1.
“L’interesse del giurista per le
questioni che si legano alla fine della
vita umana, è un interesse
marginale, episodico, spesso elusivo”. La
celebre provocazione con la quale
Pietro Rescigno sceglieva nel 1982 di
aprire il suo lavoro su La fine
della vita umana si ritrova a fare i conti, a
distanza di trent’anni, con
un’attenzione progressivamente accelerata
che il giurista riserva al fatto
giuridico della cessazione della vita
umana1.
Non vi è dubbio che un primo
fattore, probabilmente decisivo, di
questa progressione di studi sia
rintracciabile nella trama evolutiva che
ha investito i confini e lo statuto
concettuale della morte. La
rappresentazione medica della
condizione del morire nei termini di un
passaggio graduale e non istantaneo
dalla vita alla morte – la morte
come processo più ancora che quale
evento – si è venuta nel tempo ad
articolare in uno spazio che,
grazie soprattutto alle conquiste delle
tecniche rianimatorie, ha finito
per incidere in profondità sulla linea di
tensione da sempre iscritta tra
realtà naturale e realtà giuridica della
morte. L’instaurazione di un regime
normalizzato di “prolungamento
terapeutico” della vita se,
concettualmente, apre uno spazio importante
di riflessione sui confini tra vita
biologica e vita artificiale, affida proprio
al giurista un compito difficile:
quello, come aveva avvertito già Angelo
Falzea, di dar conto di quelle
“situazioni giuridiche che fanno capo al
soggetto in prolungamento
terapeutico di vita”, situazioni che avrebbero
formato, “un capitolo della
giurisprudenza [...] tutto da elaborare”2.
Di certo è interessante che nel
complesso degli interrogativi aperti al
diritto dal progresso delle scienze
biomediche, sia in fondo la stessa
∗
Ricercatore confermato, Università degli Studi di Napoli
Federico II.
1 Per l’ascrizione della morte alla
categoria dei fatti giuridici naturali, si
cfr. per tutti, SANTORO-PASSARELLI,
Dottrine generali del diritto civile, Napoli,
1973 p. 106.
2 A. FALZEA, I fatti giuridici
della vita materiale, in Id., Ricerche di teoria
generale del diritto e di dogmatica
giuridica II, Dogmatica giuridica, Milano,
1997, p. 407.
Discutendo ‘I segni della morte e
la questione dei trapianti’ di Paolo Becchi
i-lex, Novembre ii 2011, numero 12
impostazione dell’approccio
teorico-giuridico al ‘problema’ della morte,
fermata intorno alla necessità di
tenere distinto il piano del concetto da
quello della determinazione dei
criteri per il suo accertamento, ad
apparire non più decisiva3.
Di ciò è rappresentativo il
rinnovato interesse che a più livelli
dell’indagine si è rivolto a
ripensare lo standard giuridico della morte
cerebrale. La crisi della validità
concettuale di criteri meramente
neurologici per l’accertamento
della morta, restituita dallo stato di
avanzamento delle conoscenze
scientifiche, è da tempo un fatto. La
pubblicazione, nel 2008 di
Controversies in the Determination of Death
per opera del President’s Council
on Bioethics, cui è corrisposta in Italia
la stesura da parte del Comitato
Nazionale per la Bioetica di un
documento che nel 2010 ritorna,
sostanzialmente ripensandole, sulle
posizioni assunte nel precedente
parere del 1991, può essere indicata
come il punto d’avvio di una
discussione aspra e non semplice, dentro la
quale il ripensamento della
validità concettuale della morte cerebrale
difficilmente si fa tenere
disgiunto dalle resistenze etiche che sono intese
a scongiurare soprattutto le
ricadute in termini normativi prevedibili
quanto alla disciplina dei
trapianti4.
Non poche sono le ragioni – come si
sottolinea in più occasioni nelle
pagine degli scritti ospitati in
questo numero di ‘i-lex’ – per ritenere che
la stagione ormai aperta del
dibattito sul tema, debba ai lavori di Paolo
Becchi gran parte del suo vigore.
In questo senso, la scelta di tenere un
suo lavoro (I segni della morte e
la questione dei trapianti, ‘Humanitas’
65, 3/2010, pp. 486-5015) quale
traccia principale della discussione è
stata non eludibile, per la sua
capacità di sollecitare il pensiero critico di
tutti gli autori che, nella loro
diversa competenza, sono intervenuti a
costruire un panorama davvero
stimolante di questioni6.
3 F. MANTOVANI, v. Morte
(generalità),in: Enciclopedia del diritto, vol.
XXVII, Milano, 1977, p. 83.
4 I due pareri del CNB sul tema
sono Definizione e accertamento della
morte dell’uomo (1991) e I criteri
di accertamento della morte (2010): cfr.
http://www.governo.it/bioetica/pareri.html
5 Per la pubblicazione del saggio
di Becchi, si ringrazia la Casa editrice
Morcelliana per averla autorizzata.
6 Si cfr. su tutti, P. BECCHI,
Morte cerebrale e trapianto dì organi. Una
questione di etica giuridica,
Brescia, 2008. La posizione di Becchi sul parere
del CNB del 2010 è rinvenibile in:
P. BECCHI, I criteri di accertamento della
morte. Per una critica del recente
documento del CNB, in: Bioetica, 1,
2011, pp. 54-74.
Valeria Marzocco
www.i-lex.it iii
2.
Il livello di una interconnessione
innanzitutto logica cui il discorso
sulla ridefinizione del criterio
della morte cerebrale conduce tra
'concetto' e 'accertamento' della
morte è evidente se, come scrive
Becchi, è necessario innanzitutto
intendersi sui due parametri principali
attorno ai quali dovrebbe
concentrarsi il dibattito sul tema:
“l’attendibilità delle nuove
conoscenze scientifiche che hanno messo in
crisi la diagnosi della morte sulla
base di standard neurologici”, ma
anche le conseguenze che questa
scelta possa avere sulla disciplina dei
trapianti, disciplina da sempre
“retta sull’equivalenza tra morte
cerebrale e morte di fatto”7. Se la
morte cerebrale non è più lo standard
condiviso dalla stessa comunità
scientifica, crollerebbe allora per prima
una pretesa, quella di fermare a
livello neurologico il momento della
morte e la possibilità
dell’espianto.
Sotto il primo profilo, per Becchi,
a più di quarant’anni dal Documento
di Harvard, vi sarebbe la necessità
di prender atto della “confutazione
empirica dell’idea che un cervello
sia la 'conditio sine qua non' per la vita
di un organismo” e accettare la
sfida di riaprire il dibattito a muovere
dalla non ulteriore ipotizzabilità
della tesi per cui la morte cerebrale
equivale alla “morte reale”8. Non
manca a Paolo Becchi il coraggio di
trarre da ciò quella che gli appare
quale unica e sola ipotesi ragionevole,
“superare non solo la definizione
di morte cerebrale totale (quella fissata
nel Protocollo di Harvard), ma
qualsiasi definizione di morte in termini
neurologici”, per ritornare ad una
definizione basata “sull’arresto della
respirazione e della circolazione
sanguigna”9. Un ‘ritorno al passato’, per
il quale le ricadute in termini
normativi quanto alla disciplina dei
trapianti d’organo non stentano a
farsi riconoscere. Tertium non datur: o
essi sarebbero leciti, laddove si
scegliesse di rimanere ancorati ad un
criterio che divide ormai
irrimediabilmente la comunità scientifica stessa,
oppure non più giustificabili.
Da questo momento in avanti il
ragionamento di Becchi procede con il
conforto della legge di Hume.
L’impostazione della tesi è in buona parte
giocata sul piano dell’indebito
intreccio tra fatto e valore cui darebbe
origine ogni discorso che si
ripropone di collegare la sostenibilità
oggettiva dei criteri scientifici
di accertamento della morte alla liceità
7 ID., I segni della morte e la
questione dei trapianti, in: Humanitas 65,
3, 2010, p. 487.
8 Ivi, p. 490-491.
9 Ivi, p. 493
Discutendo ‘I segni della morte e
la questione dei trapianti’ di Paolo Becchi
i-lex, Novembre iv 2011, numero 12
morale o giuridica della pratica
dei trapianti che fossero effettuati in
quelle condizioni cliniche. L’idea
è che sia proprio questo intreccio a far
traslitterare indebitamente i
termini del dibattito sulla morte cerebrale,
confondendo il 'fatto' della sua
ancora sostenibile validità concettuale,
con il 'valore' della dimensione
della responsabilità convocata in quello
spazio indefinito tra la vita e la
morte. In questo senso, tenere distinto il
fatto – la morte e il suo
accertamento – dal valore – la scelta, etica,
quanto a cosa si possa essere
autorizzati a fare con un paziente che
versa in una condizione clinica
riferibile alla morte cerebrale –
significherebbe due cose, tra loro
correlate: affidare al consenso del
paziente l’espressione di una
chiara, inequivocabile, anticipata, volontà
autorizzatoria quanto all’espianto;
inquadrare, grazie al rinvio alla
dottrina del duplice effetto, nei
termini di eutanasia attiva indiretta,
l’intervento del medico in quella
circostanza. Il consenso, in una zona
grigia, e irreversibile, tra la
vita e la morte.
Intorno alla tesi principale del
discorso di Becchi (abbandonare il
criterio neurologico della morte) e
ai diversi piani entro cui essa si
struttura, dalla proposta di un
ritorno al criterio cardio-polmonare, alla
elezione della dimensione etica
quale momento essenziale, si articolano i
lavori con i quali gli autori
ospitati in questo numero di ‘i-lex’ hanno
voluto prender parte alla
discussione.
3.
Il discorso sulla morte cerebrale,
come si è già evidenziato, conduce a
interrogarsi sulla distanza
concettuale tra la 'morte' e il 'morire',
convocata con forza nell’evocazione
stessa (anche in Becchi) di una zona
grigia entro la quale si aprirebbe
uno spazio indefinito tra la vita e la
morte. Ciò impone alcune
precisazioni. Se è vero che molti degli
interrogativi che si concentrano,
oggi, sui criteri di accertamento della
morte cerebrale si fanno
rappresentare come la radicalizzazione di
quella differenza, tra la morte e
il morire, è altrettanto indubitabile che,
concettualmente, pensare alla morte
significhi pensarla 'al singolare',
potendo declinarsi il morire sempre
e solo come processo individuale (lo
sottolinea Settimio Monteverde). In
questa prospettiva sarebbe
necessario, proprio fermandosi ad
esigenze di tipo concettuale, misurare
con cautela la portata e le
conseguenze che possano trarsi dallo stato di
ripensamento che investe il
criterio della morte cerebrale. L’auspicabile
ridimensionamento di una
prospettiva ‘cerebrocentrica’ che
contraddistingue ancora l’approccio
vigente, svalutando “de facto la
dimensione fisica e fenomenologica
del paziente dichiarato morto
Valeria Marzocco
www.i-lex.it v
tramite criteri neurologici”, non
va tradotta in una determinazione
stipulativa della vita 'a
contrario', ricavabile dalla somma delle attività
cerebrali in effetti rilevate nella
condizione di morte cerebrale (così,
efficacemente, ancora Settimio
Monteverde).
Per altro verso, non va pretermessa
la dimensione di necessità entro
cui ogni definizione stipulativa
della morte si va a collocare. La
determinazione di un limite che
faccia da discriminante in una
condizione di irreversibilità come
quella della morte cerebrale rivela la
sua indispensabilità non solo nella
prospettiva di scongiurare
l’accanimento terapeutico, ma anche
in quella della individuazione del
momento più idoneo per l’espianto
degli organi in vista del trapianto. Si
dispongono così in campo quegli
argomenti riconosciuti come decisivi
per i sostenitori della morte
cerebrale, in gran parte orientati dalla
necessità di fugare le conseguenze
sulla disciplina dei trapianti che la
revisione del criterio neurologico
di accertamento della morte andrebbe
ponendo (così Becchi, ma anche
Luciano Sesta). Ma naturalmente,
l’argomento per cui si tratterebbe,
in entrambi i casi, di requisiti morali
necessari e sufficienti per la
definizione dei criteri di accertamento della
morte (lo rileva Monteverde) si
espone con immediatezza e non
difficilmente all’obiezione di
Becchi sul denunziato intreccio tra fatti e
valori.
Venendo alla relazione
funzionalistica tra la definizione dello standard
neurologico della morte e la
disciplina giuridica del trapianto d’organi, è
vero che negli anni Settanta, in
Italia, l’esigenza di definire
giuridicamente i criteri di
accertamento della morte umana si sia rivelata
del tutto strumentale a favorire il
suo riconoscimento precoce e per
questo idoneo all’espianto. E
tuttavia, a partire dal 1993, l’approccio
normativo alla questione si
modifica profondamente, per una precisa
opzione riconoscibile nella volontà
di giungere ad un concetto
giuridicamente vincolante della
morte (lo rileva Fabio Cembrani). La
morte – per la quale il legislatore
fornisce un’unica definizione, che
ritrova corrispondenza nelle
plurali condizioni per il suo accertamento10
– trasferita così “dentro i rigidi
schemi della tassonomia giuridica”, si
strutturerebbe entro una disciplina
organica ed emancipata da una sua
10 La pluralità dei metodi di
accertamento della morte, collegata alle
“diverse finalità della
constatazione della morte” non esclude che vada
considerato “che il concetto di
morte sia e resti unico”: F. MANTOVANI, v.
Morte (generalità), cit., p. 97.
Discutendo ‘I segni della morte e
la questione dei trapianti’ di Paolo Becchi
i-lex, Novembre vi 2011, numero 12
immediata riferibilità alla
disciplina del trapianto d’organi11. È in questo
quadro che compare la definizione
della morte quale “cessazione
irreversibile di tutte le funzioni
dell’encefalo”; ed è a partire da questo
momento, per Cembrani – il cui
lavoro dimostra di esser particolarmente
sensibile a temi e usi linguistici
del discorso biopolitico contemporaneo –
che il legislatore avrebbe spinto
troppo oltre la sua azione. Scegliendo di
irrigidire in un concetto dai
confini giuridicamente certi la cessazione
della vita umana, nell’orizzonte di
“superare le ampie criticità” che si
pongono “tra constatazione della
morte e accertamento della sua
realtà”, si sarebbe prodotto il
solo risultato di imbrigliare in “coordinate
spazio temporali” definite la
nudità del suo processo naturale. In questa
prospettiva, si impone la necessità
di intendersi adeguatamente sulla
distinzione tra la morte,
identificata con la 'cessazione irreversibile di
tutte le funzioni dell’encefalo', e
le sue condizioni di accertamento. La
condivisibile esigenza di revisione
dei criteri deve in questo senso
rinunciare alla pretesa di condurre
e trattenere nel diritto la morte come
concetto (lo rileva ancora
Cembrani), pena il cedimento verso gli effetti
paradossali di una tensione di
giuridicizzazione della vita che affida alla
scienza la risoluzione del suo
evento secondo modalità pretese come
non falsificabili. La rinuncia ad
impostare il discorso su di una
dimensione ontologica della morte
(con Luciano Sesta) avvicina però,
più di quanto sembri, il discorso
di chi (come nel caso di Fabio
Cembrani) bandisce come
necessariamente violenta ogni
giuridicizzazione dei fatti della
vita, con quella di quanti (come Becchi)
alla stessa espunzione della morte
dal diritto giungono, seppure
attraverso una via diversa. In
questo senso il sia pur imponente fuoco
critico della obiezioni che si
fanno muovere sul piano delle formule –
Cembrani rileva che la stessa
‘morte cerebrale’ non sarebbe “mai
entrata a far parte della sia pur
complessa tassonomia giuridica”, ma sia
piuttosto riferibile ad un lessico
in uso in parte della letteratura medicolegale
degli anni Ottanta; che lo stesso
utilizzo di attribuzioni
connotative della morte riveli un
orientamento assiologico, suggerendo
che l’individuo che versi in tali
condizioni, non sia del tutto morto – si
ritrova a convergere su di un punto
di ricaduta che viene anche da
Becchi indicato nel ruolo
dell’autonoma scelta riferibile alla volontà
individuale. L’idea per la quale
sulla morte cerebrale vi sia “la motivata
ragione di pensare che la scintilla
che ha acceso il dibattito italiano sia
venuta in primo luogo dalle
pubblicazioni di Becchi” (come scrive
11 Si esprime in questo senso anche
M.C. VENUTI, Gli atti di disposizione
del corpo, Milano, 2002.
Valeria Marzocco
www.i-lex.it vii
Luciano Sesta) ritrova qui una
delle sue principali ragioni, se è vero che
appare corretto leggere il nucleo
più significativo dei suoi argomenti
nella rinuncia alla necessità di
trovare una nuova dimensione stipulativa
della morte, in favore della
dimensione della responsabilità di una
decisione di tipo etico che il
processo del morire è capace di imporre.
Il problema non sarebbe allora il
diritto, quanto piuttosto l’autonomia
della persona in materia di fine
della vita. È in questo orizzonte che si
muove il lavoro di Federico Gustavo
Pizzetti e Amedeo Santosuosso12.
Sia, in generale, per gli sviluppi
delle scienze biomediche che, in special
modo, per le sempre maggiori
conoscenze sull’attività e la funzionalità
cerebrale al giurista, dinanzi al
fatto della morte, si aprirebbe un inedito
spazio del 'quomodo' entro il quale
ha senso interrogarsi sul 'chi' della
decisione. In questo senso, come
rilevano Santosuosso e Pizzetti, è
proprio assumendo il fatto, ovvero
la condizione di incertezza che
circonda scientificamente i canoni
di accertamento della morte, che si fa
chiara quale sia autenticamente la
questione giuridica, non altrimenti
indicabile se non nella spazio di
una libertà di autodeterminazione
individuale che si iscrive a
partire, o nella rinuncia, da parte del diritto
ad aver ragione di quella
incertezza. È interessante allora come venga
significativamente sottolineato che
la questione della determinazione di
standard legali cui ancorare la
definizione giuridica della morte si faccia
leggere anche dentro la dicotomia
pubblico/privato e, segnatamente, del
'chi' sia legittimato a scegliere
in favore dell’uno o dell’altro dei criteri
possibili e incerti.
In questo senso non è irrilevante
il fatto che in Italia, con la legge n.
578/1993, si sia accolto e definito
un criterio valevole per tutti i
consociati – quella della morte
cerebrale totale –, senza prevedere
alcuna possibilità di deroga in
favore di altri e differenti criteri da
adottarsi sulla base di specifiche
preferenze individuali. Su questo punto
nevralgico, Santosuosso e Pizzetti
richiamano non banalmente
l’attenzione su esperienze
giuridiche che si fanno portatrici di un diverso
approccio, come per il caso dello
Stato del New Jersey e del Giappone.
Nelle distanze che essi non mancano
di rilevare tra le due opzioni
legislative, sta indicata la
preminenza di diritto all’autodeterminazione
del paziente cui è affidato il
compito autentico di ‘definire i confini della
propria morte’.
12 A. SANTOSUOSSO, Diritto,
scienza, nuove tecnologie, Padova, 2011;
F.G. PIZZETTI, Alle frontiere della
vita. Il testamento biologico tra valori
costituzionali e promozione della
persona, Milano, 2008.
Discutendo ‘I segni della morte e
la questione dei trapianti’ di Paolo Becchi
i-lex, Novembre viii 2011, numero
12
Dinanzi a questi argomenti, che
muovono tutti dall’assumere come un
fatto la crisi del criterio
neurologico di accertamento della morte,
facendone una ragione per affidare
alla persona la definizione di uno
spazio fondamentale di esercizio
del diritto ad autodeterminarsi, è
ragionevole ritenere, come fa
Luciano Sesta, che sia soprattutto il grado
di approvazione sociale raggiunto
dallo standard della morte cerebrale
ad aver relegato alla condizione di
un ‘dibattito impedito’ il tono della
discussione dopo Harvard.
L’accelerazione impressa alla questione dal
documento del President’s Council
on Bioethics intitolato Controversies
in the Determination of Death e, in
Italia, dal parere del 2010 del
Comitato Nazionale per la Bioetica
segnerebbero in questo senso una
svolta, che autorizza per la prima
volta ad affrontare, consapevoli delle
sue insidie, la questione della
intrinseca plausibilità di questo standard.
In Becchi – che con Defanti ha il
merito di aver contribuito in maniera
decisiva all’apertura di un
discorso che incontra difficile da riscontrare
per altri temi del dibattito
bioetico (come nota ancora Luciano Sesta) –,
la questione centrale e più
interessante, starebbe in un certo a valle
dell’attacco frontale mosso alla
plausibilità scientifica ormai dubbia dei
criteri meramente neurologici di
accertamento della morte. E tuttavia,
“nel cuore di un discorso impegnato
a fondare moralmente il prelievo
degli organi” non si può dire che
la prospettiva della mediazione della
scienza sia del tutto abbandonata.
Sesta nota in questo senso molto
opportunamente l’apparente intima
contraddittorietà di alcuni passaggi
del discorso di Becchi:
“’insistere’ su di un aspetto ‘clinico’, in effetti,
lascia intendere quanto qui sia
inevitabile la mediazione della scienza”, e
ciò che più conta, continua Sesta,
“della dimensione ontologica, e non
soltanto etica della dimensione
della morte”.
La discussione, come si intuisce, è
tutt’altro che chiusa. La vivacità
con la quale essa si è venuta
rappresentando deve le sue fortune alla
disponibilità degli autori
invitati, e alla loro competenza e capacità di
pensiero. Ma se ogni impresa è
sempre, ed anche, di chi la promuove, lo
spazio reso possibile affinché
questo confronto prendesse corpo deve
alla Rivista e alla volontà del suo
Direttore, Francesco Romeo, la sua
condizione preziosa e
indispensabile.
Valeria Marzocco |