di Alessio Scarcella
Il danno risarcibile
all'associazione ambientalista non e' solo quello
patrimoniale, ma anche il danno morale derivante dal
pregiudizio arrecato all'attivita' da quest'ultima
concretamente svolta per la valorizzazione e la tutela
del territorio sul quale incidono i beni oggetto del
fatto lesivo, come normativamente desumibile dal
combinato disposto degli artt. 185, comma 2, c.p. e 2059
c.c.
La sentenza qui commentata si
sofferma su un tema assai dibattuto nella giurisprudenza
di legittimità, concernente non tanto la questione,
ormai pacifica, della legittimazione delle associazioni
ambientaliste a costituirsi parte civile nei processi
penali per reati ambientali, quanto, piuttosto, sulla
determinazione del «tipo» di danno risarcibile. Come,
infatti, si vedrà oltre, si registra sul punto un
contrasto giurisprudenziale che, assai probabilmente,
potrebbe condurre nei prossimi mesi i giudici di Piazza
Cavour a rimettere la decisione alle Sezioni Unite. La
tesi sostenuta dalla decisione in commento, infatti, si
inserisce in quel filone giurisprudenziale secondo cui
il danno risarcibile secondo la disciplina civilistica
può anche configurarsi sub specie del pregiudizio
arrecato all'attività concretamente svolta
dall'associazione ambientalista per la valorizzazione e
la tutela del territorio sul quale incidono i beni
oggetto del fatto lesivo. In tali ipotesi, infatti,
potrebbe identiï¬carsi un nocumento suscettibile anche
di valutazione economica in considerazione degli
eventuali esborsi finanziari sostenuti dall'ente per
l'espletamento dell'attività di tutela. La possibilità
di risarcimento in favore dell'associazione
ambientalista, in ogni caso, secondo l'orientamento di
cui è espressione la decisione in esame, non deve
ritenersi limitata all'ambito patrimoniale di cui
all'art. 2043 c.c., poiché l'art. 185, comma 2, c.p. -
che costituisce l'ipotesi più importante “determinata
dalla legge” per la risarcibilità del danno non
patrimoniale ex art. 2059 c.c. - dispone che ogni reato,
che abbia cagionato un danno patrimoniale o non
patrimoniale, obbliga il colpevole al risarcimento nei
confronti non solo del soggetto passivo del reato
stesso, ma di chiunque possa ritenersi “danneggiato” per
avere riportato un pregiudizio eziologicamente
riferibile all'azione od omissione del soggetto attivo.
Il caso
La vicenda processuale sottoposta
all'attenzione del Supremo Collegio vedeva imputati
alcuni soggetti (privati ed amministratori comunali) per
i reati di falso ed abuso d'ufficio, commessi alla fine
degli anni novanta in un comune pugliese e relativi alla
realizzazione di attività edilizie eseguite, da un alto,
senza le necessarie autorizzazioni edilizie ed
ambientali e, dall'altro, attestando falsamente alla
Soprintendenza dei BB.CC.AA. l'entità delle opere
realizzate e la loro non-incidenza su un'area di
interesse archeologico. I giudizi di merito, conclusisi
con la condanna in sede penale degli imputati, si erano
altresì definiti con la condanna generica al
risarcimento dei danni in favore di una nota
associazione ambientalista, considerando quale fatto
illecito produttivo di danno civile risarcibile il reato
di abuso d'ufficio. La Corte d'appello, per quanto qui
di interesse, aveva osservato, nel confermare le
statuizioni civili, che l'associazione ambientalista
deve sempre considerarsi come "danneggiata" dai falsi e
dall'abuso d'ufficio, i quali hanno consentito che non
fermasse in tempo la devastazione ambientale.
Il ricorso
Il giudizio di condanna veniva
ritenuto eccessivamente severo dalla difesa degli
imputati i quali affidavano le censure alla condanna in
sede penale e civile a plurimi motivi di ricorso.
Limitando l'attenzione ai soli motivi inerenti il danno
risarcibile, in particolare veniva contestata sia
legittimazione dell'associazione ambientalista che il
diritto al risarcimento del danno sostenendosi, quanto
al danno, che lo stesso avrebbe potuto essere risarcito
solo se discendente in maniera immediata e diretta dai
reati ambientali «stricto sensu» intesi, ma giammai
poteva essere ricollegato ai reati di abuso d'ufficio e
falso, da cui non potrebbe mai derivare, in via diretta,
un danno per l'ambiente.
La decisione della Cassazione
La Corte ha invece, con ampia e
lucida motivazione, ritenuto destituiti di fondamento
gli argomenti sostenuti dalla difesa degli imputati,
giungendo a dichiarare inammissibile il ricorso.
La motivazione della decisione,
assai completa e dettagliata, può essere così
sintetizzata anche ai fini di una miglior comprensione
del percorso logico – giuridico ad essa sotteso. I
giudici di legittimità, infatti, nel ricostruire con
attenzione l'iter legislativo tendente al riconoscimento
della legittimazione risarcitoria delle associazioni
ambientaliste, evidenziano come il fondamento della
legitimatio ad causam delle associazioni ambientaliste
fosse stato per la prima volta riconosciuto dalla nota
legge istitutiva del Ministero dell'Ambiente (L. 8
luglio 1986, n. 349) che, all'art. 18, introdusse
un'azione di risarcimento del danno ambientale
conseguente ad una responsabilità di tipo
extracontrattuale od aquiliana, prevista dall'art. 2043
c.c.
L'attuale T.U.A. (D. Lgs. 3 aprile
2006, n. 152) ha poi disciplinato in maniera più
dettagliata la questione in quanto, pur abrogando il
richiamato art. 18, ha fornito la definizione di «danno
ambientale» (art. 300 T.U.A.) ed ha riservato allo Stato
l'azione risarcitoria in caso di danno all'ambiente
(art. 311 T.U.A.), ma ha mantenuto intatto il diritto
dei soggetti danneggiati dal fatto produttivo di danno
ambientale, nella loro salute o nei beni di loro
proprietà, di agire in giudizio nei confronti del
responsabile a tutela dei diritti e degli interessi lesi
(art. 313, comma 7, T.U.A.).
Quanto, in particolare, alle
associazioni ambientaliste, pur ritenendosi ormai
pacifica la legittimazione a costituirsi parte civile
nei processi penali per reati ambientali (pur in
presenza dell'art. 311 T.U.A. che ha attribuito in via
esclusiva la richiesta risarcitoria per danno ambientale
al Ministero dell'Ambiente), si precisa che la loro
legittimazione è consentita al solo fine di ottenere il
risarcimento dei danni patiti dal sodalizio a causa del
degrado ambientale, mentre le stesse non possono agire
in giudizio per il risarcimento del danno ambientale di
natura pubblica (v., da ultimo: Cass., Sez. 3, 11
febbraio 2010, n. 14828, Imp. D.F. e altro, Ced Cass.,
n. 246812; nella specie detta legittimazione è stata
riconosciuta al Circolo Legambiente ed al WWF Italia).
Posto tale limite, tuttavia, non
v'è uniformità di vedute sulla natura del danno
risarcibile alle associazioni di protezione ambientale.
Sulla questione, infatti, si registrano divergenti
posizioni.
A fronte di decisioni, espressione
di un orientamento più rigoroso (da cui si discosta
consapevolmente la sentenza in commento), secondo cui le
associazioni ambientaliste possono agire ai sensi
dell'art. 2043 c.c. per ottenere il risarcimento di
qualsiasi danno "patrimoniale", ulteriore e concreto da
essi subito, diverso da quello ambientale (v., ad es.:
Cass., Sez. 3, 21 ottobre 2010, n. 41015, imp. G., Ced
Cass., n. 248707), si affiancano decisioni, come quella
qui commentata, che ritengono invece che il danno
risarcibile ad un'associazione ambientalista possa
consistere anche nel pregiudizio arrecato all'attività
concretamente svolta da quest'ultima per la
valorizzazione e la tutela del territorio sul quale
incidono i beni oggetto del fatto lesivo. In tali
ipotesi, infatti, evidenziando gli Ermellini, potrebbe
identiï¬carsi un nocumento suscettibile anche di
valutazione economica in considerazione degli eventuali
esborsi finanziari sostenuti dall'ente per
l'espletamento dell'attività di tutela. In tale
contesto, quindi, sarebbe riduttivo limitare la
possibilità di risarcimento in favore dell'associazione
ambientalista all'ambito patrimoniale di cui all'art.
2043 c.c., poiché l'art. 185, comma 2, c.p. - che
costituisce l'ipotesi più importante “determinata dalla
legge” per la risarcibilità del danno non patrimoniale
ex art. 2059 c.c. - dispone che ogni reato, che abbia
cagionato un danno patrimoniale o non patrimoniale,
obbliga il colpevole al risarcimento nei confronti non
solo del soggetto passivo del reato stesso, ma di
chiunque possa ritenersi “danneggiato” per avere
riportato un pregiudizio eziologicamente riferibile
all'azione od omissione del soggetto attivo.
La soluzione offerta dalla Corte
nel caso in esame, pur in presenza di divergenti vedute
dello stesso giudice di legittimità, sembrerebbe quella
più corretta. Ed infatti, è sicuramente ipotizzabile la
lesione del diritto della personalità dell'ente e la
conseguente facoltà dell'associazione di protezione
ambientale di agire per il risarcimento dei danni morali
e materiali relativi all'offesa, diretta ed immediata,
dello "scopo sociale", che costituisce la finalità
propria del sodalizio. Non a caso la stessa Corte, in
una vicenda che vedeva coinvolta la stessa associazione
ambientalista di cui si discute nella sentenza in
commento, aveva ritenuto detta associazione, quale ente
esponenziale della comunità in cui si trovava il bene
collettivo oggetto di lesione ed avente a scopo la
salvaguardia degli interessi lesi dal reato, era
legittimata a costituirsi parte civile, ai sensi degli
artt. c.p. e 74 c.p.p., sia per la tutela del diritto
collettivo all'ambiente salubre sia per la protezione
del diritto della personalità in conseguenza del
discredito derivante alla propria sfera funzionale dalla
condotta illecita (Cass., Sez. 3, 9 luglio 1996, n.
8699, imp. P. e altri, Ced Cass., n. 209096).
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