Negli Stati Uniti i blog di singoli
economisti, molto spesso accademici, incidono sulla
visibilità dei risultati scientifici, sulla reputazione
degli autori e della loro università e sulle opinioni
dei lettori. In Italia, invece, per l'informazione
economica abbiamo quasi esclusivamente blog collettivi.
Perché? Quattro le ipotesi: una minor cultura economica
del paese; un maggior grado di concentrazione
proprietaria dei media, che lascia meno spazio alle
iniziative individuali; una minor propensione al rischio
dei nostri intellettuali.
Perché molti economisti accademici,
soprattutto negli Stati Uniti, dedicano tempo e fatica a
gestire un blog? Si pensi ad esempio, a Steve Levitt di
Freakonomics, Paul Krugman, Brad De Long, Greg Mankiw,
Dani Rodrik, Becker e Posner, Mark Thoma, John Taylor.
Forse i professori, a una certa età, sono stufi dei
lunghissimi tempi necessari a pubblicare sulle riviste
scientifiche? O ambiscono semplicemente a ottenere
maggior visibilità, per sé e per i propri lavori
scientifici? Lo fanno per spirito civico, per sostenere
le proprie idee, per generare un dibattito e avere i
feedback dei lettori? E perché da noi questo, con rare
eccezioni, non accade?
TRE EFFETTI
Un recente lavoro della Banca
Mondiale risponde ad alcuni dei precedenti
interrogativi. Gli autori, David McKenzie e Berk Ozler,
sottopongono a verifica empiricaalcune interessanti
ipotesi: ad esempio che a) i link di otto tra i più
importanti blog americani alle pubblicazioni
scientifiche/working papers citati ne accrescano in modo
significativo la diffusione (la frequenza di download e
visione di abstract); b) che i blog di economia
accrescano la visibilità/reputazione degli autori
rispetto a colleghi di pari livello scientifico; c) che
i blog influenzino l'interesse e le opinioni dei lettori
riguardo ai temi trattati.
I risultati sono interessanti. Il
link da un blog accresce in maniera significativa le
abstract views e i downloads della pubblicazione nel
mese della citazione e in quello successivo. Com’è
illustrato dalla figura 1, alcuni blog hanno un effetto
“moltiplicativo” veramente rilevante: ad esempio, una
citazione di Paul Krugman, Marginal Revolution o
Freakonomics comporta un aumento delle visioni di
abstract compreso tra 300 e 470 unità (rispetto a una
media mensile di 10,3 visioni dei papers del National
Bureau of Economic Research) e un impatto sui download
di 33-100 unità (rispetto alla media mensile di 4,2 di
un paper Nber).
L'effetto reputazione è
particolarmente interessante: gli autori impiegano i
risultati di un’indagine survey sugli economisti che
godono di maggiore rispetto e ne incrociano i risultati
con il ranking (RePec) dei principali 500 economisti al
mondo, basato sulle pubblicazioni scientifiche.
L'indagine si chiede se la probabilità di apparire nella
lista degli economisti più ammirati, oltre che dal
ranking scientifico, sia anche influenzata dal fatto di
essere o no un blogger. Lo è: l'attività di blogger
accresce di circa il 40 per cento la probabilità di
apparire nella lista degli economisti maggiormente
ammirati, un effetto equivalente a quello di essere tra
i cinquanta migliori economisti del modo sulla base del
record di pubblicazioni.
Infine, per valutare l'impatto dei
blog, gli autori hanno condotto un esperimento casuale
su 619 tra studenti di Master e PhD in sviluppo
economico, tra giovani economisti della Banca Mondiale e
tra alcuni giovani appartenenti a Ong, una parte dei
quali è stata invitata a seguire un nuovo blog della
Banca Mondiale. I risultati mostrano che quanti sono
esposti al blog danno un miglior giudizio sulla qualità
della ricerca alla Banca Mondiale, e, in parte sulla
desiderabilità di lavorarci.
E L’ITALIA?
Ma allora perché in Italia questo
non accade? Se scorriamo la classifica di Blogbabel dei
500 blog più frequentati abbiamo, per l’informazione
economica, quasi esclusivamente blog collettivi : sia in
ambito “accademico” (come lavoce.info, noisefromamerika),
sia in ambito “giornalistico” (chicagoblog, phastidio).
Certamente quest’assenza non può essere dovuta agli
incentivi interni alla carriera accademica: se bloggare
ha un elevato costo opportunità perché sottrae tempo
prezioso al lavoro scientifico, questa spiegazione
varrebbe solo se il merito accademico fosse molto più
importante in Italia che negli Stati Uniti (cosa
piuttosto improbabile). Un'altra plausibile spiegazione
è che alcuni economisti possono ottenere esattamente gli
stessi risultati di un blog “individuale” scrivendo sui
quotidiani a larga diffusione, con l’indubbio vantaggio
di accedere ad un ampia platea senza doversela
“conquistare sul campo”, come un blogger qualsiasi. Ma
questa spiegazione è convincente solo in parte, perché
in tutti i paesi del mondo gli economisti scrivono anche
sui grandi quotidiani, mentre da noi quasi solo su
questi e su siti collettivi. Rimane dunque una
spiegazione basata sugli incentivi esterni: se i
benefici individuali in termini di reputazione
personale, diffusione dei risultati scientifici,
possibilità di influenzare l’opinione pubblica con un
blog sono percepiti da noi come una frazione di quelli
americani, sarà razionale dividerne gli oneri
associandosi in un sito collettivo, come infatti
avviene. Ma allora cosa spiega tale percezione? Avanzo
qui quattro ipotesi: dal lato della domanda
d’informazione, 1) una minor cultura economica, una
minor diffusione di internet e la barriera della lingua
italiana implicano una minor dimensione del mercato
italiano e dunque limitano l’impatto dei blog economici
(ma il successo de lavoce.info sembrerebbe contraddire
questa ipotesi); dal lato dell’offerta di informazione,
2) l’elevato grado di concentrazione proprietaria dei
media lascia minor spazio a iniziative individuali; 3)
l’estrazione cattolica/post-socialista di molti
economisti favorisce le iniziative “collettive”; 4) le
attività di networking producono in Italia maggiori
vantaggi di quelle che passano per l’iniziativa
individuale. |