Sommario:
1. Riferimenti normativi
2. Forma del contratto
3. Conseguenze derivanti dalla
scorretta indicazione della causale
4. Divieto di ricorso al contratto
a termine
5. Parità di trattamento
economico-normativo con il contratto a tempo
indeterminato
6. Durata e proroga
7. Diritto di precedenza
8. Successione di contratti a
termine
9. Eccezioni al limite di durata
(la cd. deroga assistita)
10. Indennizzo per la violazione
delle norme in materia di apposizione e di proroga del
termine
11. Cessazione del rapporto
12. Criteri di computo dei
lavoratori
13. Limiti quantitativi ed
esclusioni da tali limiti
********
1. Riferimenti normativi
Il contratto a tempo determinato è
attualmente disciplinato dal d. lgs. 6.9.2001 n.368
(emanato in attuazione della Direttiva comunitaria
1999/70 sul lavoro a termine) - che ha espressamente
abrogato la precedente normativa - così come modificato
ed integrato dalla legge 24.12.2007 n. 247 (cd.
collegato alla finanziaria 2007) e dal d.l. 112/2008
convertito con modificazioni nella legge n. 133/2008.
A tal proposito, il d. lgs. 6
settembre 2001 n. 368 stabilisce che è consentita
l'apposizione di un termine alla durata del contratto di
lavoro subordinato a fronte di ragioni di carattere
tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo anche
se riferibili alla ordinaria attività del datore di
lavoro (art.1, comma 1).
La modifica ex lege n. 247/07
interviene su uno dei punti più controversi della
disciplina contenuta nel d.lgs. n. 368/2001, cioè in
ordine alla natura straordinaria oppure ordinaria delle
ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo
e sostitutivo che giustificano il ricorso al contratto a
termine. Secondo una lettura - molto seguita dalla
giurisprudenza successiva all’approvazione della
precitata normativa - le esigenze che legittimano
l’apposizione del contratto dovrebbero avere
necessariamente caratteristiche di eccezionalità, e,
pertanto, non dovrebbero essere connesse all’ordinaria
attività dell’impresa.
In tal senso, con riferimento alla
vecchia normativa dell’abrogata legge n. 230/1962, è
stato affermato: «Ai sensi dell'art. 1, comma 2, lett.
c, l. 18 aprile 1962 n. 230, l'apposizione di un termine
alla durata del contratto di lavoro subordinato è
consentita anche nel caso di un incremento della normale
ed ordinaria attività aziendale, sempreché tale
incremento sia correlato ad eventi eccezionali, di per
sé non ripetibili negli stessi tempi e con le stesse
modalità e che sconvolgano la pur adeguata
programmazione dell'imprenditore, per cui l'assunzione a
termine non è consentita allorché alla stessa si sia
fatto ricorso in previsione di un incremento
dell'attività produttiva ed al solo fine di ridurre il
rischio di impresa. Ciò vale anche quando l'assunzione
avvenga subito dopo ed in ragione dell'avvenuta
espansione dell'impresa, alla quale devono pertanto
rapportarsi le situazioni di straordinarietà ed
occasionalità, in generale riferibili, rispettivamente,
le prime al verificarsi di fatti eccedenti i limiti
della normalità e, le seconde, al verificarsi di
circostanze esorbitanti dalla normale programmazione. Ne
consegue che la programmata espansione o la normale
fluttuazione dell'impresa sul mercato non possiedono i
suddetti requisiti, solo in presenza dei quali il
contratto a termine diventa eccezionalmente legittimo» .
Invece, ferma restando la
dichiarazione di principio introdotta dall’articolo 1,
comma 39, della legge n. 247 del 24 dicembre 2007, al
comma 1 dell’art. 1 del d. lgs. n. 368/2001 - in base
alla quale “il contratto di lavoro subordinato è di
regola a tempo indeterminato” - in sede di conversione
del d.l. n. 112/2008 è stato previsto che le esigenze
“di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o
sostitutivo” possano essere riferite anche “alla
ordinaria attività del datore di lavoro”. In tal modo
sembrerebbe che il contratto a termine possa essere
stipulato anche a fronte di carenze strutturali e
permanenti nell’organico aziendale.
Quanto alla natura del contratto a
termine, per effetto del comma 39 della l. n. 247/07 -
secondo cui «il contratto di lavoro subordinato è di
regola a tempo indeterminato» - la giurisprudenza ha
correttamente riconosciuto il “carattere eccezionale”
del contratto di lavoro a tempo determinato, rispetto a
quello a tempo indeterminato che, pertanto, costituisce
la forma o fattispecie normale del rapporto di lavoro.
In tal senso: «Alla stregua del D. Lgs n. 368 del 2001,
interpretato in conformità alla normativa comunitaria da
cui trae origine, l’apposizione di un termine al
contratto di lavoro resta un’ipotesi eccezionale e,
pertanto, è giustificata solo se sussistono ragioni
oggettive, eziologicamente collegate ad ogni specifica
assunzione a termine» .
2. Forma del contratto
Dall’art.1, comma 2, del decreto n.
112/08 si evince che l'apposizione del termine è priva
di effetto se non risulta, direttamente o
indirettamente, da atto scritto nel quale sono
specificate le ragioni di cui al comma 1. La legge
precisa, quindi, che tanto l'apposizione del termine,
quanto la ragione che la giustifica devono risultare per
iscritto, pena l'inefficacia del termine stesso, a meno
che il termine non sia superiore a dodici giorni, nel
qual caso l'atto scritto non è necessario. Il contratto
deve essere, quindi, stipulato in forma scritta e deve
contenere l'indicazione delle ragioni sopra indicate; in
loro mancanza, il contratto si considera a tempo
indeterminato. Una copia dell'atto scritto deve essere
consegnata al lavoratore all'inizio del rapporto di
lavoro.
La giurisprudenza ha chiarito che
la causale del ricorso al contratto a termine deve
essere descritta in modo “puntuale e dettagliato”,
evitando locuzioni generiche e/o tautologiche, dal
momento che quest’ultime impedirebbero al Giudice di
operare il controllo sull’effettività della causale e
quindi sulla legittimità del ricorso al contratto di
lavoro a tempo determinato: «Le ragioni devono essere
chiaramente specificate, esplicitate in modo preciso e
sufficientemente dettagliato; non è sufficiente il mero
richiamo a formule di legge, a ipotesi alternative o
comunque indicazioni di carattere generico; deve essere
possibile per il giudice verificare il nesso di
causalità tra le ragioni addotte e la specifica
assunzione a tempo determinato: è a carico del datore di
lavoro l’onere di provare l’effettiva sussistenza delle
ragioni giustificative addotte» . Parte della
giurisprudenza ha sostenuto che sarebbe necessario
specificare anche il nesso causale fra le ragioni
aziendali che giustificano il ricorso al contratto di
lavoro a termine ed il singolo contratto di lavoro:
«Anche dopo l'entrata in vigore del D. Lgs. n. 368 del
2001, la causa che giustifica l'apposizione del termine
non può essere formulata in termini generici, ma devono
essere indicate le specifiche circostanze di fatto (come
ad esempio i motivi organizzativi, cronologici,
territoriali, tecnologici) per le quali si procede
all'assunzione, nonché il loro nesso causale con il
singolo contratto stipulato» . E’ stato infatti detto:
«La ragione sostitutiva, che giustifica ex art. 1 D.lgs.
368/01 l'assunzione di personale a tempo determinato,
deve essere specificamente indicata, in modo da
consentire l’individuazione del personale che l'assunto
a termine deve sostituire, a maggior ragione in una
struttura aziendale numerosa e territorialmente vasta
(Poste Italiane)» .
Relativamente al ricorso al
contratto a termine per sostituzione di lavoratore con
diritto alla conservazione del posto, è affermazione
pacifica quella per cui: «L'assunzione di un lavoratore
allo scopo di sostituire temporaneamente un dipendente
assente con diritto alla conservazione del posto di
lavoro, può avvenire con la fissazione di un termine
finale al rapporto, o anche con l'indicazione di un
termine per relationem con riferimento al ritorno in
servizio del lavoratore sostituito» . A tal riguardo va
segnalata l’irregolarità della prassi aziendale di
prolungamento di fatto della cessazione del contratto a
termine del sostituto (non al venir meno dell’originaria
causale: es. assenza per maternità della sostituita, ma)
al rientro della lavoratrice dopo la fruizione, in
aggiunta all’assenza per maternità, del periodo di ferie
da essa maturate nell’anno. La prassi è illegittima
giacché un simile prolungamento di fatto aggira la
necessitata instaurazione (eventualmente con lo stesso
lavoratore a termine) di un distinto contratto a termine
per autonoma causale (le ferie). Ne consegue che se tale
proroga è superiore ai 20 giorni (in caso di contratto a
termine inferiore a 6 mesi) o di 30 giorni (in caso di
contratto a termine superiore ai 6 mesi), dalla scadenza
dei predetti termini il contratto si trasforma a tempo
indeterminato, ai sensi dell’art. 5, d.lgs. n. 368/2001.
Altrettanto pacifica risulta
l’affermazione giurisprudenziale secondo cui: «Il
lavoratore assunto a termine (...) per la sostituzione
del lavoratore assente con diritto alla conservazione
del posto non deve essere necessariamente destinato alle
medesime mansioni e/o allo stesso posto del lavoratore
assente, atteso che la sostituzione ipotizzata dalla
norma va intesa nel senso più confacente alle esigenze
dell'impresa; pertanto non può essere disconosciuta
all'imprenditore - nell'esercizio del potere
autorganizzatorio - la facoltà di disporre (in
conseguenza dell'assenza di un dipendente)
l'utilizzazione del personale, incluso il lavoratore a
termine, mediante i più opportuni spostamenti interni,
con conseguente realizzazione di un insieme di
sostituzioni successive per “scorrimento a catena”,
sempre che vi sia una correlazione tra assenza ed
assunzione a termine, nel senso che la seconda deve
essere realmente determinata dalla necessità creatasi
nell'azienda per effetto della prima» .
In ordine alla natura delle
“ragioni” determinative della soluzione del ricorso al
contratto a termine, è stato detto in giurisprudenza,
che: «Le ragioni di cui all'art. 1 del D. Lgs. n.
368/2001 non possono essere dilatate a tal punto da
essere identificate con le preferenze insindacabili del
datore di lavoro. In tal modo la norma perderebbe
qualsiasi senso e comporterebbe la possibilità di una
scelta sostanzialmente arbitraria. Di "ragioni" si deve
trattare. E non di ragioni di mera convenienza
economica, ma di ragioni tecniche, produttive,
organizzative o sostitutive. Ma soprattutto si deve
trattare di ragioni che giustificano la scelta del
contratto a termine, altrimenti non consentita. Quindi
ragioni della assoggettabilità ad un termine del
contratto. Il che significa che il contratto deve
rispondere ad un'oggettiva esigenza (tecnica,
produttiva, organizzativa o sostitutiva) di temporaneità
del rapporto e non ad una scelta di politica aziendale
delle assunzioni e (conseguentemente) della gestione dei
rapporti di lavoro» .
3. Conseguenze derivanti dalla
scorretta indicazione della causale
Il d. lgs. n. 368/2001 non indica
le conseguenze derivanti dalla scorretta e/o carente e/o
insufficiente indicazione della causale del contratto di
lavoro a tempo determinato. L’orientamento prevalente
asserisce che – al ricorrere di tale mancanza - si
applica il principio generale per cui il contratto è
nullo per violazione di una norma imperativa ex art.
1418 c.c.. Ne consegue che: - il contratto rimane valido
ed efficace tra le parti e si applica la sanzione della
trasformazione del rapporto in contratto a tempo
indeterminato; - la nullità travolge solo la clausola
che prevede l’apposizione del termine; - il datore è
obbligato al ripristino del rapporto; - il datore è
obbligato al risarcimento del danno dalla data di
offerta della prestazione lavorativa. In senso conforme,
in giurisprudenza: «Ogni ipotesi di illegittima
apposizione del termine al contratto di lavoro, a
prescindere dal fatto che ciò dipenda da motivi formali
o dall'accertata insussistenza in concreto della
motivazione addotta, comporta la conversione a tempo
indeterminato del rapporto, e ciò - nel primo caso - in
conseguenza dell'espressa previsione dell'art. l, comma
2, d. lgs. 6 settembre 2001 n. 368, nel secondo caso ex
art. 1419, comma 2, c.c., con conseguente diritto del
lavoratore (in caso di recesso da parte del datore di
lavoro) al ripristino del rapporto e al risarcimento del
danno dalla data di offerta della prestazione
lavorativa» . Ancora nello stesso senso: «Una lettura
costituzionalmente orientata dell’art. 1 del d.lgs. n.
368/2001 impone di interpretare la norma nel senso che
dispone la conversione automatica del contratto di
lavoro a termine in contratto a tempo determinato in
qualunque ipotesi di invalidità della clausola
appositiva del termine, e ciò anche in conformità del
principio per cui il contratto di lavoro non viene
travolto dalle nullità sancite a tutela del lavoratore
dipendente perché la sua validità ed efficacia si
recupera mediante un effetto legale sostitutivo;
altrimenti, in caso di diversa interpretazione,
basterebbe al datore di lavoro stipulare un contratto
scritto indicando a giustificazione dell’apposizione del
termine ragioni palesemente insussistenti affinché la
nullità dell’intero contratto, invocabile dallo stesso
datore di lavoro, porterebbe ad inserire nell’alveo
dell’art. 2126 c.c. la prestazione di fatto resa dal
datore di lavoro, eludendo per tal modo le garanzie
sancite a favore del dipendente da norme inderogabili di
legge, a cominciare dalla garanzia della stabilità del
posto di lavoro» ; ed ancora: «In ipotesi di scadenza di
un contratto a termine illegittimamente stipulato e di
comunicazione al lavoratore della conseguente disdetta
non sono applicabili né l’art. 6 della l. n. 604/66 né
l’art. 18 St. Lav., ancorché la conversione del rapporto
in rapporto a tempo indeterminato dia ugualmente diritto
al lavoratore di riprendere il suo posto e di ottenere
il risarcimento del danno; conseguentemente, al
dipendente che cessi l’esecuzione della prestazione
lavorativa per attuazione di fatto del termine nullo non
spetta la retribuzione finché non provveda ad offrire la
prestazione stessa, determinando una situazione di mora
accipiendi del datore di lavoro» . Altresì in senso
conforme: «Posto che anche a seguito dell'emanazione del
d.lgs. n. 368 del 2001 l'apposizione del termine al
contratto di lavoro costituisce una deroga della regola
generale della durata indeterminata del rapporto,
l'omessa specificazione nel contratto delle ragioni di
carattere tecnico, produttivo, organizzativo e
sostitutivo che abbiano determinato l'apposizione del
termine comporta la nullità parziale del contratto e la
sostituzione della clausola nulla di apposizione del
termine con la regola generale di matrice legale della
durata indeterminata» . In senso contrario Trib. Roma 21
febbraio 2005 : « (...) mentre nella disciplina
precedentemente vigente era espressamente prevista la
conseguenza dell’illegittima apposizione del termine (il
contratto doveva in tal caso reputarsi a tempo
indeterminato, ai sensi dell’art. 1, legge n. 230 del
1962), nella disciplina attualmente vigente non è più
contenuta una disciplina del genere nel caso di mera
apposizione ingiustificata o vietata del termine. [...]
Tuttavia una significativa differenza rispetto al regime
previgente deriva dall’applicabilità della regola della
nullità parziale, secondo cui “la nullità di singole
clausole importa la nullità dell’intero contratto se
risulta che i contraenti non lo avrebbero concluso senza
quella parte del suo contenuto che è colpita da
nullità”(art. 1419 cod. civ.)».
4. Divieto di ricorso al contratto
a termine
Sussiste il divieto legale di
assunzioni a termine:
a) per la sostituzione di
lavoratori che esercitano il diritto di sciopero;
b) salva diversa disposizione degli
accordi sindacali, presso unità produttive nelle quali
si sia proceduto, entro i sei mesi precedenti, a
licenziamenti collettivi ai sensi degli articoli 4 e 24
della legge 23 luglio 1991 n. 223, che abbiano
riguardato lavoratori adibiti alle stesse mansioni cui
si riferisce il contratto di lavoro a tempo determinato,
salvo che tale contratto sia concluso per provvedere a
sostituzione di lavoratori assenti, ovvero sia concluso
ai sensi dell'articolo 8, comma 2, della legge 23 luglio
1991 n. 223, ovvero abbia una durata iniziale non
superiore a tre mesi;
c) presso unità produttive nelle
quali sia operante una sospensione dei rapporti o una
riduzione dell'orario, con diritto al trattamento di
integrazione salariale, che interessino lavoratori
adibiti alle mansioni cui si riferisce il contratto a
termine;
d) da parte delle imprese che non
abbiano effettuato la valutazione dei rischi ai sensi
dell'articolo 4 del d. lgs. 19 settembre 1994 n. 626, e
successive modificazioni.
5. Parità di trattamento
economico-normativo con il contratto a tempo
indeterminato
La norma fondamentale per la
disciplina del rapporto di lavoro a tempo determinato è
la cd. norma “antidiscriminatoria”, che stabilisce
parità di trattamento fra il lavoratore a termine ed il
lavoratore a tempo indeterminato. L’art. 6, d. lgs. n.
368/2001, prevede che al prestatore di lavoro con
contratto a tempo determinato spettano le ferie e la
gratifica natalizia o la tredicesima mensilità, il
trattamento di fine rapporto e ogni altro trattamento in
atto nell'impresa per i lavoratori con contratto a tempo
indeterminato comparabili, intendendosi per tali quelli
inquadrati nello stesso livello in forza dei criteri di
classificazione stabiliti dalla contrattazione
collettiva, ed in proporzione al periodo lavorativo
prestato, sempre che non sia obiettivamente
incompatibile con la natura del contratto a termine.
Nonostante le difficoltà di calcolo
e di erogazione, non possono quindi essere negati ai
lavoratori a termine neppure i premi di risultato.
L’unico limite a quanto finora affermato è rappresentato
dall’esclusione degli istituti di anzianità e dei
superminimi individuali, perché questi appaiono
oggettivamente incompatibili con il lavoro a tempo
determinato.
6. Durata e proroga
Il contratto di lavoro non può
avere una durata iniziale superiore ai 36 mesi.
Il termine finale del contratto può
essere prorogato, per una sola volta, quando il
contratto iniziale ha una durata inferiore a tre anni e
con il consenso del lavoratore. La proroga è ammessa
quando sussistono ragioni oggettive e si riferisce alla
stessa attività lavorativa per la quale era stato
stipulato il contratto iniziale. In tal caso, la durata
complessiva del rapporto di lavoro, data dalla
sommatoria fra durata iniziale e proroga, non può
superare i 3 anni.
7. Diritto di precedenza
Prima dell’entrata in vigore della
l. n. 133/2008, il lavoratore che aveva prestato
attività lavorativa a termine presso la stessa azienda
per un periodo superiore ai 6 mesi, aveva diritto di
precedenza nelle assunzioni a tempo indeterminato per
mansioni equivalenti, effettuate dal datore di lavoro
entro i 12 mesi successivi. Invece - per effetto
dell’art. 21, comma 3, della legge di cui sopra - è
stato ritoccato l’art. 5, comma 4 quater, del decreto
legislativo 6 settembre 2001 n. 368 (come modificato
dall'articolo 1, comma 40, della legge 24 dicembre 2007
n. 247) relativo al diritto di precedenza che scattava
al superamento dei sei mesi anche con più contratti
riferiti alla stessa mansione. Conseguentemente ora,
invece, il diritto di precedenza non è più assoluto in
quanto la sua disciplina viene demandata alla
contrattazione collettiva, anche territoriale e/o
aziendale che potrà prevedere anche differenti modalità
applicative.
8. Successione di contratti a
termine
Per effetto della l. n. 247 del 24
dicembre 2007 - che ha approvato le norme di
attuazione del Protocollo fra Governo e Parti sociali
del 23 luglio 2007 su “previdenza, lavoro e
competitività per l’equità e la crescita sostenibili e
ulteriori norme in materia di previdenza sociale” - la
successione di contratti a termine con lo stesso
lavoratore per lo svolgimento di “mansioni equivalenti”
non deve superare, tra proroghe e rinnovi (e
indipendentemente dai periodi di interruzione che
intercorrono tra un contratto e l'altro), il limite
massimo complessivo di 36 mesi. Superato questo termine
il contratto si considera a tempo indeterminato dal
momento del superamento del complessivo termine
“esterno” di 36 mesi, secondo le regole previste
dall’art. 5, comma 2, del d.lgs.. n. 368/01 (l’ipotesi
si aggiunge alle altre previste dal medesimo comma 2
citato, secondo cui, alla scadenza del termine del
contratto di lavoro, c’è un’ulteriore tolleranza di
20/30 giorni, a seconda della durata del contratto,
durante i quali deve essere corrisposta solo una
maggiorazione retributiva). Sono state fatte salve
diverse disposizioni contenute nella contrattazione
collettiva nazionale, territoriale ed aziendale.
Facoltà, quest’ultima, introdotta dal “ritocco” - ad
opera dell’art. 21 del d.l. n. 112/08 convertito con
modificazioni nella l. n. 133/2008 - dell’articolo 5,
comma 4 bis, della l. n. 247/2007 che prevedeva il tetto
massimo dei 36 mesi. Pertanto, in caso di successione
(per effetto di proroghe o rinnovi) di più contratti a
termine per lo svolgimento di “mansioni equivalenti”, la
contrattazione collettiva di categoria (nazionale,
provinciale e territoriale) può estendere il termine dei
36 mesi stabilendo così una diversa durata massima prima
che il contratto possa trasformarsi automaticamente a
tempo indeterminato.
Al fine dell’individuazione delle
“mansioni equivalenti” è intervenuta la circolare n.
13/2008 del Ministero del lavoro, asserendo che: «il
limite generale di durata massima in casi di
reiterazione di contratti a tempo determinato richiede
l’identità delle parti del rapporto di lavoro e
l’equivalenza delle mansioni. Secondo la giurisprudenza
prevalente l’equivalenza non deve essere intesa in
termini di mera corrispondenza del livello di
inquadramento contrattuale tra le mansioni svolte
precedentemente e quelle contemplate dal nuovo
contratto, ma occorre verificare i contenuti concreti
delle attività espletate: “L’equivalenza tra le nuove
mansioni e quelle precedenti deve essere intesa non solo
nel senso di pari valore professionale delle mansioni,
considerate nella loro oggettività, ma anche come
attitudine delle nuove mansioni a consentire la piena
utilizzazione o anche l’arricchimento del patrimonio
professionale dal lavoratore acquisito nella pregressa
fase del rapporto” (Cass. sez. un., 24 novembre 2006, n.
25033). La contrattazione collettiva ha peraltro il
potere di individuare la nozione di “equivalenza”
attraverso le c.d. clausole di fungibilità, volte a
consentire un impiego più flessibile del lavoratore,
almeno per “sopperire a contingenti esigenze aziendali
ovvero per consentire la valorizzazione della
“professionalità potenziale di tutti i lavoratori
inquadrati in quella qualifica, senza incorrere nella
sanzione della nullità comminata dal secondo comma della
citata disposizione [art. 2103 c.c.]».
9. Eccezioni al limite di durata
(la cd. deroga assistita)
Anche se complessivamente il
rapporto di lavoro ha superato i 36 mesi, un successivo
contratto a termine può essere concluso per una sola
volta, a condizione che la stipula avvenga presso la
Direzione Provinciale del Lavoro competente per
territorio con l'assistenza di un rappresentante
sindacale appartenente ad una delle OO.SS.
comparativamente più rappresentative a livello
nazionale.
In sede di conversione in legge del
d.l. n.112/2008 è stato stabilito che il limite dei 36
mesi limite può essere derogato dai contratti
collettivi, stipulati a livello nazionale, territoriale
o aziendale, con le organizzazioni sindacali
comparativamente più rappresentative a livello nazionale
(al riguardo ed esemplificativamente il Ccnl
metalmeccanici ha fissato in otto mesi tale durata
addizionale e il Ccnl alimentaristi l’ha stabilita in
dodici mesi).
Il limite dei 36 mesi non si
applica nei confronti delle attività stagionali. Inoltre
è sempre consentita l'assunzione a termine dei
dirigenti, purché la durata del contratto non sia
superiore a 5 anni. Casi particolari si rilevano inoltre
nel settore del trasporto aereo dove sono ammessi
contratti a termine di durata complessiva non superiore
a 6 mesi nei periodi compresi tra aprile e ottobre di
ogni anno, nonché contratti a termine di durata non
superiore a 4 mesi per periodi diversamente distribuiti.
10. Indennizzo per la violazione
delle norme in materia di apposizione e di proroga del
termine
In sede di conversione del d.l. n.
112/2008 – tramite l’art. 21, comma 1 bis, della l. n.
133/2008 - è stato addizionato al d.lgs. n. 368/2001,
l’art. 4 bis che ha disposto (limitatamente ai soli
giudizi in corso al 21.8.2008, data di entrata in vigore
della Legge di conversione del citato d.l. 112/2008, e
fatte salve le sentenze passate in giudicato), che in
caso di violazione delle disposizioni di cui agli
articoli 1, 2 e 4, il datore di lavoro è tenuto
unicamente ad indennizzare il prestatore di lavoro con
un'indennità di importo compreso tra un minimo di 2,5 ed
un massimo di sei mensilità dell'ultima retribuzione
globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati
nell'articolo 8 della legge 15 luglio 1966 n. 604, e
successive modificazioni.
A seguito di numerosissime
eccezioni di costituzionalità sollevate dalle Corti
d’appello del Paese, la Corte costituzionale, con
sentenza n. 214 dell’8 luglio 2009, in accoglimento
delle medesime, ha dichiarato la caducazione per
incostituzionalità della norma contestata, atteso che
colpiva discriminatoriamente solo coloro che avevano
avuto l’ardire ed il coraggio di adire la magistratura
prima della data della sua entrata in vigore del 21
agosto 2008, così statuendo: «Siffatta discriminazione è
priva di ragionevolezza, né è collegata alla necessità
di accompagnare il passaggio da un certo regime
normativo ad un altro. Infatti l’intervento del
legislatore non ha toccato la disciplina relativa alle
condizioni per l’apposizione del termine o per la
proroga dei contratti a tempo determinato, ma ha
semplicemente mutato le conseguenze della violazione
delle previgenti regole limitatamente ad un gruppo di
fattispecie selezionate in base alla circostanza, del
tutto accidentale, della pendenza di una lite
giudiziaria tra le parti del rapporto di lavoro». La
pratica conseguenza è stata quella del doversi
considerare abrogato l’art. 4 bis del d.lgs. n.
368/2001, cioè tanquam non esset.
Peraltro va detto che la
disposizione tesa ad una forfetizzazione risarcitoria
per i contratti a termine riscontrati illegittimi –
espunta dalla Corte costituzionale nella veste dell’art.
4 bis, di cui alla l. n. 133/2008, in quanto non
generalizzata per l’avvenire ma ristretta ai soli
giudizi anteriori alla vigenza della legge, ancora
pendenti – è stata reintrodotta nell’ordinamento tramite
il 5, 6 e 7 comma dell’art. 32 della successiva l. n.
183/2010 (di conversione del cd. Collegato lavoro) ed
estesa a tutti i giudizi pendenti e successivi
all’entrata in vigore della legge in questione,
risultando così formulata: «5. Nei casi di conversione
del contratto a tempo determinato, il giudice condanna
il datore di lavoro al risarcimento del lavoratore
stabilendo un'indennità onnicomprensiva nella misura
compresa tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12
mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto,
avuto riguardo ai criteri indicati nell'articolo 8 della
legge 15 luglio 1966, n. 604» (cioè dimensione
dell’impresa, anzianità di servizio risultante dalla
durata di fatto del rapporto di lavoro data dalla
sommatoria dei vari contratti a termine, ecc.).
La qualificazione “onnicomprensiva”
riferita all’indennità risarcitoria ha posto sin
dall’origine alcuni dubbi interpretativi: ci si è
chiesti infatti – prima di Corte cost. n. 3003/2011 che
ha eliminato il dubbio, come diremo in seguito - se
l’indennità fosse da considerarsi sostitutiva della
trasformazione a tempo indeterminato del rapporto a
termine illegittimo e dell’eventuale retribuzione
maturata dal lavoratore nel periodo intercorrente tra la
data di cessazione del rapporto e la data di
riammissione in servizio ovvero cumulativa della
conversione del rapporto di lavoro, cioè a dire
aggiuntiva rispetto sia alla trasformazione del
rapporto, sia al risarcimento del danno commisurato al
valore delle retribuzioni maturate dalla data di messa
in mora del datore di lavoro mediante offerta della
prestazione.
Stante l’aggettivo adoperato per
qualificare l’indennità come “onnicomprensiva”, è
stato correttamente ritenuto che la finalità del
legislatore fosse stata quello di porre un limite al
risarcimento posto a carico del datore di lavoro, nei
casi di conversione del contratto e per effetto delle
lungaggini del processo: con ciò portando a ritenere che
l’indennità dovesse considerarsi inclusiva di ogni
risarcimento spettante al lavoratore, rimanendo salva la
conversione del contratto a termine in contratto a tempo
indeterminato. Tale conclusione, peraltro, risultava
confermata dai lavori preparatori, dai quali si desumeva
che, in ordine all’interpretazione del comma 5 dell’art.
32, la previsione del risarcimento del danno si
aggiungeva e non sostituiva il ripristino del rapporto
di lavoro e che, quindi, «non vi è conflitto tra la
conversione a tempo indeterminato e quella di
definizione di risarcimento, anzi i due termini
coabitano».
In data 11 novembre 2011 è stata
depositata Corte cost. n. 303 la quale ha disatteso le
varie questioni di legittimità sollevate in ordine
all’art. 32, commi 5, 6 e 7, della legge 4 novembre
2010, n. 183.
Detta sentenza ha asserito, in
linea di principio, che: «In termini generali, la norma
scrutinata non si limita a forfetizzare il risarcimento
del danno dovuto al lavoratore illegittimamente assunto
a termine, ma, innanzitutto, assicura a quest’ultimo
l’instaurazione di un rapporto di lavoro a tempo
indeterminato. Difatti, l’indennità prevista dall’art.
32, commi 5 e 6, della legge n. 183 del 2010 va
chiaramente ad integrare la garanzia della conversione
del contratto di lavoro a termine in un contratto di
lavoro a tempo indeterminato. E la stabilizzazione del
rapporto è la protezione più intensa che possa essere
riconosciuta ad un lavoratore precario. Non a caso,
dall’esame dei lavori preparatori si desume che la
disposizione di cui all’art. 32, comma 5, dell’anzidetta
legge dev’essere correttamente letta come riferita alla
conversione del contratto a tempo determinato in
contratto a tempo indeterminato e che, conseguentemente,
la previsione della condanna al risarcimento del danno
in favore del lavoratore dev’essere intesa «come
aggiuntiva e non sostitutiva della suddetta conversione»
(ordine del giorno G/1167-B/7/1-11 accolto al Senato
della Repubblica innanzi alle commissioni I e XI riunite
nella seduta del 2 marzo 2010)».
Relativamente all’eccepita
incostituzionalità del comma 5, art. 32, l. n.183/2010 –
statuente la conversione a tempo indeterminato di un
contratto a termine invalido con l’aggiunta di una
indennità risarcitoria forfettizzata a copertura
dell’arco temporale tra la data di instaurazione del
contratto a termine e quello della sentenza che ne
stabilisce la conversione a tempo indeterminato - la
Consulta ne ha dichiarato la legittimità (confermando la
cumulabilità tra conversione e indennità risarcitoria
forfettizzata), asserendo che la normativa in questione
«…risulta, nell’insieme, adeguata a realizzare un
equilibrato componimento dei contrapposti interessi. Al
lavoratore garantisce la conversione del contratto di
lavoro a termine in un contratto di lavoro a tempo
indeterminato, unitamente ad un’indennità che gli è
dovuta sempre e comunque (cioè senza alcuna deduzione
dell’aliunde perceptum o percipiendum, legislativamente
non contemplata, ndr), senza necessità né dell’offerta
della prestazione, né di oneri probatori di sorta. Al
datore di lavoro, per altro verso, assicura la
predeterminazione del risarcimento del danno dovuto per
il periodo che intercorre dalla data d’interruzione del
rapporto fino a quella dell’accertamento giudiziale del
diritto del lavoratore al riconoscimento della durata
indeterminata di esso. Ma non oltre, pena la
vanificazione della statuizione giudiziale impositiva di
un rapporto di lavoro sine die» .
Parimenti legittimo è stato dalla
Consulta ritenuto il dimezzamento (ex 6 co., art. 32,
l. n. 183/2010) dell’indennità risarcitoria nel caso
in cui contratti ovvero accordi collettivi nazionali,
territoriali o aziendali - stipulati con le
organizzazioni sindacali comparativamente più
rappresentative sul piano nazionale - prevedano la
conversione dei contratti a termine illegittimi in
contratti a tempo indeterminato, in quanto il
dimezzamento è stato riconosciuto quale incentivo per
la definizione in sede sindacale del contenzioso
seriale sui contratti a termine.
11. Cessazione del rapporto
Una particolarità della disciplina
del lavoro a termine riguarda il licenziamento: il
lavoratore assunto a tempo determinato non può essere
licenziato prima della scadenza del termine se non per
“giusta causa”, cioè per un fatto talmente grave da non
consentire la prosecuzione, neppure provvisoria, del
rapporto di lavoro. Non è possibile, in altre parole, il
licenziamento per giustificato motivo, sia soggettivo
che oggettivo (ad esempio, per riduzione dell'attività
dell'impresa).
In tal senso, pacificamente: «Il
rapporto di lavoro a tempo determinato, al di fuori del
recesso per giusta causa ex art. 2119 c.c., non può
essere risolto anticipatamente per giustificato motivo
oggettivo ai sensi dell’art. 3 della l. n. 604/66, ma
solo se ricorrono le ipotesi di risoluzione del
contratto previste dagli art. 1453 ss. c.c. Ne consegue
che, qualora il datore di lavoro proceda ad una
riorganizzazione del proprio assetto produttivo, non può
avvalersi di tale fatto per risolvere in anticipo un
contratto di lavoro a tempo determinato» .
Il licenziamento intimato senza
giusta causa prima della scadenza del termine comporta
il diritto del lavoratore al risarcimento del danno,
pari a tutte le retribuzioni che sarebbero spettate al
lavoratore fino alla scadenza inizialmente prevista,
dedotto quanto eventualmente percepito dal lavoratore
lavorando presso un altro datore di lavoro nel periodo
considerato.
In tal senso, pacificamente, in
giurisprudenza: «Il dipendente a tempo determinato
illegittimamente licenziato in difetto di giusta causa
(non potendosi ritenere tale la situazione di transeunte
difficoltà economica del datore di lavoro) ha diritto
non alla reintegrazione nel posto di lavoro ma al
risarcimento del danno, che può legittimamente
quantificarsi, in via equitativa, sulla base delle
retribuzioni che gli sarebbero spettate fino alla
scadenza del termine; né da esso può essere
legittimamente dedotto, a titolo di "aliunde perceptum",
quanto dal lavoratore percepito a seguito di altra sua
occupazione, qualora risulti la non esclusività della
prestazione illegittimamente interrotta per volontà
unilaterale del datore di lavoro» .
Va tuttavia tenuto presente
l’orientamento consolidato per cui dalla illegittimità
del contratto a termine (trasformato giudizialmente a
tempo indeterminato) non discende il diritto
ininterrotto alle retribuzioni medio tempore maturate,
se il lavoratore non ha - per iscritto - notificato al
datore di lavoro la sua disponibilità alla impedita
prestazione. In tal senso: «Ove nell'ambito di una
controversia sulla sussistenza o meno di un rapporto di
lavoro a tempo determinato, si accerti la natura a tempo
indeterminato del rapporto stesso, da tale accertamento
non deriva automaticamente il diritto della ricorrente
alle retribuzioni relative al periodo successivo alla
scadenza del termine illegittimamente apposto, atteso
che tale diritto è sinallagmaticamente correlato alla
prestazione lavorativa. Ne consegue che al dipendente
che cessi l'esecuzione della prestazione lavorativa per
l'attuazione di fatto del termine nullo non spetta la
retribuzione finché non provveda ad offrire la
prestazione stessa, determinando una situazione di mora
accipiendi del datore di lavoro» . Confermativamente:
«Nei casi di illegittima apposizione del termine ad un
contratto di lavoro, il dipendente che cessi
l'esecuzione delle prestazioni alla scadenza del termine
previsto non ha diritto alla retribuzione finché non
provveda ad offrire le sue prestazioni lavorative,
determinando una situazione di mora accipiendi del
datore di lavoro; in base allo stesso principio si deve
escludere anche il diritto del lavoratore ad un
risarcimento del danno commisurato alle retribuzioni
perdute per il periodo successivo a detta scadenza,
posto che l'interruzione della funzionalità di fatto non
consegue ad un'iniziativa del datore di lavoro, il quale
non pone in essere un licenziamento anche se richiama
formalmente la scadenza del termine» . In senso
conforme: «Nel caso di trasformazione in unico rapporto
di lavoro a tempo indeterminato di più contratti a
termine succedutisi tra le stesse parti, il dipendente
che cessa l'esecuzione delle prestazioni alla scadenza
del termine previsto può ottenere il risarcimento del
danno subito a causa dell'impossibilità della
prestazione derivante dall'ingiustificato rifiuto del
datore di lavoro di riceverla - in linea generale in
misura corrispondente a quella della retribuzione -
soltanto qualora provveda a costituire in mora il datore
di lavoro ex art. 1217 c.c., non essendo applicabili in
via analogica le norme della l. n. 604/66 e l'art. 18,
l. n. 300/70 e non potendo neppure ritenersi che non
occorra la messa in mora, reputando, in contrasto con
gli art. 1206 e 1217 c.c., che l'offerta della
prestazione coincida con l'interesse all'esecuzione ed
alla controprestazione» .
12. Criteri di computo dei
lavoratori
L’art. 8, d.lgs. n. 368/2001,
prevede che ai fini di cui all’art. 35 della legge 20
maggio 1970, n. 300 (esercizio dell’attività sindacale),
i lavoratori con contratto a tempo determinato sono
computabili ove il contratto abbia durata superiore a
nove mesi.
13. Limiti quantitativi ed
esclusioni da tali limiti
In conformità al principio per cui
la fattispecie normale del rapporto di lavoro è quella a
tempo indeterminato, il legislatore ha previsto un
regime cautelativo nella utilizzazione dei contratti a
termine, affidando ai contratti collettivi nazionali il
compito di individuare i limiti quantitativi di
utilizzazione.
L'art. 1, comma 41, della legge n.
247/2007 è intervenuto sull'art. 10, commi 7 e 8, del
d.lgs. n. 368/2001, limitando ulteriormente le ipotesi
nelle quali è possibile assumere con contratto a termine
senza rispettare gli specifici limiti numerici fissati
dalla contrattazione collettiva.
A partire dal 1° gennaio 2008 è
stata, poi, ridisegnata l'area di esenzione dal rispetto
dei limiti quantitativi, consentendo la conclusione di
contratti a termine senza limiti, nelle seguenti ipotesi
tassativamente fissate dalla legge:
a) nella fase di avvio (cd. start
up) di una nuova attività per periodi che saranno
definiti dai contratti nazionali di lavoro anche in
misura non uniforme con riferimento ad aree geografiche
e/o comparti merceologici;
b) per ragioni di carattere
sostitutivo, o di stagionalità, ivi comprese le attività
già previste nell'elenco allegato al d.P.R. n. 1525/1963
e successive modificazioni. In tale ambito vanno
comprese tutte quelle ipotesi già individuate
dall'art.1, comma 1, lettera b) della legge n. 230/1962,
nonché quelle (come la sostituzione del lavoratore per
ferie) già oggetto di previsione da parte degli accordi
collettivi;
c) per specifici spettacoli ovvero
specifici programmi radiofonici o televisivi;
d) per le assunzioni effettuate a
conclusione di un periodo di tirocinio o stage,
finalizzato a facilitare l’ingresso dei giovani nel
mondo del lavoro. La disposizione sembra riferirsi al
“primo” contratto successivo al periodo formativo e
dovrebbe riguardare soltanto l’imprenditore presso il
quale si è svolta l’esperienza;
e) per i contratti stipulati con
lavoratori di età superiore ai cinquantacinque anni.
Tale previsione è finalizzata ad agevolare la
ricollocazione, per certi versi complicata, di soggetti
che, in ragione della loro età, sono ai margini del
mercato del lavoro;
f) per i contratti conclusi quando
l'assunzione abbia luogo per l'esecuzione di un'opera o
di un servizio definiti o predeterminati nel tempo
aventi carattere straordinario o occasionale. E’ questa
una ipotesi già prevista dalla l. n. 230/1962 e si
riferisce, secondo un indirizzo espresso dalle S.U.
della Cassazione «a quelle opere o servizi che
determinano un incremento dell’attività particolarmente
rilevante, in relazione ad eventi isolati ed
eccezionali, tali da non poter essere affrontati con la
normale struttura organizzativa e produttiva. Detta
norma non può essere invocata alfine di giustificare
assunzioni a tempo determinato per sopperire a
fluttuazioni di mercato ed incrementi della domanda
prevedibili e ricorrenti in determinati periodi
dell’anno per punte stagionali» . Come si vede, ci si
trova di fronte ad una ipotesi completamente diversa da
quella della stagionalità;
g) per le assunzioni non rientranti
nelle tipologie sopra menzionate, la cui durata,
comprensiva della proroga, non supera i sette mesi o il
periodo maggiore individuato con la contrattazione
collettiva la quale può, altresì, fissare limiti
temporali diversi a seconda delle aree geografiche
interessate. C’è da aggiungere una precisazione
contenuta al comma 8: l’esenzione quantitativa viene
meno se il contenuto del contratto è identico quello di
un rapporto precedente scaduto nei sei mesi antecedenti.
Cass. 17.12. 2008, n. 29470.
Trib. Milano, 13.1. 2003, in
Riv. crit. dir. lav., 2004, 78; conformi: Cass. 21.5.
2002 n. 7468; App. Milano 9.1. 2006; Trib. Firenze 5.2.
2004.
App. Milano, 9.12. 2003; in
senso conforme Trib. Milano 11.5. 2006 n. 1431; Trib.
Milano 24.12. 2005, in Orient. giur. lav., 2006,114;
Trib. Milano 16.10. 2006, inedita; Trib. Milano,
25.11.2004, in Riv. crit. dir. lav.,2005, 152.
Trib. Milano, 8.1. 2004, in
Dir. relaz. ind. 2006, 1, 146.
Trib.
Milano, 21.4.2004.
Cass. 7.8.
2003 n. 11921.
Cass. 30.7.2003, n. 11699.
App. Bari, 20.7.2005.
Trib. Monza, 18.1.2005, in Riv.
crit. dir. lav. 2005,152.
Trib. Genova, 14.12.2006, in
Banca Dati Lex 24, il Sole 24ore, 2007.
Trib. Bassano del Grappa,
19.4.2007, in Il Sole 24 Ore, n. 38, settembre 2007.
Cass. 21.5.
2008, n. 12985, in Foro it. 2008, 12, 3569.
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