(Luigi Marino)
Sommario: 1. Introduzione e natura
del procedimento - 2. Il rapporto tra la nullità e il
vizio emendabile attraverso la procedura di correzione.
- 3. Il caso - 4. Il contrasto tra intestazione e
contenuto della sentenza - 5. Quando il giudice omette
di menzionare una parte intervenuta nel giudizio –
nullità o errore materiale? - 6. Il rapporto tra
correzione e impugnazioni. - 7. Segue. L'intervento
della Corte Costituzionale - 8. L'interesse alla
correzione - 9. Spunti sul procedimento.
1. Introduzione e natura del
procedimento
Il procedimento di correzione di
errore materiale delle pronunce giudiziali costituisce
un metodo semplice[1], rapido ed efficace per mezzo del
quale vengono rettificate le “sviste” in cui è incorso
il giudicante nel processo redazionale; esso, codificato
all’interno del Codice di rito civile agli artt. 287 e
288, trova applicazione, secondo l’orientamento della
giurisprudenza, qualora l’errore emendando consista in
un mero “lapsus calami”, ossia in una momentanea
disattenzione del redattore che diviene, in maniera
lampante, intellegibile al lettore.
Le definizioni di errore materiale
date dalla giurisprudenza sono molteplici, ciascuna ha
privilegiato questo o quell’aspetto peculiare
dell’errore correggibile, ma tutte si sono dimostrate
egualmente pertinenti [2],[3].
Si possono avere, dunque, di una
vasta gamma di errori, quali, a titolo di esempio,
errori di calcolo oppure l’omessa indicazione di una
delle parti del giudizio o ancora l’erronea indicazione
dei dati anagrafici delle parti in causa o ancora
l’erronea trascrizione delle conclusioni formulate dalle
stesse in occasione dell’ultima udienza[4].
Tuttavia, come detto, perché si
possa procedere alla correzione con il metodo indicato
dal codice, occorre che la svista sia rilevabile ictu
oculi, cioè che l’errore incida negativamente sull’iter
logico giuridico che ha condotto ad esso[5].
In specie, per quanto concerne gli
errori di calcolo, è convincimento oramai condiviso che
essi debbano avere un carattere di assoluta materialità
(es. 2+2=5), in quanto non si potrebbe dare luogo al
procedimento di correzione nell’ipotesi in cui, per
rilevarlo, occorrerebbe ricorrere ad un procedimento
tecnico[6].
Una delle problematiche che sono
state costantemente sottese al procedimento di
correzione, consiste nella differenza intercorrente tra
gli errori emendabili ex art. 287 c.p.c. e quelli che,
al contrario, devono formare oggetto di apposito mezzo
di gravame, anche, di natura incidentale.
In proposito, serve un immediato
chiarimento: il procedimento di correzione è qualificato
come procedimento a carattere amministrativo[7], tant’è
che la natura giurisdizionale della procedura di
correzione è stata esclusa apertis verbis anche dalla
Suprema Corte, pronunciatasi in tal senso in un
risalente arresto nel quale è stata ribadita la natura
amministrativa di tale procedimento[8],[9].
2. Il rapporto tra la nullità e il
vizio emendabile attraverso la procedura di correzione
La prassi ha posto problematiche di
eminente rilievo con riguardo alla differenza tra gli
errori che possono venire eliminati mediante il
procedimento di correzione e quelli che, al contrario,
inficiano la sentenza al punto tale da determinarne la
nullità, pertanto occorrerà prendere le mosse da alcuni
chiarimenti di carattere generale.
La nullità - e in particolare la
nullità della sentenza - è il vizio da cui sono affetti
gli atti processuali carenti dei requisiti che la legge
ritiene invece indispensabili e obbligatori affinché
l’atto sia valido ed efficace; l’errore materiale
consiste, invece, in un’errata traduzione in segni
grafici degli elementi propri o individuatori di una
persona o di una cosa o, comunque, nella non
corrispondenza tra l’ideazione del giudice e la sua
materiale rappresentazione grafica[10].
Occorre, tuttavia, scindere le
ipotesi di nullità della sentenza (art. 161 c.p.c.) da
quelle di errore materiale, poiché la sentenza o
qualunque pronuncia giudiziale che difetta dei requisiti
previsti dalla legge e/o che non è in grado di produrre
gli effetti per cui è stata emessa, dovrà essere
considerata nulla, mentre la sentenza affetta da errori
materiali non difetterà né dei requisiti previsti dalla
legge, né sarà improduttiva di effetti, ma andrà
semplicemente espunto l’errore o sanata l’omissione che
consistono nella erronea trasposizione in segni grafici
della volontà del giudice
Ulteriore profilo argomentativo che
depone a favore della differenziazione le cui linee
essenziali sono state appena tracciate, risiede nella
considerazione per cui mentre la sentenza affetta da
nullità è, per come prevede il codice, incapace di
raggiungere lo scopo, la sentenza errata, invece, li
produrrà.
Ma ciò che distingue in maniera più
incisiva la nullità dall’errore suscettibile di
correzione sono i metodi con i quali tali vizi possono
essere emendati.
Mentre, infatti, la nullità può
essere fatta valere solo attraverso i normali mezzi
d’impugnazione, in base al noto principio per il quale i
vizi di nullità si convertono in motivi di impugnazione,
assorbendosi in essi[11], gli errori materiali possono
essere corretti tanto facendone espressa richiesta al
giudice d’appello, quanto con il procedimento di cui
all’art. 287 e ss. c.p.c.
In proposito, occorre porre in
evidenza la circostanza per cui, chi chiede la
correzione di errore materiale, non accorgendosi che,
invece, si tratta di nullità, rischia di incorrere nella
decadenza propria del termine di impugnazione.
In particolare, laddove il giudice
dichiarasse inammissibile la richiesta di correzione di
errore materiale, poiché il vizio denunciato rientra
nella casistica delle nullità, l’interessato potrebbe
non essere più in termini per eccepirla, stante il
ribadito principio per cui l’istanza di correzione può
essere presentata in qualunque momento, mentre la
nullità andrà eccepita nei termini previsti per
l’impugnazione della sentenza.
Talora, però, la dottrina e la
giurisprudenza non sono state concordi con l’indirizzo
appena richiamato, opinando che può essere sottoposta al
procedimento di correzione di errore quella sentenza che
è affetta da un vizio che ne produce la nullità[12].
Tale indirizzo, autorevolmente
sostenuto, ma, invero, assai risalente, pare oramai
sconfessato dal recente orientamento pretorio che scinde
con decisione i due istituti che, pertanto, paiono
potersi configurare solo in maniera alternativa[13].
Ulteriore profilo di invalidità
della sentenza è l’inesistenza.
In ordine, poi, alla differenza tra
la sentenza da correggere e la sentenza inesistente,
pare legittimo fare analoghe considerazioni a quelle
fatte per la nullità; infatti l’inesistenza determinerà
la totale invalidità e l’assenza di effetti della
decisione, dunque non sarà neppure necessario procedere
alla sua riforma in sede di appello.
E’ invece chiaro che la sentenza
viziata da errore materiale è valida e produce i suoi
effetti.
3. Un caso... tra tanti
Una sentenza in particolare[14]
costituisce, però, la più chiara espressione di questo
principio, laddove, a chiare lettere, disgiunge
l’ipotesi di correzione di errore materiale da quella in
cui si avrebbe nullità della pronuncia.
La sentenza in questione trae
origine dalla vicenda di un dipendente del Ministero
dell’Economia e delle Finanze, al quale venne intimato
il licenziamento per aver esercitato l’attività di
agente mandatario della SIAE senza la prescritta
autorizzazione.
Il lavoratore impugnato il
licenziamento, affermò di aver richiesto
l’autorizzazione all’Amministrazione la quale, tuttavia,
era rimasta inerte, favorendo così il consolidarsi degli
effetti del silenzio assenso che doveva essere
considerato quale accoglimento dell’istanza.
Si costituirono in giudizio il
Ministero e l’Agenzia delle Entrate chiedendo entrambi
il rigetto della domanda, ma la tesi del dipendente
trovò positivo riscontro presso il giudice del lavoro
che, in accoglimento del ricorso, ordinò la
reintegrazione del ricorrente e il versamento in suo
favore dei ratei stipendiali maturati medio tempore.
In secondo grado, la Corte
d’Appello accolse, però, il gravame proposto
dall’Amministrazione e ordinò al ricorrente la
restituzione di quanto percepito per effetto
dell’attività non autorizzata.
A tale fase segue il ricorso per
Cassazione del dipendente che, oltre a denunciare la
violazione da parte della Corte territoriale delle
principali norme in materia di pubblico impiego, chiede
che la Suprema Corte dichiari nulla la sentenza
d’appello poiché i giudici di secondo grado hanno omesso
di indicare, nell’epigrafe della sentenza, l’Agenzia
delle Entrate, quale ulteriore appellante oltre al
Ministero dell’Economia e delle Finanze.
La soluzione cui addiviene la
Cassazione è da ritenersi equilibrata.
La Suprema Corte, infatti, ritiene
che non possa configurarsi la nullità della sentenza per
violazione dell’art. 132 c.p.c. laddove, pur non
espressamente indicato nell’epigrafe della sentenza, la
partecipazione di una parte al giudizio si possa
evincere dal contenuto della medesima decisione e,
pertanto, ritiene appropriata l’applicazione della
procedura di correzione.
4. Il contrasto tra intestazione e
contenuto della sentenza
Il principio espresso dalla Sezione
lavoro si può rinvenire anche in numerose altre pronunce
della Suprema Corte[15] come, ad esempio, nel caso in
cui l’estensore abbia tralasciato di indicare tanto le
parti quanto i difensori nell’intestazione della
sentenza. Ciò, a ben vedere, non provocherà giammai la
nullità della sentenza, ma un difetto facilmente
emendabile attraverso il ben noto procedimento di
correzione.
Si avrà, invece, la nullità della
sentenza ove, a causa degli errori, si verifichi la
mancata partecipazione (intesa in senso ampio) della
parte al giudizio, tanto da determinare la violazione
del principio del contraddittorio e del diritto di
difesa[16].
Eguale ragionamento si può fare in
altro assai frequente caso, ossia quando non viene
indicato nella sentenza il contumace.
Pertanto, ove ciò non infici la
regolarità del contraddittorio e, dunque, ove la parte
sia stata regolarmente citata in giudizio, la sentenza
in cui il contumace è stato escluso per errore, si
correggerà con il metodo di cui all’art. 287 c.p.c.[17].
5. Quando il giudice omette di
menzionare una parte intervenuta nel giudizio – nullità
o errore materiale?
La sentenza del 2010 richiamata
supra offre lo spunto per affrontare una problematica
davvero peculiare che origina dalla circostanza in base
alla quale il giudice abbia tralasciato di indicare,
tanto nella epigrafe della decisione, quanto nel corpo
della stessa, l’indicazione di una parte e,
segnatamente, di un interveniente ad adiuvandum,
“entrato” nel giudizio per coadiuvare il convenuto
principale nell’ipotesi in cui quest’ultimo fosse stato
condannato.
Si pensi ad un giudizio
appartenente al rito del lavoro, nel quale un dipendente
convenga il Ministero dell’Economia e delle Finanze
nella veste di Amministrazione datrice di lavoro, per la
corresponsione di alcune maggiorazioni stipendiali
asseritamente spettanti ai vice dirigenti di un’area
dell’Amministrazione finanziaria. L’art. 61, comma 1
bis, d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165 prevede che le
pubbliche amministrazioni comunichino alla Presidenza
del Consiglio dei Ministri - Dipartimento della funzione
pubblica e al Ministero dell’Economia e delle Finanze
l’esistenza di controversie, relative ai rapporti di
lavoro, dalla cui soccombenza potrebbero derivare oneri
aggiuntivi significativamente rilevanti per il numero
dei soggetti direttamente o indirettamente interessati o
comunque per gli effetti sulla finanza pubblica.
In questi casi, la Presidenza del
Consiglio dei ministri - Dipartimento della funzione
pubblica – d’intesa con il Ministero dell'Economia e
delle Finanze, può intervenire nel processo ai sensi
dell'articolo 105 del Codice di procedura civile,
sopportando parte degli oneri derivanti dalla eventuale
soccombenza.
Si faccia, dunque, caso all’ipotesi
in cui, alla luce della predetta norma, la Presidenza
del Consiglio si costituisca in giudizio, come
interveniente volontario, chiedendo di essere condannata
in solido con il convenuto principale in caso di
soccombenza, ma il giudice del lavoro emettendo la
sentenza con la quale rigetta il ricorso ritenendolo
infondato, ometta di indicare la costituzione della
Presidenza del Consiglio, nella qualità di
interveniente.
Quid iuris? Si tratta, dunque, di
nullità perché il giudice ha completamente omesso di
indicare una parte del processo o si tratta di un
semplice errore materiale?
E’ da ritenersi preferibile la
nullità.
Ben vero che si ha nullità, secondo
l’indirizzo della Cassazione già supra richiamato, nel
caso in cui dalla sentenza si deduca che non si è
regolarmente integrato il contraddittorio e che, nel
caso di specie, il contraddittorio era da ritenersi
regolarmente integrato, in quanto avevano preso parte al
giudizio tanto il dipendente, il quale chiedeva le
maggiorazioni stipendiali quanto l’Amministrazione
datrice, risultando l’intervento adesivo della
Presidenza del Consiglio intervento volontario di una
parte che sceglie, sua sponte, di prendere parte ad un
giudizio già regolarmente instaurato, ma è altrettanto
vero che, nella fattispecie di sentenza nulla, la
Suprema Corte, fa rientrare anche l’ipotesi della
sussistenza di una situazione di incertezza, non
eliminabile a mezzo della lettura dell’intera sentenza
in ordine ai soggetti cui essa si riferisce.
L’ipotesi prospettata sembra
rientrare perfecte nelle statuizioni della Corte
regolatrice, non potendosi evincere con chiarezza dalla
decisione del tribunale del lavoro, i soggetti cui la
decisione si riferisce.
Premesse queste considerazioni, il
rimedio che l’interveniente dovrà utilizzare per
chiedere la correzione della sentenza errata non può
essere l’istanza di correzione poiché, come detto, non
si tratta di un errore materiale, bensì di nullità, la
quale può essere fatta valere solo con gli ordinari
mezzi di gravame.
Il punctum dolens sta, però, nella
circostanza che l’interveniente (Presidenza del
Consiglio) non ha alcun interesse a far valere detta
nullità, avendo il giudice respinto il ricorso del
dipendente e risultandone, dunque, l’Amministrazione
resistente, parte vittoriosa del giudizio.
La Presidenza del Consiglio, nella
qualità di intervenuto ad adiuvandum del Ministero è
anch’essa parte vittoriosa e, dunque, non potrà essere
titolare di un interesse all’impugnazione di detta
decisione, neppure in via incidentale, poiché chi
propone appello avverso una precedente statuizione
giurisdizionale, deve essere, anche solo parzialmente,
soccombente in quel grado di giudizio.
Apparirà forse paradossale, ma, nel
caso illustrato, la sentenza, qualora non venisse
impugnata da chi non ha interesse e, dunque riformata
anche con riguardo alla mancata indicazione
dell’interveniente, rimarrebbe pronunciata nei confronti
di tutte le parti tranne una (l’intervenuto).
6. Il rapporto tra correzione ed
impugnazione. L’appello incidentale.
Come già riferito, la parte che
intende far valere in giudizio la nullità di un atto
processale e, in particolare, la nullità di una
sentenza, potrà provvedervi attraverso gli ordinari
mezzi di impugnazione, stante l’assorbimento della
nullità negli ordinari mezzi di gravame; al contrario,
laddove si intenda ottenere la correzione dell’errore
materiale, occorrerà instaurare la specifica procedura
prevista dal codice oppure occorrerà formulare apposita
istanza direttamente nell’atto d’impugnazione con il
quale si faranno valere anche altri profili di gravame
attinenti al merito.
Tutto ciò pone in rilievo la
problematica del rapporto tra correzione di errore
materiale e impugnazioni, anche di natura incidentale.
Sul punto, si possono riscontrare
due diversi orientamenti in seno alla medesima Corte di
Cassazione.
Da una parte, attestandosi su
posizioni più permissive, vi è la giurisprudenza che
afferma che “nell'ipotesi in cui la sentenza contro la
quale è stato proposto gravame contenga un errore
materiale, l'istanza di correzione dello stesso, non
essendo rivolta ad una vera e propria riforma della
decisione, non deve necessariamente formare oggetto di
uno specifico motivo di impugnazione, neppure in via
incidentale, ma può essere proposta in qualsiasi forma e
può anche essere implicita nel complesso delle deduzioni
difensive svolte in appello”[18] e dall’altra le
pronunce che escludono tale ipotesi in maniera
categorica: “nei casi in cui, come nella fattispecie, la
sentenza contro la quale è stato proposto appello
contenga un errore materiale, l'istanza per la relativa
correzione, non essendo diretta ad ottenere una vera e
propria riforma della decisione, non deve formare, e non
costituisce, oggetto di un mezzo di gravame, neppure
incidentale, in senso proprio, e, perciò, resta
utilmente proposta in qualunque forma, eventualmente
implicita, nel complesso delle deduzioni difensive
svolte in secondo grado”[19].
Le pronunce testé esaminate
richiamano la tematica dell’appello incidentale,
sostanzialmente escludendo, chi categoricamente, chi,
invece, con una qualche apertura, la possibilità di
richiedere la correzione di errore materiale con lo
strumento dell’appello incidentale.
Quest’ultimo, in ipotesi (ma, pare,
che ciò venga escluso dalla giurisprudenza), potrebbe
essere utilizzato dalla parte vittoriosa in primo grado
che abbia riscontrato un errore nella sentenza avverso
la quale la parte soccombente ha già proposto gravame.
Infatti, allorché viene instaurato
il giudizio d’appello, dovendo l’appellato effettuare la
costituzione in tale giudizio, questi potrebbe evitare
di instaurare, nel contempo, il giudizio di correzione
dinanzi al giudice di prime cure, anche solo per ragioni
di economia processuale, potendo ottenere la correzione
anche con la pronuncia d’appello.
Nell’ipotesi scolastica formulata
nel precedente paragrafo[20], la parte che vince in
primo grado non può proporre appello incidentale se non
è, almeno parzialmente, soccombente, ancorché la
sentenza di prime cure meriterebbe di essere corretta;
il principio della soccombenza e della legittimazione ad
impugnare non potranno, dunque, essere sacrificati.
In tema di correzione dell’errore
materiale e impugnazioni non si può tralasciare quanto
previsto dall’ultimo comma dell’art. 288 c.p.c. : “le
sentenze possono essere impugnate relativamente alle
parti corrette nel termine ordinario decorrente dal
giorno in cui è stata notificata l'ordinanza di
correzione”.
Tale disposizione ha suscitato non
pochi e contrastanti dubbi interpretativi, ma
sembrerebbe da accogliere l’opinione di chi ha affermato
che l’impugnazione in parola avrebbe ad oggetto il testo
della sentenza “novellata”, se ed in quanto sussista il
requisito della soccombenza. Pertanto, l’impugnazione in
questione avrebbe ad oggetto il provvedimento emendato.
Tanto, tuttavia, tenendo in debita
considerazione che il potere spiegato ai fini della
correzione dell’errore non si riveli, in realtà,
illegittimo, tale, cioè, da determinare una modifica
dell’originaria volontà del giudice redattore del
provvedimento[21].
7. Segue. L’intervento della Corte
Costituzionale.
Nel panorama pretorio è da tenere
in considerazione anche la recente pronuncia con la
quale la Corte Costituzionale ha dichiarato
l’illegittimità costituzionale per violazione degli
artt. 3 e 24 Cost., dell'art. 287 c.p.c., limitatamente
alle parole “contro le quali non sia stato proposto
appello”[22].
La pronuncia della Consulta trae
origine dalla riflessione proposta dal giudice a quo in
base alla quale, di norma, la competenza ad effettuare
la correzione della sentenza appartiene al giudice che
l’ha emessa, eccetto il caso in cui, avverso la sentenza
da correggere, sia stato proposto appello.
Come era stato già affermato dalla
giurisprudenza[23], in ipotesi siffatte, l’appello
finisce per “assorbire” il procedimento di correzione,
essendo, quest’ultimo, rimedio con devoluzione
illimitata, destinato a concludersi con una pronuncia
sostitutiva di quella bisognosa di correzione.
Già in epoca precedente alla
pronuncia del 2004[24], la Consulta era stata investita
della questione di legittimità costituzionale dell’art.
287 c.p.c., ma, sulla base del rilievo per cui
“l’appello sfocia per sua natura in una sentenza che –
rescissa in ogni caso, la confermi o la modifichi,
quella di primo grado – si sostituisce a quella
impugnata comporta che il giudice d'appello può
esercitare il potere di correzione solo con la pronuncia
della sentenza conclusiva e non già con un procedimento
ad hoc”[25], la Corte Costituzionale aveva ritenuto non
rilevante la questione di legittimità della esclusione,
dal novero dei provvedimenti correggibili ex art. 287
cod. proc. civ., del decreto ingiuntivo opposto.
Ad avviso del Giudice rimettente
del 2004, precludere l’esecuzione di una sentenza
affetta da errore materiale per la sola ragione che
avverso la medesima sia stato proposto appello,
costituisce scelta lesiva del principio di uguaglianza
per il diverso trattamento riservato alle sentenze, a
seconda che esse siano o meno affette da errore
materiale, e cioè da un errore che incide solo
sull'espressione grafica del dictum del giudice, e ciò
tanto più che dottrina e giurisprudenza ritengono
esperibile il procedimento di correzione anche avverso
decisioni per le quali i termini di impugnazione non
siano ancora scaduti e che non siano pertanto ancora
passate in giudicato[26].
In questa occasione, invece, la
Consulta ripercorre brevemente il dettato dell’art. 337,
comma 1, c.p.c., il quale, nella versione anteriore alla
riforma del 1990, prevedeva l’automatica sospensione
dell’efficacia esecutiva delle sentenze avverso le quali
era stato interposto appello.
La riforma del 1990, capovolgendo
il dettato codicistico, introduce il principio per cui
la mera impugnazione di una sentenza non ne sospende
l’efficacia esecutiva.
Tale novella determina rilevanti
conseguenze anche in tema di correzione di errore poiché
le esigenze di economia processuale in nome delle quali
era stata predicata la scelta di esperimento di un solo
rimedio (id est, la superfluità dell'esperimento del
procedimento speciale in pendenza di un giudizio
(d'appello) idoneo ad emendare la sentenza dall'errore
che la inficiava), vengono meno atteso che, nell’attuale
sistema, il giudizio d’appello e il procedimento di
correzione seguono binari diversi, potendosi escludere
che la pendenza dell’uno determini l’improcedibilità
dell’altro.
8. Interesse alla correzione
Passando in rassegna il tema della
correzione dell’errore materiale delle decisioni
giudiziali, non può sottacersi quello dell’interesse
alla proposizione dell’istanza di emenda.
Invero, su tale questione, il
codice di rito erge un muro di impenetrabile silenzio.
Dalle parole utilizzate, infatti, pare non doversi
cogliere alcun riferimento alla necessità di un
interesse effettivo alla correzione della pronuncia, in
maniera particolare ove si consideri che l’istanza può
essere presentata dalla parte in qualunque momento,
anche a distanza di anni dalla pronuncia; si badi, però,
che tale prerogativa di illimitatezza della correzione
non è stato sempre presente nel codice, ma la si è avuta
a partire proprio dalla sentenza con cui la Corte
Costituzionale ha dichiarato illegittima la parte
dell’art. 287 c.p.c. che prevedeva la possibilità di
richiedere la correzione di errore fino al momento in
cui la sentenza affetta da errore materiale non fosse
stata appellata.
La giurisprudenza, dal canto suo,
non ha compiuto uno sforzo maggiore di quello del
legislatore per chiarire se l’ammissibilità dell’istanza
di correzione sia subordinata all’accertamento della
sussistenza di un interesse da parte del richiedente.
Tuttavia, un dato si può rinvenire
in qualche pronuncia della Suprema Corte di qualche anno
fa.
La Cassazione così afferma:
“l’indicazione della data della deliberazione della
sentenza, pur costituendo un requisito richiesto per la
regolarità della sentenza non è un elemento essenziale
di questa in quanto si riferisce a un atto meramente
interno. La sua omissione, pertanto, non produce alcuna
nullità deducibile con l'impugnazione ma si risolve in
un errore materiale emendabile con la procedura di
correzione che deve essere avviata innanzi al giudice
che ha pronunciato la sentenza dalla parte che ne ha
interesse e deve, di conseguenza, escludersi che la
sentenza stessa sia inefficace, sino a che non sia
avviata la procedura di correzione”[27].
Pare evidente, però, che chi pone
in essere un procedimento finalizzato alla correzione
non lo fa in nome di un ideale cavalleresco di
correttezza formale delle pronunce giudiziali, ma in
nome di un interesse che diviene concretamente
realizzabile, a volte, solo attraverso tale
procedimento.
9. Spunti sul procedimento
Ribadendo oramai strenuamente che
il procedimento di correzione dell’errore materiale si
svolge dinanzi al giudice che ha emesso la pronuncia
emendanda e che il procedimento disciplinato dall’art.
287 c.p.c. non costituisce un nuovo giudizio o una fase
processuale nuova rispetto a quella in cui la sentenza è
stata emessa, ma un mero incidente dello stesso giudizio
diretto ad identificare, con la sua corretta espressione
grafica, la effettiva volontà del giudice come già
risulta espressa nella sentenza – si coglie l’occasione
per evideoccorre rilevare che la pronuncia che chiude la
fase della correzione non necessita di un’ulteriore
motivazione rispetto alla esplicitazione dei passaggi
logici e delle operazioni attraverso le quali si pone
rimedio all’errore del giudice[28].
Ciò, d’altro canto, sembrerebbe
escludere la possibilità di domandare la correzione di
una pronuncia direttamente nell’atto che instaura il
giudizio d’appello avverso la pronuncia medesima; si può
cogliere qualche spunto nella giurisprudenza dell’ultimo
decennio.
(Altalex, 17 ottobre 2011. Articolo
di Luigi Marino)
________________
[1] F.P. LUISO, Diritto processuale
civile, Giuffrè Milano 2009, pag. 208; negli stessi
termini già S. SATTA, Diritto processuale civile, (IX
edizione a cura di C. PUNZI), Padova Cedam 1981, pag.
377, in cui si chiarisce che il carattere della
semplicità è dovuto alla circostanza che, in caso di
errore materiale, non occorre “rifare” il giudizio, ma
eliminare una fortuita divergenza fra l’idea e la sua
errata rappresentazione.
[2] Cfr. Giur. It. 2000, 2274, nota
di Vanz.
[3] In ordine alla definizione di
errore materiale, pregevole ed esemplificativa risulta
quella data in R. VACCARELLA, M. GIORGETTI, Codice di
procedura civile annotato con la giurisprudenza, Torino
Utet, 2007, annotazioni sull’art. 287 c.p.c., dove viene
definita mera svista del giudice che non incide sul
contenuto concettuale della decisione, ma si concretizza
in una divergenza fra l’ideazione e la sua materiale
rappresentazione grafica.
[4] Per una panoramica completa ed
esaustiva delle singole ipotesi di correzione e un breve
excursus storico dell’istituto, si veda, tra gli altri,
la voce “correzione e integrazione dei provvedimenti del
giudice” in ENCICLOPEDIA GIURIDICA TRECCANI, Roma 1994,
vol. IX..
[5] Giur. It. 2000, 2274, nota di
Vanz cit.
[6] U. ROCCO, Trattato di diritto
processuale civile, UTET , Torino 1957, pag. 190 e ss.
[7] Cass., Sez. I, 24 luglio 2003,
n. 11458, in Giust. civ. mass. 2003, 1757 e ss.
[8] Cass., Sez. II, 3 maggio 1996,
n. 4096, in Giust. civ. mass. 1996, 662.
[9] Il procedimento per la
correzione di errore materiale è applicabile anche al
rito del lavoro. Sul punto, con decisa chiarezza, si è
espressa la Suprema Corte: “Il campo di operatività
della procedura di correzione degli errori materiali non
può subire quindi alcuna limitazione in ragione della
speciale natura del processo del lavoro, non essendo
consentito addurre una forma di assoluta o, quanto meno,
più severa modificabilità del dispositivo, sulla base
della considerazione che lo stesso - perché portato ad
immediata conoscenza delle parti in quanto letto in
udienza e perché consente l'esecuzione provvisoria pur
in pendenza del deposito - deve cristallizzare in
maniera definitiva ed immodificabile quanto risulta
documentalmente riportato. Ed invero, non risponde a
criteri di razionalità un sistema volto a ridurre gli
spazi di operatività dell'istituto in oggetto sulla base
di una volontà decisoria che, sebbene non trasfusa
fedelmente nello scritto, risulti tuttavia accertabile
agevolmente. Per di più non risponde al generale
criterio di lealtà e di buona fede, che deve permeare il
processo, potendo finanche concretizzare un
comportamento in mala fede e gravemente colposo la
condotta della parte che, pur potendo agevolmente
rendersi conto, anche per la attiva partecipazione avuta
in giudizio, che il dispositivo letto in udienza sia
frutto di una svista materiale del giudice, utilizzi
detto dispositivo, nel suo contenuto documentale, come
titolo esecutivo” così Cass., Sez. Lav., 16 maggio 2003,
n. 7706, in Foro It. 2004, 1229.
[10] cfr. Cass., Sez. III, 25
gennaio 2000, n. 816, in Gius. civ. mass. 2000, 135.
[11] C. MANDRIOLI, Corso di diritto
processuale civile – editio minor-, Giappichelli Torino
2007, pag 266.
[12] F. CARNELUTTI, Istituzioni del
nuovo processo civile italiano, 1942, vol. I, pag. 368.
[13] Cfr. in proposito, Cass., Sez.
III, 22 maggio 2001, n. 6961, la quale ha statuito che
“La sentenza nella cui intestazione risulti il
nominativo di un magistrato, non tenuto alla
sottoscrizione, diverso da quello indicato nel verbale
dell'udienza collegiale di discussione, non è nulla ma
deve presumersi affetta da errore materiale, come tale
emendabile con la procedura di correzione di cui agli
artt. 287 e 288 cod. proc. civ., considerato che detta
intestazione è priva di autonoma efficacia probatoria,
esaurendosi nella riproduzione dei dati del verbale
d'udienza e che, in difetto di elementi contrari, si
devono ritenere coincidenti i magistrati indicati in
tale verbale come componenti del collegio giudicante con
quelli che in concreto hanno partecipato alla
deliberazione della sentenza stessa” in Giust. civ.
mass. 2001, 1028; conformemente, anche, Sez. II, 24
marzo 2005, n. 6399 e, tra le più recenti, Sez. III, 14
dicembre 2010, n. 25238.
[14] Cass., Sez. Lav., 23 marzo
2010, n. 7343.
[15] Cfr., tra le tante, Cass.,
Sez. lav, 13 maggio 2000, n. 6171, in Giust. Civ. mass.
2000, 1012; Sez. III, 3 luglio 2008, n. 18202, in Giust.
civ. mass. 2008, 1085.
[16] Il riferimento
giurisprudenziale è Cass., Sez. III, 9 febbraio 2005, n.
2657, (più di recente Cass., Sez. III, 14 dicembre 2010,
n. 25238) quello dottrinario: C. CARNEVALE E ALTRI a
cura di, Rassegna di giurisprudenza del codice di
procedura civile, Giuffrè, Milano 2002, Tomo I, pag.
410.
[17] Op. cit. pag. 411.
[18] Cass., Sez. Lav., 16 maggio
2003, n. 7706, in Giust. civ. mass. 2003, 1146, nello
stesso già Sez. I, 22 novembre 1991, n. 12574, in Giust.
civ. mass. 1991, 1690, nella giurisprudenza di merito
cfr. C. App. Milano, Sez. I, 7 novembre 2007, in
Corriere del Merito, 2008, 294.
[19] Cass., Sez. II, 21 ottobre
1998, n. 10447, in Giur. It.1999, 993.
[20] Cfr. supra pag. 6.
[21] M. C. VANZ, Considerazioni
sulla funzione della correzione e sui limiti oggettivi
di impugnabilità del provvedimento emendato, in Giur.
It. 2000, 2273; che, tra l’altro, riprende con spunti
critici, l’opinione di Andrioli.
[22] Corte Cost. sentenza 10
novembre 2004, n. 335 (in Giur. Cost., 2004, 3788 e ss).
[23] Dottrina e giurisprudenza
vengono genericamente richiamate dalla Corte
Costituzionale nella pronuncia 10-17 novembre.
[24] Per un approfondito esame del
panorama normativo e giurisprudenziale anteriore alla
sentenza 335/2004 della Corte Costituzionale, si rinvia
a S. SATTA, Diritto processuale civile, IX ed. rivista a
cura di C. Punzi, Padova Cedam 1981, pag. 379, in cui si
afferma che qualora si ritenesse sottoponibile al
procedimento di correzione una sentenza ancora
impugnabile, si finirebbe svilire la portata dell’art.
288, ult. co. laddove si ammette la impugnazione delle
sentenze relativamente alle parti corrette nel termine
ordinario decorrente dal giorno della notifica
dell’ordinanza di correzione. Si verrebbero, dunque, ad
accavallare due diverse impugnazioni.
[25] Corte Cost., 10-17 novembre
1994, 393.
[26] In tal senso vengono
sintetizzate dalla Consulta nella sentenza n. 335/2004,
le conclusioni contenute nell’ordinanza di rimessione
del Tribunale dell’Aquila che ha sollevato la questione
di legittimità costituzionale, in seguito alla quale è
stata emessa la sentenza tale pronuncia.
[27] Cass., Sez. III, 24 novembre
2003, n. 17844.
[28] C. Carnevale e altri a cura
di, Rassegna di giurisprudenza del Codice di procedura
civile cit. pag. 406 e ss. |