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Dalla manovra bis alla riforma della legge professionale forense-Altalex.it

 

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 (Antonino Ciavola)

La legge professionale forense si avvia a compiere il suo 78° compleanno; è stata approvata con R.d.l. 27 novembre 1933 n. 1578, convertito in L. 22 gennaio 1934 n. 36.

 

Fin dal secondo dopoguerra si discute della sua possibile modifica, che da alcuni anni sembra essere diventata indispensabile.

 

La riforma è oggi all’esame del Parlamento ed è stata preceduta da una norma che, sebbene inserita in un decreto legge di manovra finanziaria, ne ha tracciato le linee guida.

 

Sommario:

 

    Legge quadro o legge speciale

    Le linee guida della riforma

    Accesso alla professione

    Formazione permanente

    Determinazione del compenso

    Assicurazione obbligatoria

    Organi di disciplina

    Pubblicità e informazione

    Conclusione - i punti mancanti.

 

Legge quadro o legge speciale

 

Da tanti anni si discute se la riforma dell’ordinamento forense debba avvenire con una legge “dedicata” ovvero debba essere preceduta da una generale legge quadro riguardante tutte le professioni, riservando poi ad altra fonte normativa la regolamentazione di dettaglio.

 

La questione è stata risolta nel secondo senso, poichè oggi esiste la legge quadro ed è l’art. 3 del Decreto Legge 13 agosto 2011 n. 138, convertito in Legge 14 settembre 2011, n. 148.

 

Il titolo II del Decreto è intitolato “Liberalizzazioni, privatizzazioni ed altre misure per favorire lo sviluppo”, mentre l’art. 3 è rubricato con Abrogazione delle indebite restrizioni all'accesso e all'esercizio delle professioni e delle attività economiche.

 

Conviene quindi esaminare partitamente il contenuto dell’art. 3 poichè, se la legislazione ha una sua logica, la nuova legge professionale dovrà rispondere alle linee guida che questa legge quadro ha tracciato.

 

Non mi sembra il caso di contestare il metodo seguito, quello della decretazione d’urgenza: può darsi che anche la disciplina definitiva sia introdotta nell’ordinamento con questo strumento, e ciò sarebbe in linea con la normativa vigente che, 78 anni fa, fu approvata proprio con un regio decreto legge!

 

Non ritengo nemmeno che si possa invocare la specialità della legge successiva in caso di conflitto con quella anteriore poichè, come detto, l’art. 3 è definito come norma principale e una normativa di dettaglio radicalmente difforme costituirebbe soltanto un cattivo esempio di schizofrenia legislativa.

 

Le linee guida della riforma

 

I primi 4 commi dell’art. 3 si riferiscono all’attività economica delle imprese e non riguardano le professioni, alle quali è dedicato il comma 5.

 

Ciò è chiarito dal successivo comma 6 che così testualmente recita: Fermo quanto previsto dal comma 5 per le professioni, l'accesso alle attività economiche e il loro esercizio si basano sul principio di libertà di impresa.

 

E’ inoltre dimostrato dai commi successivi (da 7 a 11) che sono espressamente dedicati ad attività economiche diverse da quelle professionali.

 

E’ da notare, a nuova conferma di quanto sopra detto, che il comma 9, che stabilisce la definizione del termine restrizione, alla lettera d) faceva riferimento alle sedi deputate all’esercizio della professione o di una attività economica, ma in sede di conversione sono state espunte le parole della professione o che evidentemente erano frutto di un refuso.

 

Occorre a questo punto esaminare partitamente le previsioni del V comma.

 

5. Fermo restando l'esame di Stato di cui all'articolo 33 quinto comma della Costituzione per l'accesso alle professioni regolamentate, gli ordinamenti professionali devono garantire che l'esercizio dell'attività risponda senza eccezioni ai principi di libera concorrenza, alla presenza diffusa dei professionisti su tutto il territorio nazionale, alla differenziazione e pluralità di offerta che garantisca l'effettiva possibilità di scelta degli utenti nell'ambito della più ampia informazione relativamente ai servizi offerti.

 

Questa prima parte conferma la necessità dell’esame di Stato nonchè il mantenimento degli ordinamenti professionali, che dovranno essere riformati senza che ciò possa intaccare la struttura ordinistica, come da qualche parte era stato ventilato.

 

I principi di libera concorrenza sono di chiara derivazione comunitaria mentre la presenza diffusa dei professionisti su tutto il territorio nazionale non costituisce una novità per gli avvocati, il cui titolo li abilita già ad esercitare senza limitazione di sede.

 

Il riferimento alla differenziazione e pluralità di offerta nell’ambito di un’ampia informazione, come vedremo tra breve, introduce un importante chiarimento.

 

La natura di legge quadro sopra indicata è resa evidente da questo passaggio:

 

Gli ordinamenti professionali dovranno essere riformati entro 12 mesi dalla data di entrata in vigore del presente decreto per recepire i seguenti principi:

 

Il legislatore ha evidentemente dettato i criteri fondamentali ma – passaggio importante – li ha dettati a se stesso; infatti non vi è alcuna delega legislativa al Governo nè è possibile che un ordinamento professionale sia riformato mediante norme di rango secondario.

 

Dovrà essere quindi una nuova legge ordinaria ad attuare nel dettaglio quei principi fondamentali che andiamo a esaminare.

 

Accesso alla professione

 

a) l'accesso alla professione è libero e il suo esercizio è fondato e ordinato sull'autonomia e sull'indipendenza di giudizio, intellettuale e tecnica, del professionista.

 

Negli ultimi anni si è spesso parlato, anche a sproposito, di una presunta assimilazione dell’attività professionale all’attività di impresa.

 

Ciò perchè, malgrado il nostro codice civile distingua espressamente l’imprenditore dal professionista intellettuale (al quale sono dedicati gli articoli 2229 - 2237 cod. civ.), considerando l’ipotesi della professione organizzata in forma di impresa come residuale (art. 2238), qualcuno sostiene che la normativa europea imporrebbe una piena equiparazione.

 

Non è questa la sede per affrontare compiutamente la questione: basterà ricordare che anche l’unione europea considera l’attività professionale distinta e specifica rispetto a quella di impresa, ma ne pretende l’equiparazione ai soli fini della libertà di concorrenza, essendo questa necessaria per l’esercizio proficuo di qualunque attività economica.

 

La netta differenza tra professione e impresa è presente anche nelle norme interne più recenti: basti pensare che l’IRAP non è dovuta da tutti i professionisti ma soltanto (così ha precisato la Corte Costituzionale) da chi abbia una struttura imprenditoriale nella quale l’attività intellettuale personale passa in secondo piano.

 

Il legislatore odierno segue la stessa scia indicando come principi cardine l’autonomia e l’indipendenza di giudizio, sia intellettuale che tecnica, del professionista.

 

Sono termini chiarissimi e vincolanti per l’attività che il Parlamento svolge in questi giorni: i riferimenti all’autonomia e all’indipendenza ricordano decenni di giurisprudenza della Cassazione e confermano che non potrà esserci un avvocato che contemporaneamente sia stipendiato da soggetti pubblici o privati, nè potrà esserci un avvocato che costituisca società di capitali con soggetti non professionisti, poichè ciò sarebbe in palese contrasto con gli alti principi sopra scolpiti.

 

La limitazione, in forza di una disposizione di legge, del numero di persone che sono titolate ad esercitare una certa professione in tutto il territorio dello Stato o in una certa area geografica, è consentita unicamente laddove essa risponda a ragioni di interesse pubblico, tra cui in particolare quelle connesse alla tutela della salute umana, e non introduca una discriminazione diretta o indiretta basata sulla nazionalità o, in caso di esercizio dell'attività in forma societaria, della sede legale della società professionale.

 

Come è noto, si ritiene attualmente che l’accesso alla professione di avvocato non possa essere sottoposto a limitazioni numeriche (numero chiuso) poichè ciò contrasterebbe con i principi dell’Unione Europea.

 

Anche queste affermazioni non sembrano sufficientemente meditate, poichè le norme europee indicano invece un percorso esattamente analogo rispetto a quello voluto dal nostro legislatore e sopra indicato.

 

Ciò che l’Europa desidera è che non si pongano ingiustificate limitazioni corporative (per essere chiari: meno siamo e più guadagniamo) oppure basate sulla nazionalità.

 

Sulla questione, sommariamente, faccio due considerazioni.

 

La prima, che gli esami di abilitazione alla professione di avvocato erano previsti, in origine, a numero chiuso, e tale numero era basato sul fabbisogno di professionisti legali riferito al numero degli abitanti e al carico giudiziario dei singoli distretti di corte d’appello.

 

La suddetta previsione è ancora vigente, ma è temporaneamente sospesa da 57 anni (!!) in forza del D.lgs. lgt. 7 settembre 1944, n. 215.

 

La seconda, che il legislatore di questa estate 2011, nel convertire il decreto legge in argomento, ha inserito a sorpresa una norma non prevista relativa alla riduzione e revisione degli uffici giudiziari sul territorio.

 

Uno dei criteri che il Governo dovrà seguire riguarda proprio l’estensione del territorio, il numero degli abitanti, i carichi di lavoro e l’indice delle sopravvenienze.

 

Analoghi criteri potrebbero essere seguiti per limitare il numero degli avvocati avendo cura però, a mio parere, di non penalizzare i giovani aspiranti, ma di riqualificare l’intera categoria professionale con riferimento al rispetto delle norme deontologiche e all’aggiornamento.

 

Introdurre limitazioni esclusivamente all’accesso dei giovani, conservando per il resto l’esistente, sarebbe un errore imperdonabile.

 

Come illustrerò tra breve, il costante aggiornamento, la tutela del cliente con l’assicurazione obbligatoria e un nuovo organo di disciplina sono finalizzati a un innalzamento della qualità che dovrebbe condurre a una riduzione del numero degli iscritti, ma senza ingiustificate barriere diverse da quelle culturali e senza quelle limitazioni basate sul censo, pure previste da un disegno di legge attualmente in discussione.

 

Il criterio è chiaro, non è inutile ripeterlo: l'accesso alla professione è libero e il suo esercizio è fondato e ordinato sull'autonomia e sull'indipendenza di giudizio, intellettuale e tecnica, del professionista.

 

Manca il riferimento alla deontologia. Ma non serve, perchè è già previsto altrove.

 

Per superare l’esame di Stato i candidati devono dimostrare la conoscenza dell’Ordinamento Forense e dei diritti e doveri dell’Avvocato (art. 17 bis R.d. 22 gennaio 1934, n. 371, Norme integrative e di attuazione del R.d.l. 27 novembre 1933, n. 1578, sull'ordinamento della professione di avvocato).

 

Questa è la qualità del professionista forense, questo è ciò che garantisce il destinatario della prestazione, cliente o consumatore che si voglia chiamare. E mi auguro che il Legislatore, nella normativa specifica che adotterà, confermi e potenzi questa indicazione.

 

Formazione permanente

 

b) previsione dell'obbligo per il professionista di seguire percorsi di formazione continua permanente predisposti sulla base di appositi regolamenti emanati dai consigli nazionali, fermo restando quanto previsto dalla normativa vigente in materia di educazione continua in medicina (ECM). La violazione dell'obbligo di formazione continua determina un illecito disciplinare e come tale è sanzionato sulla base di quanto stabilito dall'ordinamento professionale che dovrà integrare tale previsione.

 

Questa parte della norma legifica quanto già previsto nel codice deontologico forense e nel regolamento per la formazione continua approvato dal CNF.

 

Nessuna novità, quindi, per le professioni che si sono dotate di questo strumento di aggiornamento, se non il riferimento chiaro e determinato all’illecito disciplinare, con una tipizzazione finalizzata a non lasciare molto spazio discrezionale agli organi di disciplina.

 

c) la disciplina del tirocinio per l'accesso alla professione deve conformarsi a criteri che garantiscano l'effettivo svolgimento dell'attività formativa e il suo adeguamento costante all'esigenza di assicurare il miglior esercizio della professione. Al tirocinante dovrà essere corrisposto un equo compenso di natura indennitaria, commisurato al suo concreto apporto. Al fine di accelerare l'accesso al mondo del lavoro, la durata del tirocinio non potrà essere complessivamente superiore a tre anni e potrà essere svolto, in presenza di una apposita convenzione quadro stipulata fra i Consigli Nazionali e il Ministero dell'Istruzione, Università e Ricerca, in concomitanza al corso di studio per il conseguimento della laurea di primo livello o della laurea magistrale o specialistica. Le disposizioni della presente lettera non si applicano alle professioni sanitarie per le quali resta confermata la normativa vigente.

 

Anche in questo caso, per quanto riguarda la professione forense, le indicazioni del legislatore rispecchiano quanto già attuato.

 

In particolare, i criteri che garantiscono l’effettivo svolgimento dell’attività formativa sono già previsti e in molti fori applicati (libretti per il controllo della pratica, colloqui ed altro), mentre il grande nodo irrisolto è quello del compenso al praticante, già previsto in maniera assai generica dall’art. 26 del codice deontologico e qui indicato con le stesse parole e cioè commisurato al suo concreto apporto.

 

Il punto è: chi deve stabilire quanto vale il concreto apporto?

 

Ritengo che l’unica strada percorribile sia quella di un contratto di apprendistato con precisi parametri salariali e con il concorso di fondi pubblici: questo potrebbe giustificare una limitazione numerica ma soprattutto garantirebbe al praticante una concreta possibilità di inserimento al mondo del lavoro.

 

Determinazione del compenso

 

d) il compenso spettante al professionista è pattuito per iscritto all'atto del conferimento dell'incarico professionale prendendo come riferimento le tariffe professionali. E' ammessa la pattuizione dei compensi anche in deroga alle tariffe. Il professionista è tenuto, nel rispetto del principio di trasparenza, a rendere noto al cliente il livello della complessità dell'incarico, fornendo tutte le informazioni utili circa gli oneri ipotizzabili dal momento del conferimento alla conclusione dell'incarico. In caso di mancata determinazione consensuale del compenso, quando il committente è un ente pubblico, in caso di liquidazione giudiziale dei compensi, ovvero nei casi in cui la prestazione professionale è resa nell'interesse dei terzi si applicano le tariffe professionali stabilite con decreto dal Ministro della Giustizia.

 

Questa parte della norma non è di facile interpretazione.

 

Occorre ricordare che la normativa codicistica (art. 2233 cod. civ.) pone al primo posto tra i criteri di determinazione del compenso la convenzione tra le parti, e solo al secondo posto la tariffa professionale.

 

Il Decreto Bersani spingeva nella direzione della determinazione consensuale, forfettaria ed omnicomprensiva del prezzo della prestazione, ma nella pratica ciò non ha avuto seguito e le parti del rapporto professionale, di norma, continuano ad affidarsi alle tariffe.

 

La nuova disposizione potrebbe intendersi nel senso dell’obbligo di redigere un preventivo basato sulla tariffa e sul prevedibile svolgimento dell’incarico, pattuendo per iscritto un compenso forfettario.

 

Questa interpretazione darebbe un senso alle frasi successive che prevedono l’applicazione della tariffa solo quando il committente è un ente pubblico ovvero in caso di liquidazione giudiziale.

 

In sostanza, seguendo l’impostazione tracciata dal Decreto Bersani, nel rapporto con i privati la tariffa sarebbe soltanto un parametro per preventivare il costo della prestazione, la cui concreta determinazione dovrebbe essere pattuita tra le parti in una misura predeterminata prima dell’inizio della prestazione.

 

E’ interessante notare come la norma in argomento estenda l’obbligo di pattuire il compenso per iscritto a tutti i professionisti, mentre il Decreto Bersani, modificando il comma 3 dell’art. 2233 cod. civ., si riferiva soltanto ai professionisti forensi.

 

Assicurazione obbligatoria

 

e) a tutela del cliente, il professionista è tenuto a stipulare idonea assicurazione per i rischi derivanti dall’esercizio dell'attività professionale. Il professionista deve rendere noti al cliente, al momento dell’assunzione dell'incarico, gli estremi della polizza stipulata per la responsabilità professionale e il relativo massimale. Le condizioni generali delle polizze assicurative di cui al presente comma possono essere negoziate, in convenzione con i propri iscritti, dai Consigli Nazionali e dagli enti previdenziali dei professionisti.

 

Con questa norma si introduce l’obbligo a carico di tutti i professionisti di stipulare una polizza assicurativa, informando il cliente dell’importo del relativo massimale.

 

E’ una disposizione largamente annunciata che da un lato comporterà un aumento dei costi di gestione degli studi, ma dall’altro dovrebbe assicurare ai professionisti una maggiore serenità in tutte le ipotesi di prestazioni complesse o di rapporti conflittuali con i clienti.

 

Organi di disciplina

 

f) gli ordinamenti professionali dovranno prevedere l'istituzione di organi a livello territoriale, diversi da quelli aventi funzioni amministrative, ai quali sono specificamente affidate l'istruzione e la decisione delle questioni disciplinari e di un organo nazionale di disciplina. La carica di consigliere dell'Ordine territoriale o di consigliere nazionale è incompatibile con quella di membro dei consigli di disciplina nazionali e territoriali. Le disposizioni della presente lettera non si applicano alle professioni sanitarie per le quali resta confermata la normativa vigente.

 

La modifica del sistema disciplinare, considerato meritevole di giurisdizione domestica a tutela dell’indipendenza della professione, è stata oggetto di innumerevoli convegni e proposte di legge.

 

Da più parti si è ipotizzata la soppressione degli ordini professionali oppure la sottrazione agli stessi del potere disciplinare, che secondo una diffusa opinione è mal esercitato.

 

Questo rischio è scongiurato, perché gli Ordini restano e mantengono la giurisdizione sui propri iscritti; ciò non significa che il problema sia risolto.

 

Lasciamo spazio ai numeri e verifichiamo che il Consiglio Nazionale Forense, nella sua relazione per l’anno 2009, dichiara di aver trattato circa 400 ricorsi in materia disciplinare.

 

Se pensiamo che gli avvocati sono oltre 230.000 e che ogni anno i ricorsi disciplinari presentati dai cittadini o da altri colleghi ai Consigli dell’Ordine sono decine di migliaia, il dato è preoccupante.

 

Significa che, a fronte di decine di migliaia di lamentele, solo poche centinaia si concludono con l’irrogazione di una sanzione disciplinare.

 

Quella che arriva al CNF è infatti la punta dell’iceberg e cioè i pochi provvedimenti di condanna impugnati dagli incolpati, giacchè il privato non ha potere di impugnazione mentre il ricorso del P.M. nell’interesse della legge è di fatto rarissimo.

 

Nelle altre professioni i numeri sono addirittura molto più bassi.

 

La ragione del cattivo funzionamento del sistema disciplinare interno è da ricercarsi, a mio parere, nel sistema elettorale dei Consigli dell’Ordine che, consentendo l’elezione senza alcun limite di mandato, finisce per favorire la creazione di sistemi clientelari che influiscono anche sulla gestione dei procedimenti disciplinari.

 

Ciò non riguarda soltanto la fase decisoria, ma molto più spesso quella istruttoria che vede archiviazioni, non impugnabili da alcuno, in situazioni che meriterebbero maggiore approfondimento.

 

L’avvocatura non è mai riuscita a proporre una soluzione condivisa, e come emblema di quanto sopra illustrato ricordo la conferenza nazionale del 2000 organizzata dall’OUA a Riva del Garda.

 

In quella occasione si discuteva della istituzione di un organo distrettuale di disciplina i cui componenti fossero diversi dai consiglieri degli ordini.

 

Non si trovò una soluzione condivisa poichè la platea si divise in due fazioni: gli ordini minori che non volevano perdere l’esercizio della funzione disciplinare e, dall’altra parte, gli ordini maggiori che, avendo la sede coincidente con quella distrettuale, avrebbero potuto gestire il potere disciplinare sull’intero territorio del distretto.

 

Il precedente dimostra che non basta istituire un organo diverso e rendere i suoi membri incompatibili con i consiglieri che svolgono funzioni amministrative, ma occorre una riforma più profonda dei Consigli dell’ordine che, limitando nel tempo la possibilità di restare in carica, ritorni al principio del servizio piuttosto che a quello di gestione del potere.

 

La norma in commento fa riferimento a organi a livello territoriale e quindi il legislatore potrà istituire il consiglio di disciplina scegliendo se mantenere l’azione disciplinare all’interno di ogni singolo circondario ovvero a livello distrettuale; tuttavia questa riforma, certamente opportuna, deve essere completata con la revisione del sistema elettorale che preveda un limite di mandato.

 

Pubblicità e informazione

 

g) la pubblicità informativa, con ogni mezzo, avente ad oggetto l'attività professionale, le specializzazioni ed i titoli professionali posseduti, la struttura dello studio ed i compensi delle prestazioni, è libera. Le informazioni devono essere trasparenti, veritiere, corrette e non devono essere equivoche, ingannevoli, denigratorie.

 

Molta acqua è passata sotto i ponti da quando John R. Bates vinse la causa contro il proprio ordine forense, ottenendo una sentenza che dichiarava legittimo il suo annuncio pubblicitario.

 

Da allora (era il 1977) anche l’Europa si è interrogata sulla possibilità di consentire la pubblicità delle prestazioni professionali, e inizialmente si è creata una frattura tra gli Stati del nord che per primi l’hanno consentita (Inghilterra, Norvegia, Olanda e altri) e quelli del sud che continuavano a vietarla (Italia, Grecia e Spagna).

 

Pressato dall’Autorità garante della concorrenza, il CNF ha aperto le porte all’informazione sui servizi svolti, ma nel 2006 è arrivata la ventata liberalizzatrice del Decreto Bersani, che ha abrogato tutte le norme limitative della pubblicità professionale.

 

Il dibattito non è cessato perchè si è continuato a discutere sulla distinzione tra pubblicità commerciale e pubblicità informativa.

 

Pur nella fretta di una manovra estiva, il legislatore sembra aver trovato il giusto punto di equilibrio.

 

Non è tanto importante la definizione di pubblicità informativa, quanto l’indicazione dell’oggetto possibile.

 

Si potranno infatti pubblicizzare l’attività professionale, la specializzazione, la struttura dello studio e i compensi delle prestazioni: nient’altro.

 

Rileggiamo l’annuncio dell’avvocato John R. Bates:

 

Avete bisogno di un avvocato? Servizi legali a prezzi ragionevoli. Divorzio o separazione $175,00.

 

L’annuncio pubblicizza l’attività professionale (servizi legali), il titolo posseduto (avvocato), il prezzo della prestazione.

 

Una simile pubblicità sarebbe lecita anche da noi e lo sarebbe stata anche negli anni precedenti, poichè il Decreto Bersani la consentiva espressamente e senza limiti.

 

Ipotizziamo un altro esempio:

 

Sono il migliore avvocato del mondo. Con me la causa è certamente vinta. Prezzi modici.

 

A prescindere dal contenuto del messaggio, che è equivoco, ingannevole e non veritiero (non esiste una causa sicuramente vinta), vi sono elementi non suscettibili di valutazione discrezionale che, alla luce della nuova disposizione, lo rendono sicuramente vietato.

 

L’annuncio sopra ipotizzato non riguarda l’attività professionale, la struttura dello studio e i compensi delle prestazioni.

 

Il riferimento al compenso deve essere determinato con indicazione della cifra, come fece l’avvocato Bates, oppure determinabile (applico sempre i minimi di tariffa); non può certo essere generico nè evidenziare qualità del professionista prive di oggettività e non verificabili.

 

Il legislatore, in poche righe, ci ha chiarito la differenza tra la pubblicità commerciale (più bianco non si può) e quella informativa, che deve essere limitata ai dati specifici sopra indicati.

 

Conclusione – i punti mancanti

 

A dispetto delle numerose critiche, il testo mi sembra un ottimo punto di partenza, anche se giocoforza non tratta alcune questioni fondamentali, che dovranno essere affrontate dalla legge di dettaglio.

 

Legge che dovrà affrontare il tema della consulenza esclusiva, da riservare ai professionisti iscritti negli albi: essi garantiscono non solo la maggior qualità della prestazione, ma (grazie all’assicurazione obbligatoria) anche una garanzia in caso di errori professionali.

 

Della riforma del sistema elettorale dei Consigli dell’Ordine ho già detto: senza un controllo serio ed efficace dei comportamenti, la ventata liberalizzatrice rischia di condurre a una giungla governata solo dall’avidità di denaro.

 

E a proposito di denaro, mi aspetto una prova di forza del Legislatore che risolva la questione della generazione 1000 euro (questo è un film, nella realtà sono anche 300 euro): gli avvocati che, senza alcuna garanzia di stabilità ma con tutti gli oneri (dalla Cassa forense alla nuova assicurazione obbligatoria) lavorano come parasubordinati presso un altro avvocato.

 

Vogliamo pensare anche a loro?

 

Articolo di Antonino Ciavola)

 

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