Dott. Marco Granvillano
Sommario:
1. Lineamenti generali.
1.2. [Segue] la
lettura-contestazione e i suoi effetti.
1.3. [Segue] il “non ricordo” del
teste e l’art. 512 c.p.p..
1.4. [Segue] la
lettura-contestazione con conseguente acquisizione.
1. Lineamenti generali.
Inteso nelle sue linee essenziali,
il principio del contraddittorio evoca l’idea della
simultanea e contrapposta compartecipazione di tutte le
parti del processo. La vocatio in judicium e la
contestazione dell’accusa ne garantiscono l’attuazione.
Le regole dettate per i casi di
mancata comparizione dell’imputato e di partecipazione a
distanza di esso costituiscono apertis verbis le
variabili di un sistema dedito a delimitare le stasi del
processo e a garantire, pure in assenza dell’imputato,
l’effettività del suo intervento nel dibattimento. La
normativa circa l’elaborazione e la valutazione in
contraddittorio della prova completa il mosaico. È a
quest’ultimo tassello che si affranca il fine del
presente scritto, il quale – lungi dal fornire un quadro
capillare della disciplina – abbozza un tentativo di
ritrovamento di un equo contemperamento tra il diritto
al silenzio dell’imputato, il diritto di non rendere
dichiarazioni autoincriminanti, il diritto dell’accusato
a confrontarsi con l’accusatore, nonché l’interesse
generale ad acquisire, ai fini probatori, il patrimonio
conoscitivo in possesso dell’imputato e degli altri
soggetti coinvolti a vario titolo nella vicenda
processuale.
L’art. 111 Cost., ai commi 3 e 4,
vale a dire nella parte in cui definisce il principio
del contraddittorio, costituisce la norma regina per la
lettura e l’esegesi della legge (l. 63/01) dettata per
la sua attuazione, giacché consacra le due anime del
contraddittorio: nel suo risvolto oggettivo, esso indica
il metodo di accertamento giudiziale dei fatti, mentre
in quello soggettivo deve essere inteso quale diritto
dell’imputato a confrontarsi con il suo accusatore.
Parte della dottrina ritiene, dando
un’interpretazione restrittiva di tale norma, che la
prova valida per la decisione finale possa formarsi solo
oralmente all’interno della cross examination; in tal
modo le dichiarazioni rese durante le indagini
preliminari – segrete – pure contestate a colui il quale
avesse fornito una differente versione, non sarebbero
assolutamente utilizzabili ai fini della prova del fatto
affermato in precedenza (così Ferrua, E. Marzaduri).
Altra dottrina estende il
significato del contraddittorio, affermando che il
principio sancito dal comma 4 dell’art. 111 Cost.
troverebbe piena attuazione pure laddove le precedenti
dichiarazioni, rese nel circuito delle indagini
preliminari, fossero contestate in dibattimento a colui
che dia una differente versione dei fatti; in tal caso,
infatti, la prova valida ai fini della decisione
dibattimentale si formerà in modo complesso, in cui
verrà rispettata la dialettica tra accusa e difesa. Il
dichiarante, il quale muti versione, non si sottrarrà al
contraddittorio poiché le parti potranno fare domande
attraverso cui sarà possibile chiarire quali siano le
motivazioni delle differenze rispetto a quanto affermato
in precedenza (P. Tonini).
I fautori dell’interpretazione
restrittiva sostengono che il precetto contenuto nella
prima parte dell’art. 111, comma 4, Cost., in virtù del
quale “il processo penale è regolato dal principio del
contraddittorio nella formazione della prova”, pone
implicitamente una sanzione di inutilizzabilità per le
ipotesi in cui non si osservi il detto principio.
All’opposto, i sostenitori della
tesi estensiva, rilevano che tale primo periodo vada
correlato con il secondo periodo del medesimo comma,
diversamente non avendo alcun senso la previsione
normativa di esso, giacché la norma in sé porrebbe già
la regola dell’inutilizzabilità di tutte le
dichiarazioni assunte in elusione del contraddittorio.
Invero il 4° comma dell’art. 111, letto
sistematicamente, porrebbe l’inutilizzabilità quale
sanzione per un comportamento elusivo del
contraddittorio e non come esclusione di un determinato
elemento di prova per la sua ontologica inaffidabilità.
Tale conclusione sarebbe avvalorata dalla natura
soltanto relativa della inutilizzabilità desumibile
proprio dal secondo periodo del comma 4, in base al
quale le dichiarazioni rese da chi ha eluso il
contraddittorio possono essere utilizzate in favore
dell’imputato.
Il giudice delle leggi, chiamato a
pronunciarsi sulla nuova versione dell’art. 500 c.p.p.,
ha condiviso l’interpretazione restrittiva, affermando
che l’art. 111 Cost. ha “espressamente attribuito
risalto costituzionale al principio del contraddittorio
anche nella prospettiva della impermeabilità del
processo, quanto alla formazione della prova, rispetto
al materiale raccolto in assenza della dialettica tra le
parti; alla stregua di siffatta opzione, appare del
tutto coerente la previsione di istituti che mirino a
preservare la fase del dibattimento – nella quale
assumono valore paradigmatico i principi dell’oralità e
del contraddittorio – da contaminazioni probatorie
fondate su atti unilaterali raccolti nel corso delle
indagini preliminari” .
L’art. 500 c.p.p., pertanto, va
letto alla luce dell’art. 111, senza accantonare
tuttavia il combinato disposto degli artt. 526 e 514
c.p.p..
Il 1° comma dell’art. 526 statuisce
che “il giudice non può utilizzare ai fini della
deliberazione prove diverse da quelle legittimamente
acquisite nel dibattimento”, mentre l’art. 514 pone la
regola generale in base alla quale non costituisce
legittima acquisizione la lettura dei verbali delle
dichiarazioni rese fuori dal dibattimento, salvi i casi
espressamente previsti.
La lettura delle due norme ci
conduce alla ragionevole conclusione che le prove
dichiarative precostituite sono inutilizzabili, salvi i
casi in cui la legge ne consenta l’acquisizione;
conseguentemente, le norme che consentono
l’utilizzabilità di dichiarazioni rese in precedenza
hanno natura eccezionale e, come tali, non sono
suscettive di estensione analogica.
In questa prospettiva va situata
anche la disposizione di cui all’art. 526, comma 1 bis,
la quale, nel riproporre testualmente il dettato
dell’art. 111, comma 4, Cost., vieta di utilizzare quale
prova della colpevolezza le dichiarazioni rese da chi
per libera scelta si è sempre volontariamente sottratto
al contraddittorio. Essa altro non è che una norma di
chiusura, limitandosi a stabilire una regola di
esclusione, senza alcuna eccezione di sorta; tuttavia
ciò non denega che l’imputato, titolare del diritto al
contraddittorio in senso soggettivo (diritto
dell’imputato a confrontarsi con l’accusatore) possa
abdicare a tale diritto e permettere che le
dichiarazioni accusatorie siano utilizzate contra se.
Aderendo alla teoria restrittiva,
pertanto, appare confacente al dato normativo e alla
scelta del legislatore immessa nell’art. 111, comma 4,
ritenere che le dichiarazioni rese da chi ha eluso il
contraddittorio siano inutilizzabili contro l’imputato,
salvo che questi vi acconsenta o che ricorrano le altre
ipotesi espressamente disciplinate dal legislatore.
In ordine a questa scelta esegetica
va letta la norma dettata in materia di contestazioni,
tramite cui si utilizzano taluni atti d’indagine
formatisi al di fuori della dialettica processuale con
l’effetto, seppur limitato, di valutare la credibilità
del soggetto esaminato ovvero con l’acquisizione al
fascicolo dibattimentale delle dichiarazioni contestate,
con piena valenza probatoria .
1.2. [Segue] la
lettura-contestazione e i suoi effetti.
Le dichiarazioni rese in
antecedenza possono essere utilizzate nel corso del
dibattimento per effettuare le contestazioni. Al
dichiarante (testimone o parte che sia) viene contestato
di aver reso una difforme dichiarazione in un momento
anteriore al dibattimento e ciò al fine, da un canto, di
appurare la sua credibilità e, dall’altro, per
consentirgli di dare una chiosa della diversa versione.
L’art. 500 c.p.p. dispone che “le
dichiarazioni lette per la contestazione possono essere
valutate ai fini della credibilità del teste”, segnando
in tal guisa una profonda frattura con la disciplina
precedente, giacché consente la lettura-contestazione ma
senza acquisizione; invero, nell’ipotesi in cui permanga
il contrasto, le dichiarazioni non possono costituire
prova dei fatti in esse affermati ma solo essere
utilizzate per verificare e valutare la credibilità del
teste.
Così il precedente difforme non
potrà essere acquisito al fascicolo del dibattimento e,
dunque, non potrà nemmeno essere utilizzato dal
giudicante; potrà tuttavia paralizzare l’efficacia
probatoria delle dichiarazioni rese dal testimone in
dibattimento.
A fronte di contraddizioni tra
quanto dichiarato dal testimone nel corso delle indagini
e quanto successivamente da lui affermato in
dibattimento, il giudice potrà ritenere che le
dichiarazioni dibattimentali non siano credibili;
convincersi che il teste abbia detto il vero in
dibattimento oppure, sulla base della contestazione, non
potrà ritenere provate le circostanze affermate nel
corso delle indagini, giacché le relative dichiarazioni
non sono state acquisite al fascicolo per il
dibattimento e, pertanto, non concorrono alla formazione
del patrimonio di conoscenze utilizzabile dal
giudicante.
Nella diversa ipotesi in cui il
teste in dibattimento dichiari di non ricordare e,
tuttavia, rispondendo alla contestazione di chi conduce
l’esame, ammetta di aver reso nella fase
predibattimentale le dichiarazioni lette per le
contestazioni, queste vengono acquisite al patrimonio
conoscitivo del giudice, il quale, con la dovuta cautela
e tenuto conto dell’intera piattaforma probatoria, potrà
farne oggetto di austera valutazione. Ergo, alla luce di
ciò il riconoscimento da parte del teste della
veridicità di una propria precedente dichiarazione resa
ha valenza di indizio, che, per assurgere al rango di
prova, deve essere valutato con altri indizi gravi,
precisi e concordanti.
Tale conclusione costituisce il
logico corollario delle scelte legislative dirette
all’attuazione dei principi dettati dall’art. 111 Cost..
Invero, nella già invocata prospettiva della
impermeabilità del processo, non può ritenersi che nel
caso di cui sopra la prova si sia formata in
dibattimento, nel pieno rispetto dei principi
dell’oralità e del contraddittorio, giacché in realtà
non vi è stata alcuna dialettica tra le parti, essendosi
il teste limitato a confermare la veridicità di una
dichiarazione resa previamente, senza tuttavia
sottoporsi all’esame incrociato, evitando così di
rispondere alle domande formulategli dalle parti.
Non può essere sottaciuto lo sforzo
di alcuni autori di recuperare la piena valenza
probatoria delle dichiarazioni predibattimentali rese
dal teste che, sottoposto all’esame incrociato, si
trinceri dietro il “non ricordo”, pur essendo palmare,
per altri elementi emergenti dal processo, la sua
reticenza.
Al riguardo si afferma che la
legge, pur espressamente vietando l’utilizzazione delle
contestazioni ai fini della prova, consente che le
stesse possano ugualmente contribuire a formare il
convincimento del giudice. Vero è che l’art. 111 Cost.
stabilisce che la prova si forma nel contraddittorio
delle parti ma è allo stesso modo vero che l’esame del
teste non si fonda soltanto sulle risposte che egli dà
ma anche sulle domande formulate dalle parti: è dal
complesso della domanda e della risposta che si forma la
prova. Pertanto, nel caso in cui il teste renda una
dichiarazione difforme dalla precedente ed il p.m. o il
difensore proceda alla relativa contestazione,
formulando una domanda con lo stesso contenuto della
contestazione, ed il teste neghi la circostanza in
maniera evidentemente reticente, il giudice potrebbe
maturare il convincimento che i fatti si siano svolti
come indicato nella domanda e non anche nella risposta
reticente. Ciò vuol dire, in altri termini, che se da
una parte va esclusa funditus la possibilità di elevare
a rango di prova la pura e semplice contestazione,
dall’altra, ove la circostanza oggetto della
contestazione venisse rimodulata sotto forma di domanda
e il teste rispondesse in maniera falsa o reticente, il
giudice potrebbe trarre da tale comportamento la prova
che le cose siano andate esattamente come indicato nella
domanda.
Sia la dottrina che la
giurisprudenza prevalenti hanno riconosciuto la
possibilità che si proceda a contestazione anche nei
confronti del teste silente e ciò distinguendo il
problema dell’utilizzabilità o meno delle dichiarazioni
contestate e quello della funzione svolta dalle
contestazioni nell’economia dell’esame incrociato. In
merito a questo è possibile affermare che il “non
ricordo” rappresenta comunque il contenuto di una sia
pur minimale deposizione e che l’art. 500 c.p.p., nella
parte in cui stabilisce che la contestazione si può fare
soltanto se il teste ha deposto, intende affermare con
semplicità che la contestazione deve seguire la
deposizione, collocandola, quindi, temporalmente in
maniera tale da non pregiudicare la genuinità della
risposta, ma senza con ciò denegare a priori la
possibilità che la contestazione possa avere luogo. Il
Supremo collegio ha posto l’attenzione – benché
riferendosi alla vecchia versione dell’art. 500 – che,
quando il teste dichiari di non ricordare, trattasi
comunque di una divergenza rispetto alle risultanze
delle indagini preliminari e che sull’analisi esegetica
non inciderebbe la facoltà attribuita al teste, su
autorizzazione del giudice, di servirsi di documenti da
lui redatti e di atti d’investigazione svolta, poiché la
detta facoltà non concernerebbe le contestazioni
nell’esame testimoniale bensì le modalità di svolgimento
del medesimo (Cass. pen. 24.04.1997).
1.3. [Segue] il “non ricordo” del
teste e l’art. 512 c.p.p..
La Consulta ha ritenuto che da una
mera esegesi dell’art. 512 c.p.p. affiora che, ai fini
della legittima lettura in dibattimento, la norma
postula la sola condizione della impossibilità di
ripetizione degli atti per motivi di fatto o circostanze
imprevedibili, fra i quali nulla autorizza ad escludere
un’infermità del teste determinante l’assoluta amnesia
sui fatti di causa.
In una pronuncia successiva , la
Corte costituzionale, in riferimento all’art. 111, comma
5, ha affrontato la questione di legittimità
costituzionale dell’art. 512, nella parte in cui
consente la lettura degli atti assunti nel corso delle
i.p. solo quando ne è divenuta impossibile la
ripetizione per fatti o circostanze imprevedibili. Nella
specie il giudice a quo era stato adito al fine di
decidere sull’acquisizione al fascicolo dibattimentale
del verbale di una individuazione fotografica effettuata
da un testimone nell’immediatezza dei fatti, atto poi
divenuto irripetibile a causa dell’incapacità del teste
a ricordare alcunché relativamente all’esito dello
stesso nonché di focalizzare l’immagine della persona,
all’epoca dei fatti riconosciuta. Ebbene, il giudice a
quo riteneva che la norma sindacata, nel contemplare
limiti estranei e ulteriori (s’intendono
l’imprevedibilità e l’irreperibilità) all’operatività
delle deroghe al principio del contraddittorio nella
formazione della prova, configgeva col 5° comma
dell’art. 111, Cost., laddove si faceva riferimento
esclusivo alla “accertata impossibilità di natura
oggettiva” della ripetizione della prova. L’occasione
serviva alla Corte per marcare la differenza tra
impossibilità oggettiva di ripetizione dell’atto
dichiarativo (derivante ipoteticamente da morte,
infermità comportante una totale amnesia del teste,
irreperibilità), la quale viene inglobata nel tenore di
applicazione dell’art. 512, e mera incapacità dedotta
dal teste di richiamare il contenuto dell’atto assunto
durante le i.p.; in quest’ultimo caso, indipendentemente
da valutazioni in ordine alla prevedibilità
dell’impossibilità di ripetizione dell’atto stesso
(considerando, per esempio, l’età del teste o il
notevole lasso di tempo intercorso tra l’assunzione
dell’atto e la verifica dibattimentale), non si versa
nell’ipotesi dell’oggettiva impossibilità di procedere
all’assunzione dell’atto e, pertanto, non è applicabile
l’art. 512, correttamente interpretato.
La lettura estensiva della norma in
esame – secondo la Corte – è incompatibile con l’ambito
di applicazione della specifica ipotesi di deroga del
contraddittorio per accertata impossibilità di natura
oggettiva prevista dal 5° comma dell’art. 111 Cost.. Ove
si consideri, infatti, anche il testuale riferimento
contenuto al 4° comma della stessa norma alle
dichiarazioni rese da chi, per libera scelta, si è
sempre sottratto volontariamente all’interrogatorio, il
richiamo all’impossibilità di natura oggettiva non può
che riferirsi a fatti indipendenti dalla volontà del
dichiarante, che di per sé rendono non ripetibili le
dichiarazioni previamente rese.
In via definitiva, a tenore
dell’invocata giurisprudenza costituzionale, deve
escludersi la possibilità di ricorrere, a fronte del
teste che non ricordi più i fatti sui quali è esaminato
in dibattimento, allo strumento disciplinato dall’art.
512 c.p.p., profittevole allorché il venir meno della
memoria dipendesse da cause patologiche e non quando
invece fisiologicamente riconducibile al trascorrere del
tempo.
1.4. [Segue] la
lettura-contestazione con conseguente acquisizione.
Se la reticenza è il frutto di
violenza, lusinga o minaccia sul dichiarante, trova
applicazione il quarto comma dell’art. 500 c.p.p., a
tenore del quale “quando, anche per le circostanza
emerse nel dibattimento, vi sono elementi concreti per
ritenere che il testimone è stato sottoposto a violenza,
minaccia, offerta o promessa di denaro o di altra
utilità, affinché non deponga ovvero deponga il falso,
le dichiarazioni contenute nel fascicolo del
dibattimento e quelle previste dal comma 3 possono
essere utilizzate”; in casi del genere “il giudice
decide senza ritardo, svolgendo gli accertamenti che
ritiene necessari, su richiesta della parte, che può
fornire gli elementi concreti per ritenere che il
testimone è stato sottoposto a violenza, minaccia,
offerta o promessa di denaro o di altra utilità” (quinto
comma). In tal guisa si realizza una
lettura-contestazione con acquisizione al fascicolo per
il dibattimento: le dichiarazioni rese in sede
predibattimentale, pertanto, potranno essere utilizzate
dal giudice per la decisione e valutate secondo i
consueti canoni interpretativi.
La norma in realtà traduce la
deroga alla formazione della prova in contraddittorio
prevista dall’art. 111, 5° co., Cost., il quale, oltre
al “consenso dell’imputato” e alla “accertata
impossibilità di natura oggettiva”, contempla l’ipotesi
della “provata condotta illecita”.
Ebbene, al fine di acclarare i
condizionamenti subiti dal testimone, facendo
riferimento al dato letterale, è possibile ritenere che
siano bastevoli elementi concreti, il che se da una
parte esclude la necessità di una prova dotata del grado
di consistenza necessario per fondare un giudizio di
condanna, dall’altra, esclude che il giudice si possa
accontentare di meri postulati.
La prova della coartazione può
ritenersi raggiunta anche sulla base della sola modalità
dell’esame ed è chiarificatore – seppur con le opportune
cautele – l’esame critico della ritrattazione
dibattimentale, poiché qualora essa non venisse chiosata
con adeguatezza e non potesse essere intesa quale
manifestazione dell’intento di ristabilire tardivamente
una verità adombrata nella fase delle indagini
preliminari, il contegno dibattimentale del dichiarante
diventerebbe ad un tempo il presupposto per
l’applicazione della norma in esame ed uno degli
elementi di convincimento di un probabile intervento
inquinante.
Esclusa pertanto la necessità di
una piena prova (vale a dire della stessa consistenza di
quella richiesta per il giudizio di condanna), al
giudicante è riconosciuto un modesto margine di
elasticità al fine di accertare che il teste non sia
stato vittima di pressioni illecite, fondando la propria
decisione su elementi concreti, dei quali dovrà dare
adeguata spiegazione in motivazione ex art. 546, comma
1, lett. e), c.p.p..
Come ricordato da Ferrua “il grado
della prova va individuato tra due estremi: da un lato,
sarebbe insensato pretendere che lo standard debba
essere rappresentato dalla prova al di là di ogni
ragionevole dubbio, necessaria una pronuncia di
condanna; dall’altro, occorre evitare che gli elementi
concreti si tramutino in vaghe ragioni, in semplici
motivi di sospetto”.
Altra ipotesi di acquisizione è
quella configurata dal 6° comma dell’art. 500 c.p.p., in
vista del quale è consentito acquisire al fascicolo del
dibattimento, a richiesta di parte, le dichiarazioni
assunte dal giudice nell’udienza preliminare se
utilizzate per le contestazioni. Queste – oltre alle
ipotesi già enucleate – entreranno nel bagaglio
conoscitivo del giudice e saranno da questi valutate nei
confronti delle parti che hanno partecipato alla loro
assunzione.
L’ipotesi conclusiva di
acquisizione probatoria è quella collocata nel comma 7
dell’art. 500, secondo cui “su accordo delle parti le
dichiarazioni contenute nel fascicolo del pubblico
ministero precedentemente rese dal testimone sono
acquisite al fascicolo del dibattimento”. Essa esprime
un aspetto della regola generale già stabilita dall’art.
493, comma 3, c.p.p., e disciplina la c.d. acquisizione
concordata al fascicolo dibattimentale di atti contenuti
nel fascicolo del pubblico ministero. È possibile che il
consenso venga prestato, oltre che dal p.m., da alcuni
imputati e non da altri; in siffatto caso gli effetti
dell’atto ricadranno unicamente su quelle parti che
hanno manifestato il consenso. Si tratta di un caso di
utilizzazione relativa in chiave soggettiva dell’atto.
Non è escluso, inoltre, che il giudice possa
officiosamente disporre l’assunzione di mezzi di prova
relativi agli atti acquisiti al fascicolo per il
dibattimento. Controverso è il caso in cui la parte
civile non presti il consenso; invero, la dizione
generica dell’espressione utilizzata dal legislatore
indurrebbe a ritenere che l’atto non possa venire
acquisito.
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