FEDERICO FERRO-LUZZI
SOMMARIO: 1. Il nuovo comma 2-bis,
art. 118, t.u.b.: dubbi interpretativi. – 2. La «storia»
dell’art. 2-bis: la formulazione di cui al d.l. 70/2011
– 3. Conseguenze applicative della formulazione
definitiva.
1. – Il nuovo comma 2-bis, art.
118, t.u.b.: dubbi interpretativi
A seguito dell’entrata in vigore
della l. 106/2011, il comma 2-bis dell’art. 118, d.lgs.
385/93 (d’ora in poi, anche: t.u.b.), statuisce che: «Se
il cliente non é un consumatore né una micro-impresa
come definita dall'articolo 1, comma 1, lettera t), del
decreto legislativo 27 gennaio 2010, n. 11, nei
contratti di durata diversi da quelli a tempo
indeterminato di cui al comma 1 del presente articolo
possono essere inserite clausole, espressamente
approvate dal cliente, che prevedano la possibilità di
modificare i tassi di interesse al verificarsi di
specifici eventi e condizioni, predeterminati nel
contratto».
Il comma è, di per sé,
incomprensibile e fa sorgere non pochi dubbi.
La circostanza, infatti, che le
parti di un negozio giuridico possano prevedere,
all’interno del contratto e al momento del
perfezionamento di questo, il verificarsi di eventi al
ricorrere dei quali le condizioni negoziali possano
subire delle modifiche è circostanza che nessuno può
mettere seriamente in dubbio, rientrando nel principio
cardine del sistema che riconosce alle parti di un
contratto la possibilità di (auto)regolamentare i propri
interessi, anche prevedendo pattiziamente il ricorrere
di circostanze che possono determinare una modifica
delle condizioni date (e ciò proprio per mantenere il
sinallagma negoziale inizialmente valutato come congruo
da entrambi i contraenti).
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L’introduzione del comma 2-bis
mette, dunque, in seria difficoltà l’interprete.
Innanzitutto, di difficile
inquadramento sistematico l’inserimento, all’interno
della disciplina dello jus variandi (*), di un sistema
basato sullo jus non variandi, ovvero l’impossibilità
per le parti di modificare il contratto se non con
l’accordo, preventivo, dell’altro contraente.
In secondo luogo, l’affermazione
del legislatore in base alla quale soltanto se il
cliente non è un consumatore né una microimpresa le
parti possono inserire clausole che prevedano la
possibilità di modificare le condizioni del contratto,
potrebbe far sorgere il dubbio che – in senso uguale e
contrario – qualora il cliente non appartenga a una
delle due categorie di cui sopra, sia da escludersi la
possibilità di prevedere negozialmente ipotesi al
ricorrere delle quali le condizioni contrattuali possano
essere modificate, il che costituirebbe eccezione al
sistema dell’autoregolamentazione dei propri interessi
di non poco momento (trattandosi poi di comprendere per
quale ragione sistematica, o di opportunità, il divieto
in discorso sussista soltanto all’interno dei contratti
ove una parte è una banca).
Ancora. L’asserzione legislativa in
base alla quale una banca e un’impresa (non micro)
possono predeterminare esclusivamente le ipotesi al
ricorrere delle quali può variare il tasso di interesse,
fa sorgere l’ulteriore dubbio che sia da escludersi la
possibilità a che le parti individuino ipotesi al
ricorrere delle quali possano essere modificate altre
condizioni (in via meramente esemplificativa ma non
esaustiva: la durata del finanziamento), ma anche in
questo caso la ragione logica, prima ancora che
giuridica, francamente sfugge.
Il comma così inserito sembra,
dunque, non aggiungere ma sottrarre libertà negoziale
delle parti, senza che sia evidente la ragione
sottostante a tale limitazione.
In vero, per poter comprendere la
(non) portata negoziale del comma 2-bis, t.u.b., risulta
necessario analizzare la precedente formulazione di cui
al d.l. 70/2011.
(*) Ovvero “Il diritto
(potestativo) di una delle parti contraenti di
modificare il contratto mediante una manifestazione
unilaterale di volontà” (P. SIRENA, Lo jus variandi
della banca dopo il c.d. decreto-legge sulla
competitività (n. 223 del 2006), in Banca Borsa e tit.
cred., I, 2007, p. 262), così come previsto dal comma 1
dell’art. 118, t.u.b.
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2. – La «storia» del comma 2-bis:
la precedente formulazione di cui al d.l. 70/2011
Con l’art. 8, comma 5, lett. f),
d.l. n. 70/2011 era stato introdotto un nuovo comma
all’art. 118, d.lgs. 385/1993 (d’ora in poi, anche:
t.u.b.) – il comma 2-bis – ai sensi del quale «Se il
cliente non è un consumatore, né una micro-impresa come
definita dall’articolo 1, comma 1, lettera t), del
decreto legislativo 27 gennaio 2010, n. 11, le parti
possono convenire di non applicare, in tutto o in parte,
le disposizioni del presente articolo.».
Con il medesimo intervento
normativo, il legislatore aveva poi previsto una norma,
in senso assai lato, transitoria (art. 8, comma 5, lett.
g) ai sensi della quale: «ai fini dell’applicazione del
comma 2-bis dell’articolo 118 del decreto legislativo 1°
settembre 1993, n. 385, introdotto dalla presente legge,
ai contratti in corso alla data di entrata in vigore
della presente decreto stipulati con soggetti che non
siano consumatori o micro-imprese, i soggetti di cui
all’articolo 115 del medesimo decreto, entro il 30
giugno 2011 comunicano, con le modalità indicate al
comma 2 dell’articolo 118 del decreto legislativo 1°
settembre 1993, n. 385, le modifiche apportate ai
contratti medesimi. La modifica si intende approvata
qualora il cliente non receda dal contratto entro
sessanta giorni dal ricevimento della comunicazione. Al
cliente che ha esercitato il diritto di recesso non
possono essere applicati oneri superiori a quelli che
egli avrebbe sostenuto in assenza di modifica.».
L’intervento del legislatore era
profondamente innovativo (e, in parte,
incostituzionale), posto che l’art. 118, t.u.b., nella
sua formulazione precedente all’intervenuta modifica di
cui al d.l., riconosceva alle parti il potere di
concedere a una o a entrambe il diritto potestativo di
modificare le clausole contrattuali, al ricorrere di tre
condizioni: (i) che tale clausola fosse approvata
specificatamente (per iscritto secondo la regola
generale dettata in tema di contratti bancari dall’art.
117 t.u.b.); (ii) che ricorresse un giustificato motivo;
(iii) che non prevedesse la modifica del tasso di
interesse pattuito (meglio: del metodo di calcolo del
tasso di interesse dovuto) qualora si fosse in presenza
di un contratto di durata (allora a tempo determinato).
Con l’introduzione del comma 2-bis,
al contrario, veniva riconosciuto alle parti il potere
di concedere, a una o a entrambe, il diritto potestativo
di modificare le clausole contrattuali anche in assenza
di giustificato motivo, al ricorrere di due requisiti:
(i) mancata appartenenza del cliente alla categoria dei
consumatori o delle micro-imprese; (ii) sussistenza di
apposito accordo negoziale sul punto. La formulazione di
cui al d.l. consentiva, peraltro e al
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ricorrere delle condizioni
soggettive e oggettive nello stesso indicate,
sicuramente di modificare anche il tasso di interesse
nei contratti di durata (†).
Ancora più «innovativa» la
(presunta) norma transitoria, ai sensi della quale: «ai
fini dell’applicazione del comma 2-bis dell’articolo 118
del decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385,
introdotto dalla presente legge, ai contratti in corso
alla data di entrata in vigore della presente decreto
stipulati con soggetti che non siano consumatori o
micro-imprese, i soggetti di cui all’articolo 115 del
medesimo decreto, entro il 30 giugno 2011 comunicano,
con le modalità indicate al comma 2 dell’articolo 118
del decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385, le
modifiche apportate ai contratti medesimi. La modifica
si intende approvata qualora il cliente non receda dal
contratto entro sessanta giorni dal ricevimento della
comunicazione. Al cliente che ha esercitato il diritto
di recesso non possono essere applicati oneri superiori
a quelli che egli avrebbe sostenuto in assenza di
modifica.» (lett. g, comma 5, art. 8, d.l. 70/2011).
Evidente, infatti, la circostanza
che la disciplina dettata alla lettera g) dell’art. 8,
comma 5, d.l. 70/2011 non avesse nulla a che fare con la
norma introdotta alla lettera f); al di là del portato
meramente letterale («ai fini dell’applicazione del
comma 2-bis dell’art. 118 (…) introdotto dalla presente
legge») la norma certamente inseriva una disciplina del
tutto nuova.
La lettera g) dell’art. 8, comma 5,
non disciplinava, invero, l’applicazione dell’art. 2-bis
ai contratti conclusi prima della sua entrata in vigore
ma statuiva un principio nuovo (l’applicabilità dello
ius variandi in assenza di qualsivoglia accordo
negoziale sulla sua esperibilità) e che avrebbe avuto
applicazione esclusivamente per i contratti con tre
caratteristiche: (i) essersi perfezionati prima
dell’entrata in vigore del nuovo comma 2-bis; (ii)
essere in corso; (iii) avere quale parti una banca o un
intermediario e un soggetto né consumatore né
microimpresa. I clienti nella condizione indicata, si
sarebbero trovati in una posizione di indubbio
svantaggio (modificabilità delle clausole o recesso
contrattuale alla sola manifestazione di volontà della
banca o dell’intermediario) in cui: (i) non si erano
trovati (per espresso divieto normativo) coloro i quali,
pur ricorrendo i requisiti di cui al comma 2-bis,
avevano visto esaurire la funzione del contratto
perfezionato prima
(†) Sotto il profilo sistematico,
una volta che il primo comma dell’art. 118, nella sua
seconda parte, prevede l’esplicito divieto di modificare
i tassi di interesse nei contratti di durata,
l’inserimento di altro comma (2-bis) che espressamente
prevede la derogabilità «in tutto» delle disposizioni
dello stesso articolo 18 consente, al ricorrere delle
condizioni indicate, il superamento del divieto
esplicito (dunque, la modificabilità del tasso di
interesse nei contratti di durata). Gli è, allora, che
ai sensi della lettera g) dell’art. 8, comma 5, d.l.
70/2011, ben avrebbe potuto la banca o l’intermediario
finanziario comunicare al cliente (né consumatore, né
micro-impresa) la modifica al tasso di interesse
apportata al contratto di durata.
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dell’entrata in vigore della norma;
(ii) non si sarebbero trovati coloro i quali, al
ricorrere dei requisiti del comma 2-bis, avessero
perfezionato un contratto dopo l’entrata in vigore del
decreto, poiché sarebbe stata necessaria l’esplicita
approvazione. Sotto il profilo indicato, la norma
appariva chiaramente illegittima, creando una disparità
di trattamento in situazioni assolutamente identiche e
senza che vi fosse alcuna necessità logica o
sistematico/giuridica.
L’intervento legislativo di cui al
d.l., ha provocato un’immediata reazione da parte della
realtà imprenditoriale, in particolare di Confindustria
(‡), reazione che ha determinato la riformulazione del
comma 2-bis nella enunciazione definitiva sopra
indicata, oltre a un ulteriore disposizione di natura
(realmente) transitoria, a mente della quale: «le
disposizioni del comma 2-bis dell'articolo 118 del testo
unico di cui al decreto legislativo 1o settembre 1993,
n. 385, introdotto dalla lettera f) del presente comma,
non si applicano ai contratti in corso alla data di
entrata in vigore del presente decreto. Le modifiche
introdotte ai contratti in corso alla predetta data sono
inefficaci» (lett. g, comma 5, art, 8, l. 106/2011).
Orbene, mentre la soppressione
della «famigerata» lettera g) non può che essere
condivisa appieno, e la ragione è perfettamente
individuabile nella sua assoluta eccentricità (prima
ancora che incostituzionalità), non si comprende la
riformulazione della lettera f) che – nei fatti e come
visto – priva la novità di qualsivoglia profilo di
rilevanza applicativa, se non in senso deteriore
rispetto alla libertà negoziale delle parti.
Sul punto, possono essere fatte
soltanto delle supposizioni.
Quella che più mi convince, per
vero malevola, è che l’unico interesse dei soggetti che
avevano proposto (prima) e supportato (dopo) la modifica
legislativa, fosse rappresentato – e in via esclusiva –
dal contenuto di cui alla lettera g) (poi malamente
camuffata come norma transitoria rispetto alla
disciplina di cui alla lettera f) e, dunque, di
concedere alle banche il diritto potestativo di incidere
direttamente sulle condizioni economiche dei contratti
di durata in essere, senza che al cliente fosse data
possibilità di evitarlo (§). Scoperti e venuta meno la
possibilità di effettuare quanto voluto, poco interesse
è stato riposto nella lettera f) che così ha perso di
qualsivoglia
(‡) Vedonsi gli articoli apparsi su
Italia Oggi: Mutui, guerra Abi-Confindustria, del
18.05.2011, p. 10; Mutui, imprese contro il dl sviluppo,
del 19.05.2011, p. 10; Mutui, l’Abi accusa
Confindustria, del 20.05.2011, p. 10; Sui Mutui ecco la
zampata di Mps, del 25.05.2011, p. 10; tutti di S.
SANSONETTI.
(§) In via meramente
esemplificativa ma esaustiva, si pensi all’ipotesi di
una apertura di credito per alcuni milioni di euro a
tempo determinato; a fronte della notifica
dell’intervenuta modifica del tasso di interesse,
l’impresa cliente, avendo quale alternativa quella di
accettare la modifica o di recedere dal contratto
dovendo restituire immediatamente tutta la somma
ricevuta, si sarebbe trovata innanzi una “scelta”
obbligata.
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portata normativa, trasformandosi
in una ripetizione di cose (giuridicamente) note.
In vero, se correttamente
strutturata, anche la disposizione di cui alla lettera
f) avrebbe potuto rappresentare una novità legislativa
di interesse per le banche, ma a condizione che fosse
mantenuta l’intelaiatura di cui al primo comma dell’art.
118, t.u.b., allora prevedendo che per i clienti che non
appartengono alla categoria dei consumatori né a quello
delle micro-imprese, anche per i contratti di durata
«può essere convenuta, con clausola approvata
specificatamente dal cliente, la facoltà di modificare
unilateralmente i tassi, prezzi e le altre condizioni
previste dal contratto qualora sussista un giustificato
motivo». Con una tale formulazione, ovviamente per i
soli contratti perfezionatisi successivamente
all’entrata in vigore della norma, si sarebbe aggiunta
una facoltà per le banche, facoltà oggi non riconosciuta
alla luce della formulazione della norma.
3. – Conseguenze applicative della
formulazione definitiva
In ragione dei passaggi che hanno
caratterizzato la definitiva formulazione del comma
2-bis, ritengo si possano ora risolvere alcuni dubbi
interpretativi che sorgono da una prima lettura della
formulazione della disposizione, così come entrata in
vigore.
Ritengo, infatti, che la norma sia
meramente ricognitiva di un potere già in capo alle
parti e alla luce della disciplina generale dei
contratti, con la conseguenza che la stessa non è
indicativa della sussistenza di un limite alla
predisposizione, nel contratto, di ipotesi al ricorrere
delle quali, nei contratti di durata a tempo
determinato, possano cambiare le condizioni contrattuali
e ciò né (i) sotto il profilo soggettivo, con la
conseguenza che anche se la parte è un consumatore o una
microimpresa possono essere negozialmente individuate
ipotesi al ricorrere delle quali le condizioni
contrattuali possono essere modificate, né sotto quello
(ii) «tipologico», con l’effetto che le parti (e
indipendentemente dalla categoria alla quale
appartengono) possono negozialmente individuare ipotesi
al ricorrere delle quali qualsivoglia condizione
contrattuale potrà essere modificata, non solo il tasso
di interesse, allora.
Sostanzialmente, e in altri
termini, la norma è inutile (per non dire dannosa, visti
i dubbi che ingenera).
Sotto il profilo meramente
esecutivo, la banca dovrà comunicare all’impresa il
ricorrere di una delle ipotesi negozialmente previste e,
in
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conseguenza, la decisione di
avvalersi della possibilità di variare le condizioni
contrattuali, poi nella misura prevista nel contratto.
Non trattandosi di ius variandi, al cliente non sarà
data la possibilità di recedere dal contratto, essendo
la variazione una delle ipotesi negoziali concordate, ma
al venir meno del presupposto per la variazione, il
cliente avrà il diritto all’applicazione delle
precedenti condizioni contrattuali. |