a cura del dr Giuseppe Caristena
1. La vicenda
In data 8 settembre 2011 è stata
depositata la sentenza n. 18348 con cui i giudici della
prima sezione della Corte di Cassazione avevano, in data
21 aprile 2011, condannato un ex curatore fallimentare
al risarcimento del danno per inesatto adempimento delle
proprie funzioni nell’ambito della procedura
concorsuale. Veniva così confermata dagli ermellini la
decisione dei giudici di merito.
In particolare, all’ex curatore è
stato contestato di non aver tempestivamente receduto,
durante il suo incarico professionale, da un contratto
locativo dei locali aziendali della fallita, mantenendo
così in vita l’obbligazione di pagamento dei relativi
canoni.
Ma non solo. All’ex curatore è
stato altresì contestato di aver consentito alla fallita
la prosecuzione dell’attività imprenditoriale. Tra
l’altro, senza che gli introiti confluissero all’attivo
fallimentare.
Insomma, oltre al danno la beffa.
Sin dal primo grado, la difesa
dell’ex curatore, per quel che a noi qui interessa, ha
fatto leva sull’interpretazione letterale, restrittiva,
dell’art. 38, comma 2, Regio Decreto 16 marzo 1942, n.
267 (Legge Fallimentare). Si è tentato, infatti, di
correre ai ripari eccependo che il convenuto aveva a suo
tempo lasciato l’incarico in forza di proprie
dimissioni, anziché per impulso dell’autorità
giudiziaria ex art. 37 l. fall (1).
Per capire meglio, al secondo comma
del sopracitato art. 38 si legge che “[d]urante il
fallimento l'azione di responsabilità contro il curatore
revocato è proposta dal nuovo curatore, previa
autorizzazione del giudice delegato, ovvero del comitato
dei creditori.” (2)
In poche parole, la difesa del
convenuto puntava alla dichiarazione d’inammissibilità
dell’azione risarcitoria promossa dal nuovo curatore,
sostenendo che la vicenda non fosse da ricondurre al
suddetto articolo in virtù di un’interpretazione
prettamente letterale dello stesso, volta a restringerne
il campo d’applicazione al solo caso di revoca del
curatore.
Per di più, il convenuto ricordava,
a supporto della propria difesa, l’avvenuta approvazione
del rendiconto. Evento a carattere asseritamente
preclusivo dell’azione di responsabilità di cui si
discute.
L’impianto difensivo messo in piedi
dall’ex curatore non ha però convinto i giudici nel
corso di tutto il processo, tant’è che in ultimo grado è
stata, in buona sostanza, confermata la condanna al
risarcimento del danno patito dal ceto creditorio.
Tale giudizio è frutto di
un’argomentazione con cui i giudici hanno inteso
riconoscere il carattere (naturalmente) elastico
dell’art. 38, comma 2, l. fall.
In effetti, per le ragioni
riportate nel paragrafo successivo, l’interpretazione
estensiva della norma appare la più corretta, dal punto
di vista logico, e più in armonia con il corpo normativo
che disciplina la materia fallimentare.
2. La parola dei giudici di
Cassazione
Prima di illustrare le motivazioni
con cui la Corte di Cassazione ha deciso di confermare
la condanna risarcitoria dell’ex curatore, è
interessante evidenziare un particolare aspetto connesso
all’esercizio dell’azione di responsabilità.
Ai sensi del secondo comma
dell’art. 38, legge fallimentare, l’iniziativa
processuale spetta unicamente al nuovo curatore, fermo
restando che questi debba ottenere il placet del
“giudice delegato, ovvero del comitato dei creditori”.
La presenza nel testo della
congiunzione alternativa “ovvero” è stata oggetto di
varie
interpretazioni.
C’è chi reputa sufficiente
l’autorizzazione richiesta ad uno solo dei due organi
sopra menzionati. A ben riflettere, si tratterebbe della
tesi più in linea con l’interpretazione letterale,
principio d’ermeneutica, che in questo caso non appare
poi così fuori luogo da poter essere trascurato.
Restando agganciati a questo primo
orientamento, nel caso in cui si sia deciso per una
richiesta rivolta ad entrambi gli organi, la mancata
concessione da parte di uno di questi, secondo alcuni
autori, non paralizzerebbe comunque l’esercizio
dell’azione di responsabilità, data la posizione di
asserita parità che tali organi assumono (3). Altri,
invece, propendono per la via del reclamo al fine di
uscire dall’impasse creato dalla mancata concessione
dell’autorizzazione da parte di uno dei due organi
interpellati (4).
Altri ancora ritengono più
opportuno che il nuovo curatore si rivolga ad entrambi
gli organi, consapevole comunque di poter esercitare
l’azione di responsabilità in forza anche di una sola
autorizzazione, e ferma restando la via del reclamo da
parte di qualunque soggetto interessato avverso il
provvedimento che concede o nega l’autorizzazione o
avverso la sua omissione, con eventuale sospensione
della procedura già innescata in forza di una sola
autorizzazione (5).
Dall’altra parte, l’orientamento
più rigido esige il rilascio della doppia
autorizzazione, giustificando tale necessità sulla base
del diverso valore assunto dal “benestare” del giudice
delegato rispetto a quello del comitato dei creditori.
Difatti, il primo organo garantirebbe la legittimità
degli atti, mentre il secondo certificherebbe
l’opportunità della decisione del curatore, titolare dei
compiti gestori nel corso della procedura (infra par.
3).
Veniamo ora ai passaggi di maggiore
interesse contenuti nella sentenza in esame. I giudici,
soffermandosi su talune circostanze specifiche, hanno
categoricamente rigettato una limitazione del campo
d’applicazione di una norma, frutto di una superficiale
interpretazione letterale, come avvenuto nella vicenda
in esame.
La prima questione affrontata dai
giudici nasce dal fatto che all’art. 38, secondo comma,
l. fall., si legge di un’azione di responsabilità
promossa nei confronti del curatore revocato.
Nonostante sia menzionata la sola
ipotesi della revoca, gli ermellini chiariscono che tale
indicazione non è da considerarsi “tassativa, bensì solo
normale”. Essi statuiscono giustamente che sia da
sussumere sotto questa fattispecie normativa astratta
anche l’ipotesi in cui il curatore abbia lasciato il
proprio incarico sulla base di dimissioni. Come è
accaduto nel caso di specie.
A ben riflettere, non prendere per
buona la tesi sposata dai giudici d’ultimo grado
significherebbe svilire la ratio della norma e
impoverirne l’efficacia. Difatti, se si limitasse
l’applicabilità della norma al solo caso della revoca
del curatore si arriverebbe paradossalmente a
legittimare l’elusione della legge, dal momento che
ciascun furbo curatore, fiutando il rischio di
responsabilità, non esiterebbe un istante a dimettersi
dall’incarico prima dell’emersione di un qualsiasi danno
conseguenza della sua imperizia.
Detto ciò, è stato appalesato che
il presupposto per l’esercizio dell’azione di
responsabilità in commento è da rinvenirsi in una vera e
propria violazione dei propri doveri da parte del
curatore, anziché semplicemente nell’avvenuta revoca
dello stesso.
L’altra questione, anch’essa
connessa all’interpretazione letterale della stessa
norma, consiste nell’indagine sul carattere del rapporto
tra approvazione del rendiconto e azione di
responsabilità.
In altre parole, l’avvenuta
approvazione del rendiconto di gestione osta
all’esercizio dell’azione di responsabilità contro il
curatore?
Nel caso di specie l’ex curatore ha
eccepito l’inammissibilità dell’azione in questione in
quanto preclusa dal fatto che il rendiconto, da egli
presentato prima delle proprie dimissioni, fosse già
stato approvato senza che in quella sede fosse stata
promossa alcuna contestazione nei confronti della sua
persona.
Il riferimento specifico è all’art.
116, l. fall., richiamato dall’ultimo comma dell’art. 38
della
medesima legge, in cui si legge che
“il giudice [dopo che il curatore gli ha presentato
l’esposizione del rendiconto di gestione] ... fissa
l’udienza fino alla quale ogni interessato può
presentare le sue osservazioni o contestazioni”. L’art.
116 cit. si conclude statuendo che “[s]e all’udienza
stabilità non sorgono contestazioni … il giudice approva
il conto con decreto […]”.
Ebbene, anche su questo punto della
difesa i giudici hanno avuto da ridire.
In effetti, è stato chiarito che il
giudizio di rendiconto di cui all’art. 116, l. fall., è
da considerarsi semplicemente la sede naturale in cui
promuovere l’azione di responsabilità nei confronti
dell’ex curatore, senza presunzione d’esclusività. E ciò
“in forza di connessione assoluta, ex lege: data
l’ammissibilità della scissione del controllo più
propriamente contabile da quello gestionale”.
In virtù di tale considerazione,
non può ritenersi preclusa l’azione di responsabilità
esercitata al di fuori del giudizio sul rendiconto
gestionale del curatore: né che l’azione sia esperita
prima né che lo si faccia dopo tale giudizio (6).
Da ultimo, per mero tuziorismo, si
fa notare come questa conclusione sia in sintonia con
quanto normativamente stabilito in relazione
all’approvazione del bilancio di società per azioni (7).
3. La figura del curatore e la
natura della sua responsabilità
A titolo introduttivo di questo
paragrafo bisogna ricordare che una tra le più
interessanti novità della riforma del diritto
fallimentare8 risulta essere, senza dubbio, la
rivisitazione dei ruoli assegnati ai soggetti coinvolti
nella procedura concorsuale.
Nel nuovo diritto fallimentare si
apprezza un equilibrio tra gli organi coinvolti, frutto
principalmente: 1) del
ridimensionamento del ruolo del giudice delegato,
privato del potere direzionale e oggi titolare
principalmente della funzione di vigilanza sul rispetto
delle regole procedurali; e 2) del corrispondente
potenziamento della figura del curatore, titolare, oggi
in via autonoma, di compiti di direzione e
amministrazione all’interno dell’iter fallimentare.
A comprovare quanto sopra detto vi
è il novellato art. 31, l. fall., al cui primo comma si
legge: “[i]l curatore ha l’amministrazione del
patrimonio fallimentare e compie tutte le operazioni
della procedura sotto la vigilanza del giudice delegato
e del comitato dei creditori, nell’ambito delle funzioni
ad esso attribuite” (9).
Emerge quindi un giudice delegato
non più motore della procedura, bensì relegato a ruolo
di vigilante anziché direttore (10).
Concentrandoci sulla figura del
curatore fallimentare, l’art. 30, l. fall., afferma che:
“il curatore, per quanto attiene all’esercizio delle sue
funzioni, è pubblico ufficiale” (11).
In virtù di tale qualifica, il
professionista che assume l’incarico di curatore non
svolge un’attività c.d. ”libera", cioè nei confronti di
un cliente e regolata dalle norme che presiedono al
contratto d'opera professionale intellettuale, ma deve
altrettanto con sicurezza ritenersi che egli esplichi un
compito, rientrante nell'attività professionale della
sua categoria”. Egli, perciò, rimane “un privato, che
svolge, nell'ambito della sua attività professionale, un
incarico giudiziario, in relazione al quale incarico
svolge pubblici poteri”. (12)
Detto ciò, il suo rapporto con la
Pubblica Amministrazione non è riconducibile al
contratto di lavoro subordinato, né al contratto d’opera
professionale. Il curatore, scelto tra gli iscritti in
albi professionali (13), assume una doppia veste, dal
momento che resta un privato che svolge un incarico
giudiziario, in qualità di pubblico ufficiale.
Per quanto riguarda la
responsabilità dell’organo in questione, l’art. 38, al
suo comma 1, stabilisce che esso è responsabile quando
non “adempie ai doveri del proprio ufficio, imposti
dalla legge o derivanti dal piano di liquidazione
approvato, con la diligenza richiesta dalla natura
dell’incarico” (14).
Come risulta chiaramente dal testo
della norma, il nuovo disposto dell’art. 38 non fa più
riferimento alla diligenza del buon
padre di famiglia, ex art. 1176, co. 1, cod. civ., bensì
a quella, di maggior spessore, del professionista, ex
art. 1176, co. 2, cod. civ. (15)
Si tratta di una novità che
conferma il punto di vista da tempo affermatosi in
dottrina (16).
Altra novità è l’agganciamento
della diligenza professionale non solo alla legge, ma
anche al piano di liquidazione (17), restando esclusa la
possibilità di agire avverso il curatore in relazione al
merito delle proprie decisioni.
Prima di proseguire oltre, si
precisa che per poter agire contro il curatore è
ovviamente necessario che, a prescindere dalla natura
della sua responsabilità, sussistano i seguenti
elementi:
l’intenzionalità della condotta
(18), il verificarsi del danno, e il nesso causale fra
questi elementi.
Quanto al profilo di responsabilità
del curatore che a noi più interessa, ossia per i danni
arrecati al patrimonio fallimentare (massa dei
creditori), la dottrina maggioritaria propende per la
natura contrattuale. (19)
Tra le ragioni a sostegno della
suddetta tesi vi è, in primis, la natura di mandato
rivestita
dall’incarico affidato e accettato
dal curatore, ossia un contratto con cui il
professionista si obbliga ad agire nell’interesse della
giustizia e dei creditori del fallito (20). Si tratta, a
ben vedere, di un rapporto riconducibile all’art. 1170
cod. civ.
In secondo luogo, la previsione di
una “diligenza professionale” con cui il curatore deve
eseguire la propria prestazione, commisurata alla
“natura dell’incarico”, ha senso solo se si parla di
responsabilità contrattuale.
Altra ragione è che la
responsabilità da mandato è conseguenza
dell’inadempimento di doveri, a differenza di quella da
atto illecito che nasce dalla contravvenzione a divieti
(21).
L’ipotesi menzionata non esaurisce
però la casistica.
Difatti, avverso il curatore è
possibile agire anche per il pregiudizio economico da
questi arrecato, non al patrimonio fallimentare, bensì a
un singolo creditore o a un terzo estraneo alla
procedura (22), o ancora al fallito (23).
Il danneggiato, diretto
interessato, in tal caso dovrà agire ex art. 2043 cod.
civ. (responsabilità extracontrattuale) e direttamente
nei confronti del curatore e del patrimonio personale
dello stesso.
In queste ultime ipotesi, estranee
alla disciplina dell’art. 38 l. fall., non saranno
necessari: la cessazione dall’incarico del curatore
(revoca o dimissioni!), la presentazione del rendiconto
di gestione, l’autorizzazione del giudice delegato o del
comitato dei creditori (supra par. 2). (24)
4. Note conclusive
I giudici coinvolti nel caso in
commento, di merito e di legittimità, hanno avuto il
gran merito (mi scuso per il gioco di parole!) di porre
un argine a certe difese che se tollerate avrebbero
messo a serio rischio il sistema giustizia riferito alla
materia risarcitoria in ambito fallimentare.
Basti pensare al già menzionato
rischio di elusione della legge se le dimissioni non
fossero
ricomprese nell’ambito applicativo
dell’art. 38, co. 2, l. fall. Mi trovano d’accordo le
tesi abbracciate dagli ermellini, che hanno come
denominatore comune il rigetto di un’interpretazione
meramente letterale e quindi restrittiva della suddetta
previsione normativa.
Ciò, tra l’altro, per una questione
di giustizia.
A ben riflettere, non è concepibile
pensare che in capo al curatore fallimentare sussista,
in seguito alla riforma della materia fallimentare, un
fascio di poteri così qualitativamente consistente senza
però controbilanciarlo con un sistema di responsabilità
tale da garantire la completa tutela, in primo luogo, ai
soggetti (i creditori) nell’interesse dei quali il
curatore stesso, nell’ambito delle sue funzioni, ha il
dovere di agire.
Un’interpretazione puramente
letterale dell’articolo in esame, volta al contenimento
del suo campo applicativo, non fa altro che indebolire
il sistema di tutele della massa dei creditori
danneggiati dalla condotta negligente del curatore.
Per concludere, azzardo una
metafora che, se letta bene, può far capire il nocciolo
del discorso.
Escludere dall’ambito operativo
dell’art. 38 cit. l’ipotesi dell’ex curatore
dimissionario sarebbe, per la massa dei creditori, un
po’ come dirsi proprietario di un cane da compagnia
senza però possedere un guinzaglio. Nonostante le regole
di condotta ad esso “impartite” si rischierebbe di
perderlo di vista alla prima distrazione.
Note:
1) Il nuovo art. 37 statuisce che:
“1. Il tribunale può in ogni tempo,
su proposta del giudice delegato o su richiesta del
comitato dei creditori o d'ufficio, revocare il
curatore.
2. Il tribunale provvede con
decreto motivato, sentiti il curatore e il comitato dei
creditori.
3. Contro il decreto di revoca o di
rigetto dell'istanza di revoca, è ammesso reclamo alla
corte di appello ai sensi dell'articolo 26; il reclamo
non sospende l'efficacia del decreto”.
L’articolo in questione è stato
modificato dal D.lgs. 9 gennaio 2006, n. 5 (in vigore
dal 16 luglio 2006), che ha apportato anche l’aggiunta
del nuovo terzo comma. Il testo previgente prevedeva
che:
“1. [i]l tribunale può in ogni
tempo, su proposta del giudice delegato o su richiesta
del comitato dei creditori o d'ufficio, revocare il
curatore.
2. Il tribunale provvede con
decreto, sentiti il curatore ed il pubblico ministero.”
2) Vale la pena di ricordare la
sentenza di Cass. civ., Sez. I, 5 aprile 2001, n. 5044,
in Il Fallimento, 2002, 57, con nota di Capocchi, in cui
è stato dichiarato che tale azione, “in considerazione
della natura del rapporto, equiparabile al mandato”, si
prescrive nel termine decennale, che “non decorre prima
della sostituzione del curatore, a nulla rilevando che
l'illecito rimonti ad un tempo notevolmente anteriore,
per il fondamentale principio che la prescrizione
comincia a decorrere solo dal giorno in cui il diritto
può essere fatto valere (art. 2935 c.c.)”. Conformemente
già Cass. civ., Sez. III, 4 ottobre 1996, n. 8716 e
Cass. civ., Sez. I, 11 febbraio 2000, n. 1507.
3) D’Attore, sub art. 38, in Nigro
e Sadulli (a cura di),La riforma della legge
fallimentare, Torino, 2006, 246.
4) Ruggiero, in La legge
fallimentare, a cura di Ferro, Padova, 2007, 290.
5) G. Verna, La responsabilità del
curatore fallimentare, in Rivista dei dottori
commercialisti, 2010, 1, 169.
6) A proposito del giudizio sul
rendiconto di gestione, nella sentenza di Cass. civ.,
sez. I, 5 ottobre 2000, n. 13274 si legge che: “[i]l
giudizio che si instaura, ai sensi dell’art. 116 l.
fall., in caso di mancata approvazione del rendiconto di
gestione del curatore può avere legittimamente ad
oggetto non soltanto gli errori materiali, le omissioni
ed i criteri di conteggio adottati, ma anche
l’accertamento delle responsabilità del curatore
medesimo, ai sensi dell’art. 38, comma 2, stessa legge,
ma l’esercizio di tale azione non costituisce un effetto
normale ed automatico della mancata approvazione del
conto, né implica deroghe alle regole sul procedimento
stabilite per il giudizio di cognizione ordinario”.
Sempre in merito al giudizio in questione, Cass., sez.
I, 10 settembre 2007, n. 18940:“ Il giudizio di
approvazione del rendiconto presentato dal curatore ha
ad oggetto oltre alla verifica contabile anche
l'effettivo controllo di gestione e può estendersi
all'accertamento della personale responsabilità nel
compimento di atti pregiudizievoli per la massa o per i
singoli creditori; in quest'ultimo caso il diniego di
approvazione deve essere preceduto dal concreto
riscontro di tutti i requisiti di riconoscimento della
responsabilità, incluso il pregiudizio eventualmente
cagionato alla massa o ad uno dei creditori”. In senso
conforme alla prima parte di questa massima, Cass. 19
gennaio 2000, n. 547 e Cass. 14 ottobre 1997, n. 10028.
7) Ci si riferisce in particolare
all’art. 2434 cod. civ., che statuisce come segue:
”[l]’approvazione del bilancio non implica liberazione
degli amministratori, dei direttori generali, dei
dirigenti preposti alla redazione dei documenti
contabili societari e dei sindaci per le responsabilità
incorse nella gestione sociale”. Sulla stessa scia,
seppur in tema di conto corrente, si pone la Cass., sez.
I, 19 marzo 2007, n. 6514:“la mancata tempestiva
contestazione dell'estratto conto da parte del
correntista nel termine previsto dall'art. 1832 c.c.
rende inoppugnabili gli accrediti e gli addebiti solo
sotto il profilo meramente contabile, e non preclude
pertanto la contestazione della validità e
dell'efficacia dei rapporti obbligatori da cui essi
derivino”. Conformemente, Cass., 18 maggio 2006, n.
11749 e Cass., 5 maggio 2006, n. 10376.
8) Tale riforma è entrata
pienamente in vigore in data 1 gennaio 2008, in virtù
del D.lgs. 12 settembre 2007, n. 169, Disposizioni
integrative e correttive al r.d. 16 marzo 1942, nonché
al d.lgs. 9 gennaio 2006, n. 5, in materia di disciplina
del fallimento, del concordato preventivo e della
liquidazione coatta amministrativa.
9) Il vecchio primo comma dell’art.
31, l. fall., prevedeva quanto segue: “[i]l curatore ha
l’amministrazione del patrimonio fallimentare sotto la
direzione del giudice delegato”.
10) Cfr. Relazione illustrativa
dello schema di decreto legislativo, sub art. 25.
11) Il curatore mantiene questa
qualifica, sebbene in alcuni casi (i.e. esercizio
provvisorio o affitto d’azienda) prenda il posto del
fallito nell’amministrazione del patrimonio.
12) In questi termini Cass. civ.,
Sez. III, 15 luglio 2005, n. 15030.
13) Ex art. 28, legge fallimentare.
14) L’affidamento dei compiti di
direzione e amministrazione al curatore fallimentare ha
portato alcuni autori a rilevare talune analogie tra la
sua responsabilità e quella dell’amministratore di
società di capitali di cui all’art. 2392, co. 1, cod.
civ. Altri ancora hanno ritenuto più plausibile
l’accostamento con quella del liquidatore di società ex
art. 2489, co. 2, cod. civ., pur tuttavia rinviando,
quest’ultimo articolo, alla responsabilità degli
amministratori. Si veda sul punto G. Verna – S. Verna,
La liquidazione delle società di capitali, Padova, 2009,
116 ss. 15 Il testo precedente, nella sua prima parte,
statuiva quanto segue: “[i]l curatore deve adempiere con
diligenza ai doveri del proprio ufficio.”
16) Cfr. Santini, in Commentario, a
cura di Scialoja e Branca, Bologna-Roma, 1977, 25 ss.;
Satta, Istituzioni di diritto fallimentare, Padova,
1996, 122.
17) Dalla lettura dell’art. 104-ter
il piano di liquidazione risulta essere “una fattispecie
a formazione progressiva”, nonché “momento di raccordo
operativo” tra curatore e comitato dei creditori, che in
tale sede detiene poteri nettamente più incisivi
rispetto a quelli del giudice delegato, che svolge il
solo controllo di legalità sull’atto. Così si è espresso
De Crescienzo, La responsabilità del curatore
fallimentare: la nuova disciplina, in Il Fallimento,
2009, 4, 380.
18) La responsabilità contrattuale
del curatore sarà ricondotta all’art. 2236 cod. civ., ai
sensi del quale nel caso in cui la prestazione comporti
problemi di particolare complessità, il professionista
ne risponderà solo per dolo o colpa grave.
19) Tra tutti, Lo Cascio, Il
fallimento e le altre procedure concorsuali, Assago,
2007, 263; Ruggiero, in La Legge fallimentare, a cura di
Ferro, Padova, 2007, 290; Serao – Ruvolo, in Fallimento
e altre procedure concorsuali, diretto da Fauceglia e
Panzani, Padova, 2009, 333.
20) Adempimento tipico di tale
mandato è, per esempio, la periodica elaborazione da
parte del curatore di un rapporto sulla gestione, che
viene poi inviato ai creditori e all’autorità
giudiziaria (art. 33, ultimo comma, l. fall.).
21) G. Verna, La responsabilità del
curatore fallimentare, op. cit., 116 ss.
22) Per esempio, per le
irregolarità del curatore nei confronti di quel
creditore non inserito, dallo stesso curatore, nel suo
progetto di riparto. Oppure quando il curatore non ha
provveduto (o lo ha fatto tardivamente) ad agire in via
cautelativa in relazione ad alcuni beni del fallito, e
da ciò ne è scaturito un danno per un soggetto terzo.
A proposito di quest’ultima
fattispecie, ne approfitto per ricordare che il
curatore, una volta in possesso dei beni del fallito, ne
diviene custode a tutti gli effetti e con tutti gli
obblighi che ne derivano.
23) Per esempio, se il curatore con
la sua condotta ha danneggiato beni del fallito rimasti
estranei alla procedura fallimentare.
24) Cass. 23 luglio 2007, n. 16214,
in Mass., 2007, 1321. |