nei confronti di
gruppi di individui identificabili in base a motivi di
ordine politico, razziale, religioso o sessuale) vadano
considerate crimini contro l'intera umanità, la quale a
sua volta è tenuta a monitorare, se possibile prevenire,
e in ogni caso punire gli stessi, si è andata
progressivamente e inesorabilmente affermando nel corso
degli ultimi cento anni 2.
Questo processo storico è stato il
risultato dell'iniziativa non solo di Stati e di attori
governativi, ma anche e soprattutto di individui,
gruppi, network organizzati e motivati, e numerosi altri
attori non governativi; in altre parole, di quella che
può essere definita una vera e propria “società civile”
emersa a livello globale. Le organizzazioni non
governative hanno spinto gli stati e altri attori
globali (ad esempio imprese multinazionali) verso una
maggiore compliance al rispetto dei diritti umani, e
hanno spesso fornito importanti expertise, specie di
tipo scientifico e legale.
Forse in pochi ambiti come in
questo è possibile trovare una chiara conferma di quanto
aveva a suo tempo sostenuto John S. Mill3: «Una persona
con un credo rappresenta un potere sociale equivalente a
quello di novantanove persone che hanno solo un
interesse».
Quella dei crimini contro l'umanità
è una delle idee più significative e potenti mai
concepite: un'azione o una pratica violenta e oppressiva
arriva a esser vista come offensiva non solo dei diritti
e dell'integrità della vittima diretta, ma
indirettamente anche di quelli dell'intera umanità.
Sta evidentemente emergendo, in
modo progressivo, un'identità cosmopolita che garantisce
a un'entità universale (l'umanità) la capacità di essere
offesa da questi atti, nonché il diritto di prevenirli e
punirli. Il tema dei crimini contro l'umanità riguarda,
in effetti, entrambi i sensi nei quali la parola
“umanità” può essere declinata: umanità intesa come
“senso di umanità” (humanness) e umanità intesa come
“genere umano” (humankind). La domanda centrale di
qualunque teoria dei crimini contro l'umanità è: in che
modo questi atti violano il senso di umanità e per quale
motivo offendono l'intero genere umano?
Alla base del concetto vi è l'idea
fondante che vi sia un “collettivo umano”, legato da
comuni capacità cognitive, sociali e spirituali; questo
collettivo è qualcosa che ogni individuo condivide, e da
cui trae una parte importante, se non preponderante,
della sua identità, nell'implicito riconoscimento che il
Sé e l'Altro sono mutualmente costitutivi.
La nuova “società civile” operante
a livello globale ha contribuito alla creazione e alla
diffusione di modelli cognitivi prima, e norme poi,
operanti anch'essi a livello globale. Negli ultimi
tempi, l'idea che l'individuo è cittadino del mondo, e
che per questo il mondo è divenuto la sua Polis, o
primaria unità politica di riferimento, si sta
progressivamente trasformando in realtà, grazie al
crescente numero di persone in grado di viaggiare e
spostarsi nel mondo.
Tuttavia, ancora oggi la distanza
geografica e culturale continua ad avere conseguenze
sulle risposte cognitive, morali e legali che si
attivano di fronte al manifestarsi di crimini contro
l'umanità. Ciò è particolarmente vero soprattutto quando
si tratta di casi distanti dall'attuale centro
dell'ordine globale, cioè l'occidente. La differenza nei
tempi e nei modi di reazione e di intervento nella crisi
in Kosovo, da un lato, e in quella in Darfur,
dall'altro, ne è una prova evidente.
Gli esseri umani mostrano una
marcata attitudine verso l'empatia, vale a dire la
capacità di comprendere e di identificarsi
emozionalmente con l'altro. D'altra parte, ciò tende a
manifestarsi primariamente all'epicentro della propria
vita sociale (famiglia, tribù, stato-nazione), e molto
meno con chi è “alieno”, ovvero collocato più lontano
(non solo dal punto di vista geografico) rispetto
all'individuo o al gruppo di riferimento.
Il parallelo e perdurante senso dei
confini e della “territorialità” ci rende infatti
altamente propensi all'alienazione intraspecifica
(disumanizzazione), come evidenziato dall'altrettanto
indubbia, e storicamente provata, capacità umana di dar
luogo a vere e proprie campagne di sterminio nei
confronti di popolazioni che si collocano al di fuori
del gruppo di riferimento.
Per l’uomo anatomicamente moderno,
che per molte migliaia di anni, prima della rivoluzione
neolitica, ha vissuto in piccoli gruppi nomadi dediti
alla caccia e alla raccolta, attraverso un meccanismo –
potremmo dire – di “costruzione sociale della realtà” –
l'estraneo, colui che non apparteneva al gruppo, spesso
non era neanche considerato un vero e proprio essere
umano, ma “qualcosa” in cui non ci si poteva (e doveva)
identificare. Anche in seguito, nell’antica Grecia e a
Roma, lo sfruttamento inumano e la facoltà di vita e di
morte sullo schiavo erano giustificati dalla
considerazione di quest'ultimo come non completamente
umano. Nella Germania nazista la parola “untermenschen”
(sottouomini), veniva usata per indicare prima i nemici
politici, poi i popoli slavi e gli ebrei. Anche durante
la guerra del Vietnam molti soldati americani avevano
incorporato una forte negazione dell’umanità degli
avversari, e persino la parola “killing” (uccidere)
veniva regolarmente sostituita con “wasting”
(devastare). In sostanza, quando si vogliono creare le
condizioni adatte a vincere la naturale inibizione a
uccidere dell’uomo, quasi sempre si ricorre a un
processo volto a dis-umanizzare l’avversario da
distruggere4
Prima di proseguire, e passare alla
parte più propriamente criminologica, si rende
necessaria un'avvertenza. Nella parte che precede, così
come anche nel prosieguo, ho utilizzato la locuzione
“crimini contro l'umanità” in senso lato, così da
ricomprendervi anche il genocidio e i crimini di guerra
(altre volte, al posto di crimini contro l'umanità, ho
adoperato la parola “atrocità”, sulla scorta del
crescente utilizzo in lingue inglese dell'espressione
atrocity crimes per indicare l'insieme delle più gravi
violazioni dei diritti umani, vale a dire, appunto, i
crimini contro l'umanità, il genocidio e i crimini di
guerra).
A rigore, sotto un profilo
prettamente legale, va comunque ricordato che nel
diritto internazionale penale crimini contro l'umanità,
genocidio e crimini di guerra costituiscono fattispecie
di reato diverse.
Peraltro, se si passa dalla law in
books alla law in action, anche sotto il profilo legale,
quando le supposte atrocità vanno oltre i crimini di
guerra, il loro inquadramento come crimini contro
l'umanità può essere in effetti preferibile, specie
quando l'alternativa è l'accusa di genocidio. Infatti i
crimini contro l'umanità di uccisione (murder),
sterminio (extermination) e persecuzione (persecution)
coprono sostanzialmente gli stessi fatti che possono
integrare il genocidio, e la possibile condanna è
equivalente. Tuttavia, provare un crimine contro
l'umanità è indubbiamente più facile che provare il
crimine di genocidio, giacché non viene richiesta la
prova che gli atti siano stati commessi con l'intento di
distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale,
etnico, razziale o religioso (dolo specifico); è solo
richiesto che gli atti siano diretti contro una
popolazione civile, e che siano sistematici o diffusi.
L'esperienza dei tribunali ad hoc per l'ex Jugoslavia e
per il Ruanda ha dimostrato le grosse difficoltà
connesse a sostenere l'accusa di genocidio.
Un ulteriore elemento a favore dei
crimini contro l'umanità è rappresentato dalla locuzione
finale “...e altri atti inumani” (...and other inhumane
acts) presente nella definizione contenuta nello Statuto
della Corte Penale Internazionale. Tale inserimento è
stato dettato proprio dall'esigenza di mantenere aperto
e flessibile il concetto di “crimine contro l'umanità”,
così da poter coprire in futuro nuovi tipi di atrocità,
nonché nuove restrizioni ad eventuali pratiche oggi
consentite.
Parte II
Rudolph J. Rummel5 ha calcolato che
tra il 1900 e il 1987 nel mondo sono state uccise circa
262 milioni di persone6 da parte dei governi cui erano
sottoposte7 (l'autore parla in questi casi di
“democidio”). Nello stesso arco di tempo, il numero di
omicidi (compresi quelli colposi) verificatisi nel
mondo, e non rientranti nella prima categoria, è stato
stimato in circa 1,7 milioni8 (Savelsberg, 2010). Dunque
verosimilmente il rapporto è di circa 154 a 1.
Perché allora la criminologia si è
dedicata molto poco a quelli che, non solo per la loro
gravità, ma anche per la loro incidenza, dovrebbero
essere considerati i “crimini” per antonomasia?
La letteratura criminologica, da
una parte, e la scienza politica e la letteratura
storica, dall'altra, non hanno quasi mai dialogato sulle
più gravi violazioni dei diritti umani, nonostante
appaia di tutta evidenza che ognuna delle due
prospettive avrebbe molto da offrire all'altra.
I motivi che possono aver inibito,
e tuttora inibiscono, questa auspicabile comunicazione
tra saperi (approcci) diversi sono molteplici. In primo
luogo, il lessico criminologico differisce
sostanzialmente da quello utilizzato da coloro che
tradizionalmente studiano i crimini contro l'umanità: i
criminologi usano concetti quali controllo sociale,
disorganizzazione sociale, anomia, subcultura,
apprendimento, autocontrollo, ecc., mentre gli
scienziati politici e gli storici discutono di fenomeni
quali guerra, instabilità sociale, totalitarismi,
rivoluzioni, ideologie razziste, ecc. In secondo luogo,
gli studiosi dei crimini contro l'umanità di regola
concentrano la loro attenzione su casi singoli, mentre i
criminologi sono più propensi a individuare schemi e
tendenze ricorrenti nell'ambito di teorie generali. In
terzo luogo, coloro che si dedicano allo studio dei
crimini contro l'umanità trattano in via primaria di
casi del passato, mentre i criminologi di norma si
dedicano ad avvenimenti presenti, o al massimo del
passato più recente. In quarto luogo, gli studiosi dei
crimini contro l'umanità di regola procedono con metodo
induttivo, collezionando un ricco mosaico di dati
empirici per poi arrivare a una spiegazione dell'evento,
mentre i criminologi di solito procedono al contrario,
usando un metodo deduttivo, vale a dire testando teorie
generali (pre-elaborate) con i dati empirici
disponibili. Infine, i criminologi, anche quelli che si
pongono su un piano di analisi più strutturale, di
regola si concentrano sempre sull'individuo e sul suo
comportamento, cosa peraltro in linea con la tendenza
del diritto penale moderno a collegare la responsabilità
penale (quasi) esclusivamente agli individui. Dallo
stesso approccio generale deriva anche che lo Stato,
nella sua funzione di creare e far rispettare la legge,
viene di regola escluso dal novero dei potenziali
colpevoli. Sotto questo duplice profilo, gli studiosi
dei crimini contro l'umanità manifestano indubbiamente
una maggiore indipendenza rispetto a tale prospettica
stato-centrica, sia riconoscendo lo Stato come possibile
colpevole, sia considerando quale entità collettiva
autonoma la moltitudine di attori e la complessità dei
processi che possono culminare nei crimini contro
l'umanità, intesi dunque quali particolari forme di
azione collettiva.
Coloro che commettono crimini
contro l'umanità sono caratterizzati da una personalità
particolare?
L'evidenza empirica suggerisce che
gli essere umani sono capaci di essere quantomeno
spettatori, quando non esecutori, nel mezzo di brutalità
e atrocità.
Nel 1972 Philip Zimbardo9 diede
luogo a un celebre esperimento in cui simulò una
prigione e le relative dinamiche guardia-detenuto. A tal
fine furono selezionati ventiquattro studenti di
college, maschi, attraverso batterie di test psicologici
e interviste, per accertare che nessuno di essi
lamentasse problemi psicologici o infermità fisiche o
mentali, e che nessuno di essi facesse, o avesse fatto
in passato, uso di stupefacenti o avesse precedenti
penali. Attraverso un meccanismo di selezione casuale
tra i venti, furono scelti nove detenuti e undici
guardie. La simulazione, peraltro molto realistica, si
svolse nelle cantine della facoltà di psicologia
dell’università di Stanford. Poco dopo l’inizio della
simulazione, il gruppo delle guardie si divise più o
meno in tre gruppi. Le guardie “buone”, che si
preoccupavano che i detenuti rispettassero le regole, ma
nel contempo non infierivano su di essi in modo
arbitrario, non li umiliavano, e anzi a volte facevano
loro piccoli favori. Le guardie “cattive”, che
tartassavano i detenuti, li chiamavano fuori dalla cella
a qualsiasi ora per la “conta”, li costringevano ad
insultarsi a vicenda; un prigioniero che aveva
dichiarato lo sciopero della fame contro tali
maltrattamenti fu costretto a dormire nudo e senza
coperte sul pavimento; un altro fu costretto a pulire
con le mani nude un secchio con gli escrementi che vi
aveva fatto durante la notte; e così via. Le restanti
guardie, più o meno un altro terzo, oscillavano da un
tipo di comportamento all’altro, uniformandosi spesso al
comportamento del gruppo di volta in volta prevalente in
una determinata situazione.
Di fronte a questo tipo di
trattamento, molti detenuti ebbero delle vere e proprie
crisi psicologiche. Tre di essi andarono in depressione
o furono colti attacchi d’ansia acuti, un altro
manifestò una eruzione cutanea psicosomatica su tutto il
corpo. Essi dovettero essere “rilasciati”
prematuramente.
La cosa interessante è che, benché
sarebbe stato abbastanza agevole uscire dalla
simulazione, al limite minacciando Zimbardo e i suoi
colleghi di denuncia (nessuno poteva ovviamente essere
trattenuto contro la propria volontà, qualunque fosse
stato l’impegno preso in precedenza), nessun detenuto
prese questa strada. Al contrario, alcuni detenuti
dissero ai propri familiari, durante le ore di visita,
che desideravano consultare un avvocato! La realtà era
stata ricostruita nella specifica situazione e
attraverso le relazioni reciproche. La simulazione aveva
smesso di essere una simulazione, ed era diventata la
realtà, e questo sia per le guardie, sia per i detenuti,
sia anche per gli scienziati.
Ebbene, per farla breve, la durata
programmata dell’esperimento doveva essere di due
settimane, ma tutto dovette essere sospeso dopo soli sei
giorni.
Come è possibile che un gruppo di
psicologi di fama avesse previsto una durata
“sostenibile” dell’esperimento di due settimane, e
invece lo stesso dovette essere interrotto dopo soli sei
giorni? E com’è possibile che all’interno del gruppo
delle guardie si crearono due tipi di comportamento così
diversi, quello “buono” e quello “cattivo”, quando le
condizioni psicologiche di partenza erano per tutti
simili?
Da questo esperimento è possibile
trarre una conclusione importante: la situazione in cui
un individuo concretamente si trova ad operare è in
grado di influenzare potentemente il suo comportamento,
e inoltre non è praticamente possibile prevedere in
anticipo quale tipo di comportamento egli assumerà.
È utile ricordare, a questo
proposito, un caso storico particolare, quello che ha
visto protagonista il Reserve-Polizeibataillon 101
tedesco tra il 1942 e il 1943.
Gli uomini che costituivano il
battaglione di polizia 101 erano riservisti, in
precedenza non avevano mai fatto parte di strutture
militari o di sicurezza, né erano particolarmente
indottrinati. Si trattava essenzialmente di uomini di
mezza età, provenienti dal ceto medio-basso (per il 63%
di estrazione operaia). Il 13 luglio 1942 gli uomini del
battaglione entrarono nel villaggio polacco di Józefów.
Al tramonto, avevano rastrellato 1800 ebrei: dopo averne
selezionato alcune centinaia, da deportare in quanto in
grado di lavorare, uccisero gli altri (circa 1500, tra
cui bambini, donne e anziani). Questo massacro fu solo
il primo di una lunga serie: in poco più di un anno, il
Battaglione 101 uccise altre 38.000 persone e collaborò
alla deportazione a Treblinka di oltre 45.000 ebrei.
Ebbene, è significativo che,
esattamente come indicato dall'esperimento da Zimbardo,
fu all'incirca proprio.un terzo dei poliziotti che
manifestò un comportamento particolarmente crudele e
spietato10.
Tirando le somme, persone
ordinarie, del tutto normali, possono diventare
spettatori e finanche perpetratori di atti
particolarmente atroci e brutali. Non è richiesta, a tal
fine, una speciale personalità. Di contro, e
fortunatamente, è anche vero che alcune persone non
commetteranno mai questo tipo di azioni, mentre altre
ancora lo faranno solo in specifiche circostanze. Non è
possibile prevedere in anticipo come si comporterà una
certa persona in una data situazione, tuttavia è
possibile riscontrare alcune costanti – dunque, in un
certo senso, esiste un qualche tipo di ordine nascosto
all'interno di tali complesse dinamiche collettive – che
si manifestano ad esempio nella regolarità delle
proporzioni rispettive dei diversi comportamenti
assunti. L'attenzione della criminologia andrebbe dunque
indirizzata all'individuazione di quelle particolari
condizioni sotto le quali persone ordinarie si
trasformano nelle “guardie di Zimbardo”, in modo da
poterle prevenire.
Considerato dunque che i crimini
contro l'umanità vengono di regola perpetrati in ambito
di gruppo, ne sono poi stati individuati due diversi
tipi11, ognuno caratterizzato da specifiche dinamiche:
atrocità che nascono da situazioni di intensa paura e
tensione (forward panics), e atrocità che invece seguono
a ordini specifici, provenienti da autorità militari o
politiche (standard operating procedure). Nel primo
gruppo rientrano, ad esempio, molti dei casi di atrocità
commesse in battaglia, mentre nel secondo rientra
naturalmente l'Olocausto.
Mentre persone ordinarie sono
capaci di commettere orrende atrocità, il compito può
essere indubbiamente facilitato ove il personale venga
specificamente selezionato e organizzato in gruppi che
condividano convinzioni ideologiche profonde, e a cui
sia fornita l'opportunità di imparare a commettere
brutalità e atrocità nei confronti di altri essere
umani. Ad esempio, i campi di concentramento stabiliti
inizialmente in Germania fin dal 1933 sono stati i
luoghi ideali di “apprendistato” in cui i membri delle
SS, selezionati in base alle convinzioni ideologiche e
inseriti in unità caratterizzate da una potente
uniformità ideologica, hanno potuto apprendere, iniziare
ad applicare quindi perfezionare le brutali tecniche
successivamente utilizzate su scala enormemente più
larga durante gli ultimi anni del secondo conflitto
mondiale.
Se è vero che l'apprendimento
all'interno di gruppi caratterizzati da appartenenza
selettiva rappresenta uno dei meccanismi attraverso i
quali le atrocità possono essere prima preparate e poi
commesse, allora un legame con uno dei capisaldi della
letteratura criminologica salta immediatamente
all'occhio: Edwin Sutherland12 riteneva che il crimine
non potesse (e dovesse) essere spiegato quale risultato
di patologie individuali, ma che invece fosse da
considerare come il risultato dell'apprendimento
nell'ambito di gruppi significativi, al pari di ogni
altro comportamento e attività.
Il comportamento deviante è dunque
sulla base dei medesimi processi attraverso cui le
persone apprendono i comportamenti conformi, in
interazione con altri individui in un processo di
comunicazione.
Sotto tale profilo, gli individui
propensi ad assumere comportamenti criminali (o, nel
caso che ci interessa, atrocità che si sostanziano in
gravi violazioni dei diritti umani) sono individui che
hanno appreso valori, norme, motivazioni, tecniche,
capacità, nonché meccanismi di giustificazione,
nell'ambito di associazioni differenziali basate su
rinforzi e conferme sociali.
Naturalmente, lo studio dei crimini
contro l'umanità implica l'allargamento di queste
riflessioni a un livello più alto dell'organizzazione
sociale, in cui è dato individuare l'origine degli
standard devianti che caratterizzano il gruppo, perché –
come già osservato – in tali casi è spesso lo Stato che
organizza consapevolmente i gruppi finalizzati
all'apprendimento e alla commissione del “lavoro
sporco”, e inoltre è sempre lo Stato a promuovere
l'apprendimento di valori e norme devianti attraverso
massicce campagne (come ad esempio quelle orchestrate
dal Ministero della Propaganda durante il Nazismo).
È noto, tuttavia, che anche coloro
che partecipano alla commissione delle più brutali
atrocità tendono a mantenere un facciata rispettabile,
quali membri della società civile cui appartengono. Dato
lo stridente contrasto tra le norme che informano la
vita di tutti i giorni e il coinvolgimento nelle
atrocità, essi tendono a ricorrere a misure protettive
per mantenere il rispetto di sé. È frequente il ricorso
a un arsenale di meccanismi di difesa, repressione e
razionalizzazione che non possono non riportare alla
mente le c.d. tecniche di neutralizzazione proposte dai
criminologi Matza e Sykes13, e in particolare: la
negazione della responsabilità (le azioni realizzate
sono il prodotto di forze incontrollabili); la negazione
della vittima (la vittima meritava di subire il danno);
richiamo a lealtà più alte (infrangere la norma era
necessario per conformarsi a richieste del gruppo di
appartenenza); richiamo a modelli sociali (il
comportamento è diffuso).
Per inciso, è noto che anche ex
post facto, e non solo per finalità di tipo “difensivo”,
si attivano meccanismi simili, tesi a negare la
responsabilità e individuale e collettiva, attraverso
negazioni di tipo fattuale (“non è accaduto”),
interpretativo (“ciò che è accaduto è stato qualcosa di
completamente diverso”) o implicatorio (“è accaduto, ma
io non vi ho preso parte”).
La teoria è interessante perché da
un lato si collega alla teoria delle associazioni
differenziali di Sutherland, e quindi dell’apprendimento
sociale (le tecniche di neutralizzazione vengono apprese
anche e soprattutto nelle dinamiche intragruppo),
dall’altro può essere inserita anche tra le teorie del
controllo sociale (descrive come si possano usare le
razionalizzazione per attenuare o invalidare i
meccanismi di controllo).
Eric Weitz14, comparando
l'Olocausto, le uccisioni di massa in URSS sotto Lenin e
Stalin, quelli commessi dal regime di Pol Pot in
Cambogia, le atrocità commesse in Bosnia, ha trovato tre
fattori causali all'opera in tutti i casi: 1)
l'affermazione di un'ideologia che collega razza (o
classe) e nazione; 2) l'instaurazione di un regime
rivoluzionario caratterizzato da vaste ambizioni
utopiche che implicano un modello di “uomo nuovo”,
basato sull'idea di razza (o classe), di “purezza”, e
sull'eliminazione di elementi “alieni” considerati fonte
di “inquinamento” sociale; 3) il verificarsi di un
periodo di crisi generata da guerre e/o disordini o
tumulti interni.
Se le crisi rappresentano il
terreno fertile sul quale i demagoghi e i tiranni
costruiscono una cultura dell'odio, allora la
criminologia, anche sotto questo profilo, può ben dire
qualcosa.
In effetti, le crisi che
caratterizzano le epoche post-belliche o i momenti di
depressione economica si associano spesso alla rottura
dei legami sociali. I criminologi che hanno proposto le
teorie della disorganizzazione sociale (livello macro) o
del controllo sociale (livello micro) si riferiscono
esattamente a questo tipo di situazioni.
L'allentarsi dei vincoli che legano
un individuo a un determinato spazio ove si sviluppa la
sua vita di essere sociale e l’indebolirsi
dell'influenza dei gruppi primari incoraggiano l’aumento
della devianza e del crimine15. Si indeboliscono o
vengono meno le relazioni sociali primarie, e i gruppi e
le istituzioni del controllo sociale informale, quali
famiglia, amici e lavoro, non sono più in grado di
esercitare un efficace controllo sociale sui propri
membri16.
Ciò posto, la criminologia potrebbe
(e dovrebbe) interrogarsi su come la disorganizzazione
sociale che caratterizza i periodi di crisi sia in grado
di generare non solo crimini individuali
(convenzionali), ma anche crimini contro l'umanità,
attraverso un processo ben noto che parte dalla
destabilizzazione, passa per ondate di violenza
collettiva, la nascita di movimenti autoritari e
razzisti, la loro successiva presa di potere, per
arrivare infine a dure repressioni e gravi violazioni
dei diritti umani, e finanche eventualmente al
genocidio.
Peraltro, i rischi derivanti dalla
disorganizzazione sociale sono ulteriormente accresciuti
quando si presentano delle opportunità favorevoli, quali
obiettivi non protetti17. In periodi di conflitti
(etnici), tali obiettivi sono rappresentati naturalmente
proprio e soprattutto dalle minoranze (etniche).
I tipi di atrocità che oggi
sostanziano i crimini contro l'umanità sono stati
indubbiamente un fenomeno ricorrente nella storia
dell'uomo, tuttavia è indubbio che essi abbiano a volte
assunto delle caratteristiche peculiari a causa della
progressiva burocratizzazione legata all'avvento degli
Stati moderni. Raul Hilberg18, sulla scorta di quanto
già precedentemente mostrato da Hanna Arendt19 (1963),
ha fornito un quadro molto preciso del processo
attraverso il quale fu minuziosamente organizzato il
sistematico sterminio degli ebrei e di altre categorie
di soggetti “indesiderabili”: un processo basato
essenzialmente su una burocrazia perfettamente
funzionante operante nel contesto di un regime
totalitario. Sotto tale profilo, viene in rilievo anche
un altro profilo legato alla burocrazia, vale a dire
l'obbedienza all'autorità: una generale inclinazione ad
obbedire all'autorità (amplificata o attenuata in
funzione della comunità di riferimento considerata: nel
caso di quella tedesca, tale inclinazione risulta
particolarmente accentuata) può aiutare a spiegare come
una moltitudine di persone “normali” abbia potuto
contribuire, attraverso l'esecuzione di procedure
operative standard, alla commissione di atrocità così
grandi. Del resto, il noto esperimento di Stanley
Milgram20 ha mostrato chiaramente che persone normali
sono disposte a seguire acriticamente le istruzioni
ricevute nell'ambito di un esperimento scientifico da
parte del ricercatore (che rappresenta in quella
specifica situazione l'autorità) fino al punto di
provocare dolore intenso, e finanche il rischio di
morire, a un altro essere umano.
Uno dei problemi maggiori è quello
del passaggio delle responsabilità, con conseguente
scarico delle stesse: gli esecutori scaricano la
responsabilità sui livelli più alti della gerarchia, i
quali a loro volta la scaricano sui livelli più bassi.
Questo è reso possibile dalla struttura generale
dell'organizzazione (Stato), dalla diluizione delle
responsabilità conseguente alla radicale separazione tra
coloro che prendono le decisioni e coloro che in ultima
analisi agiscono sul campo; in tal modo i primi
conservano le mani pulite, e i secondi mantengono pulita
la coscienza.
È chiaro che il rischio che
l'apparato burocratico statale sia utilizzato per
commettere atrocità aumenta esponenzialmente nel momento
in cui la divisione dei poteri e il relativo sistema di
pesi e contrappesi, viene meno. Nei regimi totalitari in
effetti la burocrazia diventa uno strumento (spesso una
vera e propria “arma”) nelle mani di un potere politico
altamente concentrato, potere che finisce per penetrare
in modo pervasivo in ogni sfera della società.
Anche a tale proposito la
criminologia può offrire un contributo rilevante.
In primo luogo, le teorie
criminologiche del conflitto21. Secondo questa
prospettiva teorica, i conflitti insorgono tra gruppi
che tentano di esercitare un controllo su eventi o
situazioni particolari, nonché sulle risorse (che a loro
volta sono funzionali ad esercitare il controllo e il
potere). La legge costituisce una risorsa. I gruppi
dominanti non solo sono in grado di usarla e applicarla
per perseguire i propri fini, ma anche per colpire i
gruppi subalterni. Dal momento che la legge incarna i
valori di coloro che la creano, esse tenderà a
criminalizzare maggiormente i comportamenti di coloro
che non appartengono ai gruppi dominanti; evitare il
rischio di criminalizzare i comportamenti di coloro che
appartengono ai gruppi dominanti.
In secondo luogo, anche la teoria
dell'equilibro del controllo (Control Balance Theory)
proposta da Charles Tittle22 può contribuire a gettare
nuova luce sulle dinamiche in esame.
L’assunto centrale di questa teoria
è che il rapporto tra la “quantità di controllo” che
ciascuno, da un lato, subisce da parte degli altri, e
che, dall'altro, esercita sugli altri (control ratio),
costituisce una variabile fondamentale in grado di
incidere sulla probabilità di assumere comportamenti
devianti in generale, nonché sulla probabilità di
commettere specifici atti devianti in particolare. Un
soggetto sperimenta un deficit di controllo quando altri
(individui, gruppi, organizzazioni) sono in grado
ridurre o bloccare le sue scelte, o quando il contesto
strutturale rende difficile o impossibile il
raggiungimento di obiettivi personali. Specularmente, un
soggetto sperimenta un surplus di controllo quando (da
solo o quale membro di un gruppo, organizzazione) è
nelle condizioni di limitare o bloccare le scelte altrui
e/o di opporsi efficacemente ai tentativi altrui di
limitare le proprie scelte, o quando è in grado di
superare le barriere strutturali che si frappongono al
conseguimento dei propri obiettivi.
Secondo questa teoria, il rapporto
tra il grado di controllo esercitato e il grado di
controllo subito dovrebbe essere quanto più possibile
vicino a 1. Se il rapporto è sbilanciato, in un senso o
nell’altro – ovvero quando vi è un deficit o un surplus
di controllo – ci sarà una maggiore probabilità di
assumere comportamenti devianti e/o criminali in
generale, e una maggiore probabilità di assumere
specifici tipi di comportamento deviante e/o criminale
in particolare, a seconda che sia dato riscontrare, per
l’appunto, un deficit o un surplus di controllo. Un
rapporto bilanciato, intorno a 1, predispone alla
conformità, un rapporto sbilanciato, maggiore di 1,
predispone a forme di devianza definite “autonome”, e un
rapporto sbilanciato, minore di 1, predispone a forme di
devianza definita “repressive”. A seconda del grado di
squilibrio del controllo – andando dal grado minimo a
quello massimo – queste due forme di devianza possono
essere a loro volta suddivise in tre sottotipi: le forme
“autonome” in exploitation (sfruttamento), plunder
(saccheggio) e decadence (decadenza); quelle
“repressive” in predation (predazione), defiance (sfida,
disprezzo) e submission (sottomissione).
Riguardo in particolare alla forma
di devianza definita decadence – che, in quanto legata a
un estremo surplus di controllo, è quella che
maggiormente può rilevare ai fini di un'analisi
criminologica delle più gravi violazioni dei diritti
umani – lo stesso autore include in effetti in questa
categoria «i pogrom attraverso i quali leader politici o
militari cercano di sterminare intere categorie di
persone che ritengono indesiderabili (come
nell'Olocausto imposto da Hitler o la distruzione dei
Nativi Americani...)»23.
La criminologia ha dunque già
intrapreso una prima, seppur ancora limitata riflessione
circa la valenza criminogena di una estrema
concentrazione del potere. È infatti indubbio che in
tali casi le motivazioni e le opportunità per lo Stato
di commettere crimini si moltiplicano e si amplificano,
specie nel momento in cui una determinata categoria di
persone è stata precedentemente definita come indegna di
vivere.
Nello storia dell'occidente, a
partire dal XVII secolo è grandemente aumentata la
capacità dei governi di esercitare un controllo interno,
grazie all'espansione del commercio, la nascita dei
moderni sistemi fiscali, la strutturazione delle
amministrazioni pubbliche, gli eserciti stabili, le
infrastrutture dei trasporti, gli apparati di polizia, i
tribunali, le prigioni, e il sistema di istruzione.
Questa espansione delle prerogative
e capacità dello Stato ha avuto certamente conseguenze
molto positive, tra cui una marcata riduzione della
violenza interna, tra i cittadini, il che a sua volta,
in una sorta di meccanismo di retroazione di tipo
virtuoso, ha al contempo alzato il livello di
sensibilità delle persone all'esperienza della violenza,
nell’ambito di un generale processo di civilizzazione.
Data questa nuova sensibilità, a tiranni come Hitler la
storia ha riservato un giudizio diverso rispetto ad
altri tiranni sanguinari del passato, ai quali spesso è
stato assegnato lo status di “eroe” nonostante le
atrocità commesse. Infatti la nuova sensibilità ha
contribuito a istituzionalizzare la tradizione
giudeo-cristiana secondo la quale la vittima, lungi
dall'essere “impura” come ritenuto in passato, è da
considerarsi al contrario innocente e “sacra”.
Allo stesso tempo, tuttavia, la
crescente capacità dello Stato può avere conseguenze
catastrofiche quando i controlli interni (attraverso la
separazione dei poteri e il sistema dei pesi e
contrappesi) ed esterni (da parte della comunità
internazionale) vengono meno. La storia ha mostrato
chiaramente quanto possa essere sanguinario il Leviatano
nel momento in cui, sottratti i diritti ai cittadini,
invece di proteggerli diventa esso stesso assassino. La
furia omicida dello Stato può evidentemente manifestarsi
e svilupparsi su una scala ben più larga rispetto a
quella dell'individuo.
Come ben evidenziato da Stanton
Wheeler24 a proposito del corporate crime, le
organizzazioni possono diventare armi potenti nelle mani
dei criminali. Se questo è vero, a maggior ragione lo
stesso ragionamento vale per gli stati moderni25. È
stata infatti individuata una precisa relazione tra la
nascita dello Stato moderno e la violenza mortale: in
accordo con quanto previsto da Hobbes, inizialmente, nei
primi stadi della strutturazione dello Stato si verifica
una marcata riduzione della violenza, ma un eccessivo
livello di concentrazione del potere dello Stato è in
grado di generare un ingente numero di vittime. In
quest’ultimo caso, quale contromisura non rimane alcuna
alternativa disponibile se non il controllo esterno,
vale a dire un controllo esercitato a livello
internazionale.
Infine, secondo la Teoria Generale
di Gottfredson e Hirschi26, detta anche del “basso
autocontrollo”, «la persona che manca di autocontrollo
tenderà ad essere impulsiva, insensibile, fisica (in
contrapposizione a mentale), amante del rischio, poco
lungimirante, e non-verbale, e per questo tenderà a
compiere atti criminali o altri atti simili», intesi
quali atti finalizzati alla realizzazione del proprio
interesse mediante la forza o la frode. L’esperimento
carcerario di Zimbardo ci mostra l’estrema sensibilità
dell’individuo al contesto immediatamente circostante,
ovvero il grande influsso che, in determinati casi, la
situazione può esercitare sulla personalità individuale.
La prospettiva antropologica ci svela le dinamiche
tribali e le erronee costruzioni della realtà che,
nell’assenza del pensiero razionale e della conoscenza
reciproca, portano a dis-umanizzare l’avversario.
Se si passa dal piano dell’azione
individuale a quello dell’azione collettiva, è facile
accorgersi che almeno in un alcuni tipi di atrocità
(pulizia etnica, assassini di massa, genocidi, ecc.) di
tipo meno “burocratizzato”, tutte le caratteristiche
appena menzionate continuano a sussistere, seppur
riferibili non più al singolo individuo, ma all’entità
collettiva di riferimento. Spesso è un’opportunità
favorevole che scatena gli eventi (ad es. la fine di un
equilibrio politico che mediava le differenze etniche, o
la schiacciante supremazia di un’etnia su un’altra); è
indubbio l’uso della forza (mortale), con finalità
spesso “politiche” (esiste quindi un “interesse” della
collettività di riferimento); invece di “perdere tempo”
in complicati compromessi e lunghe negoziazioni
politiche, vengono preferite strategie immediate
(eliminazione fisica dell’avversario); vengono
privilegiate soluzioni rischiose (si mette in pericolo
la propria stessa incolumità), poco pianificate (gli
obiettivi presi di mira spesso sono del tutto casuali)
ed eccitanti (l’assassinio di massa diventa una sorta di
euforica orgia di sadismo collettivo); i vantaggi a
lungo termine sono assolutamente dubbi (a causa del
circolo vizioso della vendetta, e oggi, sempre più
spesso, dell’intervento della comunità internazionale);
vi è una totale indifferenza verso le proprie vittime e
le loro sofferenze (benché spesso si tratti di donne e
bambini inermi), a cui viene negato lo status stesso di
“umanità” (attraverso l’umiliazione, la degradazione, la
dis-individualizzazione, la distruzione dei simboli
culturali, la negazione di una degna sepoltura); di
frequente vengono preferiti strumenti di uccisione come
coltello, ascia, machete, e non armi più moderne e
“asettiche” (a suggello della regressione alla ferocia
dello scontro tribale arcaico); nella maggior parte dei
casi, le persone coinvolte sono qualificabili – almeno
in riferimento al comportamento pregresso – come persone
“normali” (come “normali” erano tutti i partecipanti
alla simulazione carceraria di Zimbardo).
Conclusioni
Il potenziale incorporato nell'idea
dei crimini contro l'umanità, specie quello di generare
interventi umanitari, li rende una fondamentale cornice
per mobilitazioni future di attivisti, ma al contempo,
come tutte le forme di controllo sociale (questa volta
esercitato a livello globale-planetario), si presta ad
una ambivalenza di fondo. Come già a suo tempo
sottolineato da Henri Donnedieu de Vabres, esperto
legale francese e giudice del tribunale di Norimberga,
«La teoria dei crimini contro l'umanità è pericolosa; è
pericolosa per le persone, per l'assenza di una precisa
definizione; è pericolosa per gli Stati, perché offre a
uno Stato il pretesto per intervenire negli affari
interni degli Stati più deboli»27. Circa cinquant'anni
dopo, David Chandler ha manifestato la medesima
preoccupazioni, affermando che «In Medio-Oriente, in
Africa e nei Balcani, l'esercizio della “giustizia
internazionale” significa un ritorno all'aperto dominio
delle grandi potenze sugli stati che sono troppo deboli
per prevenire pretese esterne nei loro confronti»28.
Sarebbe certamente inutile negare
che tale rischio esiste, ed è grave. Tuttavia è anche e
proprio l'affermarsi di una “società civile globale”,
che si sostanzia nei diversi movimenti, associazioni,
reti di pressione e network internazionali, ad attestare
la progressiva erosione di uno dei fondamentali principi
del mondo moderno, nonché, a partire dalla pace di
Westfalia caposaldo delle relazioni internazionali, vale
a dire quello della sovranità dello Stato. E questo vale
non solo per gli Stati più deboli, ma anche per quelli
più potenti e influenti.
Con l'avvento di un mondo
globalizzato, legato da sempre più efficaci e penetranti
mezzi di comunicazione, si va sempre più affermando
un'idea di comunità umana che vada al di là dei confini
territoriali, etnico-tribali e religiosi. È ormai
evidente il desiderio di opporsi, marginalizzare, fino a
far scomparire, alcune delle più nere e distruttive
pratiche che hanno contrassegnato la nostra evoluzione
bio-socio-culturale.
Infatti – come notato in precedenza
– se è vero che gli esseri umani tendono a manifestare
empatia in primo luogo all'epicentro della propria vita
di relazione, è d'altra parte certamente anche vero che
essi mostrano la capacità di estendere questa empatia
verso comunità che vanno al di là di se stessi e di
ridotte unità sociali, per allargarsi a circoli di
inclusione progressivamente sempre più più ampi. Sotto
tale profilo, si può dire che oggi questo circolo
racchiuda virtualmente l'intero genere umano, proprio e
anche in quanto esso si (auto-)percepisce in modo
unitario grazie a reti di contatto e canali di
comunicazione di ampiezza mai vista prima.
Da quest’ultimo punto di vista, le
divisioni culturali che attualmente caratterizzano il
nostro pianeta, e che negli ultimi tempi sembrano
tragicamente acutizzarsi, posso essere interpretate come
l’ultima estrema reazione di fronte a un inesorabile
processo evolutivo che parte dalla tribù, passa per
l’etnia, per lo stato-nazione e infine per le unioni
sovranazionali. La prossima tappa – dopo l’attuale colpo
di coda delle forze antimoderne – non potrà che essere
una “comunità universale”, caratterizzata da una cultura
umana globale, e il processo di globalizzazione in fondo
non rappresenta altro che il compimento di questo
imponente processo storico-evolutivo. Una cultura umana
globale costituirà indubbiamente un potente antidoto
alle difficoltà di comunicazione, alle incomprensioni,
ai conflitti, alle guerre, e renderà sempre più ardua la
possibilità di ricorrere alla dis-umanizzazione
dell’altro, poiché arduo e innaturale è dis-umanizzare
chi fa parte della stessa “tribù”.
In pochi anni, del resto, sono
stati fatti importanti passi avanti. Si consideri, ad
esempio, l'impunità che tradizionalmente era garantita
ai leader politici per le atrocità da essi ordinate.
Fino a poco tempo fa, anche il peggior dittatore poteva
ragionevolmente sperare in un confortevole pensionamento
(qualora fosse riuscito a uscire indenne dal processo di
deposizione). Oggi le cose stanno progressivamente
cambiando. Certamente, dittatori non più al potere, come
ad esempio Saddam Hussein, rappresentano un obiettivo
piuttosto facile. Tuttavia alcune prime crepe si stanno
notando anche altrove, e l'idea che persino i leader dei
paesi democratici possano prima o poi essere chiamati a
rispondere di crimini contro l'umanità non appare poi
così implausibile: è noto, ad esempio, che Henry
Kissinger, segretario di stato durante le
amministrazioni Nixon e Ford, e Donald Rumsfeld,
segretario alla difesa durante l'amministrazione Bush,
evitano accuratamente di recarsi in paesi dove
potrebbero essere passibili di arresto e sottoposti a
procedimento per crimini contro l'umanità.
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1 Giovanni Stile, avvocato, Ph.D.
in criminologia, è ricercatore di diritto penale presso
facoltà di Studi Politici "Jean Monnet" della Seconda
Università di Napoli. È titolare dell'insegnamento
"Economia e Criminalità" presso la medesima facoltà.
2 Relazione tenuta in Prishtina,
Kosovo, in data 11 settembre 2010 in occasione della
“International Conference: Penal Protection of Human
Dignity in Globalisation Era, 11-13 September 2010,
Prishtina, Kosova”.
3 Mill,
Considerations on Representative Government, p. 14,
London, 1861 @
http://books.google.com/books/reader?id=emABAAAAYAAJ&hl=it
4 Fromm, Anatomia della
distruttività umana. Milano, 1973
5 Rummel, Death
by Government. New Brunswick, 1994
6 Questa cifra non comprende le
vittime delle guerre.
7 Dati disponibili anche @
http://www.hawaii.edu/powerkills/NOTE1.HTM
8 Savelsberg,
Crime and Human Rights. London, 2010
9 Haney, Banks,
Zimbardo, “Interpersonal dynamics in a simulated
prison”, in International Journal of Criminology and
Penology, 1, 1973
10 Browning,
Ordinary Men. Reserve Police Battalion 101 and the Final
Solution in Poland. New York, 1992
11 Collins,
Violence. Princeton, 2008
12 Sutherland,
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13 Sykes, Matza,
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14 Weitz, A
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15 Shaw, McKay,
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16 Hirschi,
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17 Cohen,
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18 Hilberg, The
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19 Arendt, La banalità del male:
Eichmann a Gerusalemme. Milano, 1964
20 Milgram,
“Behavioral Study of Obedience”, in Journal of Abnormal
and Social Psychology 67 (4), 1963
21 Vold,
Theoretical Criminology. New York, 1958; Chambliss,
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Criminality and Legal Order. Chicago, 1969; Quinney, The
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22 Tittle,
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23 Tittle, ivi,
p. 191
24 Wheeler,
Rothman, “The Organization as Weapon in White Collar
Crime”, in Michigan Law Review 80, 1982
25 Sul ruolo dei moderni apparati
di Stato nell'esecuzione dei genocidi, si veda Hilberg,
op. cit.; Bauman, Modernity and the Holocaust.
Ithaca, 1989.
26 Gottfredson,
Hirschi, A General Theory of Crime. Stanford, 1990, p.
90
27 Donnedieu de
Vabres, “The Judgment of Nuremberg and the Principle of
Offences and Penalities”, in Review of Penal Law and of
Criminology in Brussels, July, 1947, riportato in Law
Reports of Trials of War Criminals, p. 26, @
http://books.google.it/books?id=4pQRWtyCyGkC&dq=)
28 Chandler,
“International Justice”, in Archibugi D. (ed.), Debating
Cosmopolitics. London, 2003, p. 37 |