Avv. Paolo Nesta


Palazzo Giustizia  Roma


Palazzo Giustizia Milano

Sede di Roma: C.so Vittorio Emanuele II,  252   00186 – Roma
Tel. (+39) 06.6864694 – 06.6833101 Fax (+39) 06.6838993
Sede di Milano:  Via Pattari,  6   20122 - Milano 
Tel. (+39) 02.36556452 – 02.36556453  Fax (+ 39) 02.36556454 

 

DISCUTENDO ‘I SEGNI DELLA MORTE E LA QUESTIONE DEI TRAPIANTI’ DI PAOLO BECCHI-Valeria Marzocco- www.i-lex.it

 

Home page

Note legali e privacy

Dove siamo

Profilo e attività

Avvocati dello Studio

Contatti

Cassa di Previdenza e deontologia forense

Notizie di cultura e di utilità varie

 

 

1.

“L’interesse del giurista per le questioni che si legano alla fine della

vita umana, è un interesse marginale, episodico, spesso elusivo”. La

celebre provocazione con la quale Pietro Rescigno sceglieva nel 1982 di

aprire il suo lavoro su La fine della vita umana si ritrova a fare i conti, a

distanza di trent’anni, con un’attenzione progressivamente accelerata

che il giurista riserva al fatto giuridico della cessazione della vita

umana1.

Non vi è dubbio che un primo fattore, probabilmente decisivo, di

questa progressione di studi sia rintracciabile nella trama evolutiva che

ha investito i confini e lo statuto concettuale della morte. La

rappresentazione medica della condizione del morire nei termini di un

passaggio graduale e non istantaneo dalla vita alla morte – la morte

come processo più ancora che quale evento – si è venuta nel tempo ad

articolare in uno spazio che, grazie soprattutto alle conquiste delle

tecniche rianimatorie, ha finito per incidere in profondità sulla linea di

tensione da sempre iscritta tra realtà naturale e realtà giuridica della

morte. L’instaurazione di un regime normalizzato di “prolungamento

terapeutico” della vita se, concettualmente, apre uno spazio importante

di riflessione sui confini tra vita biologica e vita artificiale, affida proprio

al giurista un compito difficile: quello, come aveva avvertito già Angelo

Falzea, di dar conto di quelle “situazioni giuridiche che fanno capo al

soggetto in prolungamento terapeutico di vita”, situazioni che avrebbero

formato, “un capitolo della giurisprudenza [...] tutto da elaborare”2.

Di certo è interessante che nel complesso degli interrogativi aperti al

diritto dal progresso delle scienze biomediche, sia in fondo la stessa

Ricercatore confermato, Università degli Studi di Napoli Federico II.

1 Per l’ascrizione della morte alla categoria dei fatti giuridici naturali, si

cfr. per tutti, SANTORO-PASSARELLI, Dottrine generali del diritto civile, Napoli,

1973 p. 106.

2 A. FALZEA, I fatti giuridici della vita materiale, in Id., Ricerche di teoria

generale del diritto e di dogmatica giuridica II, Dogmatica giuridica, Milano,

1997, p. 407.

Discutendo ‘I segni della morte e la questione dei trapianti’ di Paolo Becchi

i-lex, Novembre ii 2011, numero 12

impostazione dell’approccio teorico-giuridico al ‘problema’ della morte,

fermata intorno alla necessità di tenere distinto il piano del concetto da

quello della determinazione dei criteri per il suo accertamento, ad

apparire non più decisiva3.

Di ciò è rappresentativo il rinnovato interesse che a più livelli

dell’indagine si è rivolto a ripensare lo standard giuridico della morte

cerebrale. La crisi della validità concettuale di criteri meramente

neurologici per l’accertamento della morta, restituita dallo stato di

avanzamento delle conoscenze scientifiche, è da tempo un fatto. La

pubblicazione, nel 2008 di Controversies in the Determination of Death

per opera del President’s Council on Bioethics, cui è corrisposta in Italia

la stesura da parte del Comitato Nazionale per la Bioetica di un

documento che nel 2010 ritorna, sostanzialmente ripensandole, sulle

posizioni assunte nel precedente parere del 1991, può essere indicata

come il punto d’avvio di una discussione aspra e non semplice, dentro la

quale il ripensamento della validità concettuale della morte cerebrale

difficilmente si fa tenere disgiunto dalle resistenze etiche che sono intese

a scongiurare soprattutto le ricadute in termini normativi prevedibili

quanto alla disciplina dei trapianti4.

Non poche sono le ragioni – come si sottolinea in più occasioni nelle

pagine degli scritti ospitati in questo numero di ‘i-lex’ – per ritenere che

la stagione ormai aperta del dibattito sul tema, debba ai lavori di Paolo

Becchi gran parte del suo vigore. In questo senso, la scelta di tenere un

suo lavoro (I segni della morte e la questione dei trapianti, ‘Humanitas’

65, 3/2010, pp. 486-5015) quale traccia principale della discussione è

stata non eludibile, per la sua capacità di sollecitare il pensiero critico di

tutti gli autori che, nella loro diversa competenza, sono intervenuti a

costruire un panorama davvero stimolante di questioni6.

3 F. MANTOVANI, v. Morte (generalità),in: Enciclopedia del diritto, vol.

XXVII, Milano, 1977, p. 83.

4 I due pareri del CNB sul tema sono Definizione e accertamento della

morte dell’uomo (1991) e I criteri di accertamento della morte (2010): cfr.

http://www.governo.it/bioetica/pareri.html

5 Per la pubblicazione del saggio di Becchi, si ringrazia la Casa editrice

Morcelliana per averla autorizzata.

6 Si cfr. su tutti, P. BECCHI, Morte cerebrale e trapianto dì organi. Una

questione di etica giuridica, Brescia, 2008. La posizione di Becchi sul parere

del CNB del 2010 è rinvenibile in: P. BECCHI, I criteri di accertamento della

morte. Per una critica del recente documento del CNB, in: Bioetica, 1,

2011, pp. 54-74.

Valeria Marzocco

www.i-lex.it iii

2.

Il livello di una interconnessione innanzitutto logica cui il discorso

sulla ridefinizione del criterio della morte cerebrale conduce tra

'concetto' e 'accertamento' della morte è evidente se, come scrive

Becchi, è necessario innanzitutto intendersi sui due parametri principali

attorno ai quali dovrebbe concentrarsi il dibattito sul tema:

“l’attendibilità delle nuove conoscenze scientifiche che hanno messo in

crisi la diagnosi della morte sulla base di standard neurologici”, ma

anche le conseguenze che questa scelta possa avere sulla disciplina dei

trapianti, disciplina da sempre “retta sull’equivalenza tra morte

cerebrale e morte di fatto”7. Se la morte cerebrale non è più lo standard

condiviso dalla stessa comunità scientifica, crollerebbe allora per prima

una pretesa, quella di fermare a livello neurologico il momento della

morte e la possibilità dell’espianto.

Sotto il primo profilo, per Becchi, a più di quarant’anni dal Documento

di Harvard, vi sarebbe la necessità di prender atto della “confutazione

empirica dell’idea che un cervello sia la 'conditio sine qua non' per la vita

di un organismo” e accettare la sfida di riaprire il dibattito a muovere

dalla non ulteriore ipotizzabilità della tesi per cui la morte cerebrale

equivale alla “morte reale”8. Non manca a Paolo Becchi il coraggio di

trarre da ciò quella che gli appare quale unica e sola ipotesi ragionevole,

“superare non solo la definizione di morte cerebrale totale (quella fissata

nel Protocollo di Harvard), ma qualsiasi definizione di morte in termini

neurologici”, per ritornare ad una definizione basata “sull’arresto della

respirazione e della circolazione sanguigna”9. Un ‘ritorno al passato’, per

il quale le ricadute in termini normativi quanto alla disciplina dei

trapianti d’organo non stentano a farsi riconoscere. Tertium non datur: o

essi sarebbero leciti, laddove si scegliesse di rimanere ancorati ad un

criterio che divide ormai irrimediabilmente la comunità scientifica stessa,

oppure non più giustificabili.

Da questo momento in avanti il ragionamento di Becchi procede con il

conforto della legge di Hume. L’impostazione della tesi è in buona parte

giocata sul piano dell’indebito intreccio tra fatto e valore cui darebbe

origine ogni discorso che si ripropone di collegare la sostenibilità

oggettiva dei criteri scientifici di accertamento della morte alla liceità

7 ID., I segni della morte e la questione dei trapianti, in: Humanitas 65,

3, 2010, p. 487.

8 Ivi, p. 490-491.

9 Ivi, p. 493

Discutendo ‘I segni della morte e la questione dei trapianti’ di Paolo Becchi

i-lex, Novembre iv 2011, numero 12

morale o giuridica della pratica dei trapianti che fossero effettuati in

quelle condizioni cliniche. L’idea è che sia proprio questo intreccio a far

traslitterare indebitamente i termini del dibattito sulla morte cerebrale,

confondendo il 'fatto' della sua ancora sostenibile validità concettuale,

con il 'valore' della dimensione della responsabilità convocata in quello

spazio indefinito tra la vita e la morte. In questo senso, tenere distinto il

fatto – la morte e il suo accertamento – dal valore – la scelta, etica,

quanto a cosa si possa essere autorizzati a fare con un paziente che

versa in una condizione clinica riferibile alla morte cerebrale –

significherebbe due cose, tra loro correlate: affidare al consenso del

paziente l’espressione di una chiara, inequivocabile, anticipata, volontà

autorizzatoria quanto all’espianto; inquadrare, grazie al rinvio alla

dottrina del duplice effetto, nei termini di eutanasia attiva indiretta,

l’intervento del medico in quella circostanza. Il consenso, in una zona

grigia, e irreversibile, tra la vita e la morte.

Intorno alla tesi principale del discorso di Becchi (abbandonare il

criterio neurologico della morte) e ai diversi piani entro cui essa si

struttura, dalla proposta di un ritorno al criterio cardio-polmonare, alla

elezione della dimensione etica quale momento essenziale, si articolano i

lavori con i quali gli autori ospitati in questo numero di ‘i-lex’ hanno

voluto prender parte alla discussione.

3.

Il discorso sulla morte cerebrale, come si è già evidenziato, conduce a

interrogarsi sulla distanza concettuale tra la 'morte' e il 'morire',

convocata con forza nell’evocazione stessa (anche in Becchi) di una zona

grigia entro la quale si aprirebbe uno spazio indefinito tra la vita e la

morte. Ciò impone alcune precisazioni. Se è vero che molti degli

interrogativi che si concentrano, oggi, sui criteri di accertamento della

morte cerebrale si fanno rappresentare come la radicalizzazione di

quella differenza, tra la morte e il morire, è altrettanto indubitabile che,

concettualmente, pensare alla morte significhi pensarla 'al singolare',

potendo declinarsi il morire sempre e solo come processo individuale (lo

sottolinea Settimio Monteverde). In questa prospettiva sarebbe

necessario, proprio fermandosi ad esigenze di tipo concettuale, misurare

con cautela la portata e le conseguenze che possano trarsi dallo stato di

ripensamento che investe il criterio della morte cerebrale. L’auspicabile

ridimensionamento di una prospettiva ‘cerebrocentrica’ che

contraddistingue ancora l’approccio vigente, svalutando “de facto la

dimensione fisica e fenomenologica del paziente dichiarato morto

Valeria Marzocco

www.i-lex.it v

tramite criteri neurologici”, non va tradotta in una determinazione

stipulativa della vita 'a contrario', ricavabile dalla somma delle attività

cerebrali in effetti rilevate nella condizione di morte cerebrale (così,

efficacemente, ancora Settimio Monteverde).

Per altro verso, non va pretermessa la dimensione di necessità entro

cui ogni definizione stipulativa della morte si va a collocare. La

determinazione di un limite che faccia da discriminante in una

condizione di irreversibilità come quella della morte cerebrale rivela la

sua indispensabilità non solo nella prospettiva di scongiurare

l’accanimento terapeutico, ma anche in quella della individuazione del

momento più idoneo per l’espianto degli organi in vista del trapianto. Si

dispongono così in campo quegli argomenti riconosciuti come decisivi

per i sostenitori della morte cerebrale, in gran parte orientati dalla

necessità di fugare le conseguenze sulla disciplina dei trapianti che la

revisione del criterio neurologico di accertamento della morte andrebbe

ponendo (così Becchi, ma anche Luciano Sesta). Ma naturalmente,

l’argomento per cui si tratterebbe, in entrambi i casi, di requisiti morali

necessari e sufficienti per la definizione dei criteri di accertamento della

morte (lo rileva Monteverde) si espone con immediatezza e non

difficilmente all’obiezione di Becchi sul denunziato intreccio tra fatti e

valori.

Venendo alla relazione funzionalistica tra la definizione dello standard

neurologico della morte e la disciplina giuridica del trapianto d’organi, è

vero che negli anni Settanta, in Italia, l’esigenza di definire

giuridicamente i criteri di accertamento della morte umana si sia rivelata

del tutto strumentale a favorire il suo riconoscimento precoce e per

questo idoneo all’espianto. E tuttavia, a partire dal 1993, l’approccio

normativo alla questione si modifica profondamente, per una precisa

opzione riconoscibile nella volontà di giungere ad un concetto

giuridicamente vincolante della morte (lo rileva Fabio Cembrani). La

morte – per la quale il legislatore fornisce un’unica definizione, che

ritrova corrispondenza nelle plurali condizioni per il suo accertamento10

– trasferita così “dentro i rigidi schemi della tassonomia giuridica”, si

strutturerebbe entro una disciplina organica ed emancipata da una sua

10 La pluralità dei metodi di accertamento della morte, collegata alle

“diverse finalità della constatazione della morte” non esclude che vada

considerato “che il concetto di morte sia e resti unico”: F. MANTOVANI, v.

Morte (generalità), cit., p. 97.

Discutendo ‘I segni della morte e la questione dei trapianti’ di Paolo Becchi

i-lex, Novembre vi 2011, numero 12

immediata riferibilità alla disciplina del trapianto d’organi11. È in questo

quadro che compare la definizione della morte quale “cessazione

irreversibile di tutte le funzioni dell’encefalo”; ed è a partire da questo

momento, per Cembrani – il cui lavoro dimostra di esser particolarmente

sensibile a temi e usi linguistici del discorso biopolitico contemporaneo –

che il legislatore avrebbe spinto troppo oltre la sua azione. Scegliendo di

irrigidire in un concetto dai confini giuridicamente certi la cessazione

della vita umana, nell’orizzonte di “superare le ampie criticità” che si

pongono “tra constatazione della morte e accertamento della sua

realtà”, si sarebbe prodotto il solo risultato di imbrigliare in “coordinate

spazio temporali” definite la nudità del suo processo naturale. In questa

prospettiva, si impone la necessità di intendersi adeguatamente sulla

distinzione tra la morte, identificata con la 'cessazione irreversibile di

tutte le funzioni dell’encefalo', e le sue condizioni di accertamento. La

condivisibile esigenza di revisione dei criteri deve in questo senso

rinunciare alla pretesa di condurre e trattenere nel diritto la morte come

concetto (lo rileva ancora Cembrani), pena il cedimento verso gli effetti

paradossali di una tensione di giuridicizzazione della vita che affida alla

scienza la risoluzione del suo evento secondo modalità pretese come

non falsificabili. La rinuncia ad impostare il discorso su di una

dimensione ontologica della morte (con Luciano Sesta) avvicina però,

più di quanto sembri, il discorso di chi (come nel caso di Fabio

Cembrani) bandisce come necessariamente violenta ogni

giuridicizzazione dei fatti della vita, con quella di quanti (come Becchi)

alla stessa espunzione della morte dal diritto giungono, seppure

attraverso una via diversa. In questo senso il sia pur imponente fuoco

critico della obiezioni che si fanno muovere sul piano delle formule –

Cembrani rileva che la stessa ‘morte cerebrale’ non sarebbe “mai

entrata a far parte della sia pur complessa tassonomia giuridica”, ma sia

piuttosto riferibile ad un lessico in uso in parte della letteratura medicolegale

degli anni Ottanta; che lo stesso utilizzo di attribuzioni

connotative della morte riveli un orientamento assiologico, suggerendo

che l’individuo che versi in tali condizioni, non sia del tutto morto – si

ritrova a convergere su di un punto di ricaduta che viene anche da

Becchi indicato nel ruolo dell’autonoma scelta riferibile alla volontà

individuale. L’idea per la quale sulla morte cerebrale vi sia “la motivata

ragione di pensare che la scintilla che ha acceso il dibattito italiano sia

venuta in primo luogo dalle pubblicazioni di Becchi” (come scrive

11 Si esprime in questo senso anche M.C. VENUTI, Gli atti di disposizione

del corpo, Milano, 2002.

Valeria Marzocco

www.i-lex.it vii

Luciano Sesta) ritrova qui una delle sue principali ragioni, se è vero che

appare corretto leggere il nucleo più significativo dei suoi argomenti

nella rinuncia alla necessità di trovare una nuova dimensione stipulativa

della morte, in favore della dimensione della responsabilità di una

decisione di tipo etico che il processo del morire è capace di imporre.

Il problema non sarebbe allora il diritto, quanto piuttosto l’autonomia

della persona in materia di fine della vita. È in questo orizzonte che si

muove il lavoro di Federico Gustavo Pizzetti e Amedeo Santosuosso12.

Sia, in generale, per gli sviluppi delle scienze biomediche che, in special

modo, per le sempre maggiori conoscenze sull’attività e la funzionalità

cerebrale al giurista, dinanzi al fatto della morte, si aprirebbe un inedito

spazio del 'quomodo' entro il quale ha senso interrogarsi sul 'chi' della

decisione. In questo senso, come rilevano Santosuosso e Pizzetti, è

proprio assumendo il fatto, ovvero la condizione di incertezza che

circonda scientificamente i canoni di accertamento della morte, che si fa

chiara quale sia autenticamente la questione giuridica, non altrimenti

indicabile se non nella spazio di una libertà di autodeterminazione

individuale che si iscrive a partire, o nella rinuncia, da parte del diritto

ad aver ragione di quella incertezza. È interessante allora come venga

significativamente sottolineato che la questione della determinazione di

standard legali cui ancorare la definizione giuridica della morte si faccia

leggere anche dentro la dicotomia pubblico/privato e, segnatamente, del

'chi' sia legittimato a scegliere in favore dell’uno o dell’altro dei criteri

possibili e incerti.

In questo senso non è irrilevante il fatto che in Italia, con la legge n.

578/1993, si sia accolto e definito un criterio valevole per tutti i

consociati – quella della morte cerebrale totale –, senza prevedere

alcuna possibilità di deroga in favore di altri e differenti criteri da

adottarsi sulla base di specifiche preferenze individuali. Su questo punto

nevralgico, Santosuosso e Pizzetti richiamano non banalmente

l’attenzione su esperienze giuridiche che si fanno portatrici di un diverso

approccio, come per il caso dello Stato del New Jersey e del Giappone.

Nelle distanze che essi non mancano di rilevare tra le due opzioni

legislative, sta indicata la preminenza di diritto all’autodeterminazione

del paziente cui è affidato il compito autentico di ‘definire i confini della

propria morte’.

12 A. SANTOSUOSSO, Diritto, scienza, nuove tecnologie, Padova, 2011;

F.G. PIZZETTI, Alle frontiere della vita. Il testamento biologico tra valori

costituzionali e promozione della persona, Milano, 2008.

Discutendo ‘I segni della morte e la questione dei trapianti’ di Paolo Becchi

i-lex, Novembre viii 2011, numero 12

Dinanzi a questi argomenti, che muovono tutti dall’assumere come un

fatto la crisi del criterio neurologico di accertamento della morte,

facendone una ragione per affidare alla persona la definizione di uno

spazio fondamentale di esercizio del diritto ad autodeterminarsi, è

ragionevole ritenere, come fa Luciano Sesta, che sia soprattutto il grado

di approvazione sociale raggiunto dallo standard della morte cerebrale

ad aver relegato alla condizione di un ‘dibattito impedito’ il tono della

discussione dopo Harvard. L’accelerazione impressa alla questione dal

documento del President’s Council on Bioethics intitolato Controversies

in the Determination of Death e, in Italia, dal parere del 2010 del

Comitato Nazionale per la Bioetica segnerebbero in questo senso una

svolta, che autorizza per la prima volta ad affrontare, consapevoli delle

sue insidie, la questione della intrinseca plausibilità di questo standard.

In Becchi – che con Defanti ha il merito di aver contribuito in maniera

decisiva all’apertura di un discorso che incontra difficile da riscontrare

per altri temi del dibattito bioetico (come nota ancora Luciano Sesta) –,

la questione centrale e più interessante, starebbe in un certo a valle

dell’attacco frontale mosso alla plausibilità scientifica ormai dubbia dei

criteri meramente neurologici di accertamento della morte. E tuttavia,

“nel cuore di un discorso impegnato a fondare moralmente il prelievo

degli organi” non si può dire che la prospettiva della mediazione della

scienza sia del tutto abbandonata. Sesta nota in questo senso molto

opportunamente l’apparente intima contraddittorietà di alcuni passaggi

del discorso di Becchi: “’insistere’ su di un aspetto ‘clinico’, in effetti,

lascia intendere quanto qui sia inevitabile la mediazione della scienza”, e

ciò che più conta, continua Sesta, “della dimensione ontologica, e non

soltanto etica della dimensione della morte”.

La discussione, come si intuisce, è tutt’altro che chiusa. La vivacità

con la quale essa si è venuta rappresentando deve le sue fortune alla

disponibilità degli autori invitati, e alla loro competenza e capacità di

pensiero. Ma se ogni impresa è sempre, ed anche, di chi la promuove, lo

spazio reso possibile affinché questo confronto prendesse corpo deve

alla Rivista e alla volontà del suo Direttore, Francesco Romeo, la sua

condizione preziosa e indispensabile.

Valeria Marzocco

 

Legislazione e normativa nazionale

Dottrina e sentenze

Consiglio Ordine Roma: informazioni

Rassegna stampa del giorno

Articoli, comunicati e notizie

Interventi, pareri e commenti degli Avvocati

Formulario di atti e modulistica

Informazioni di contenuto legale

Utilità per attività legale

Links a siti avvocatura e siti giuridici