(Ricercatore di istituzioni di
Diritto pubblico –
Università di Roma “La Sapienza”)
La cronaca di questi giorni ha
consegnato agli studiosi un interessante susseguirsi di
atti
istituzionali e di azioni politiche
che meritano di essere ricostruiti con riguardo, in
particolare,
ad alcuni profili analizzando i
quali si definisce almeno una parte delle ragioni che
hanno
determinato il corso degli eventi.
Il primo aspetto è il (così spesso
citato) “eterocondizionamento” del processo
politicoistituzionale
italiano ad opera di soggetti
ritenuti esterni alla Repubblica quali i “mercati
finanziari” e i “partner europei”.
I termini tra virgolette non sono
impiegati casualmente, ma sono tratti dai comunicati del
Quirinale. Nella nota del primo
novembre, è proprio il Presidente della Repubblica a
fare
riferimento al contesto
dell’“ulteriore aggravarsi della posizione italiana nei
mercati
finanziari”, agli “impegni” nei
confronti delle “autorità europee”, nonché alle “scelte
che
l’Europa, l’opinione internazionale
e gli operatori economici e finanziari si attendono con
urgenza dall’Italia”. Nello stesso
testo si fa inoltre riferimento all’“aggravarsi della
crisi” e al
“così critico momento”.
Dello stesso segno la
dichiarazione-nota del 3 novembre allorché si richiama
il “momento di
diffusa e acuta preoccupazione per
le difficoltà e i rischi cui l’Italia è esposta nel
quadro della
grave crisi dell’Eurozona” ed è lo
stesso Capo dello Stato a rivolgersi in prima persona
precisando: “credo di poter dire ai
nostri partner europei, agli osservatori internazionali,
e al
www.federalismi.it 2
mondo degli investitori finanziari,
che le forze politiche fondamentali, sia di maggioranza
sia
di opposizione, sono consapevoli
della portata dei problemi che l’Italia deve affrontare
con
urgenza e attraverso sforzi
coerenti e costanti nel tempo. Gli obbiettivi di
risanamento
finanziario e di rilancio della
crescita economica e sociale assunti dalle autorità
italiane nelle
sedi europee - da ultimo, nelle
riunioni del 26 ottobre - sono seriamente riconosciuti
come
impegnativi dal più ampio arco
delle parti politiche e sociali”.
Nel medesimo senso muove la nota
dell’8 novembre della Presidenza della Repubblica che fa
espresso riferimento alla “urgente
necessità di dare puntuali risposte alle attese dei
partner
europei” anche alla luce del
“recente contributo di osservazioni e proposte della
Commissione
europea”. Ancora, nella
dichiarazione del Presidente della Repubblica del giorno
successivo
(il 9 novembre) - con la quale si
forniscono alcuni “chiarimenti” - si specifica di essere
“di
fronte alla pressione dei mercati
finanziari sui titoli del debito pubblico italiano che
oggi ha
toccato livelli allarmanti”. Ciò
solamente attenendosi agli atti dotati di una espressa
formalità
e senza voler riprendere le
dichiarazioni del Presidente della Repubblica rilasciate
in altre
occasioni.
Che un condizionamento esterno
abbia influenzato la vita politica e istituzionale del
nostro
Paese appare essere un dato non
solo di tutta evidenza ma finanche formalizzato in atti
istituzionali. Va però al tempo
stesso ricordato che si tratta di un condizionamento
frutto delle
scelte, in primis normative,
compiute dall’Italia in questi anni allorché ha aderito
al duplice
processo di integrazione europea
(attraverso “limitazioni di sovranità” ex art. 11 della
Costituzione e finanche con
l’istituzione di una moneta unica e, come prevedono i
trattati,
“stabile”) e di adesione nelle sedi
internazionali alla creazione di mercati finanziari
aperti e
globali. Si tratta insomma di un
condizionamento che abbiamo “sovranamente” determinato
allorché si è deciso di far parte
dell’Unione (anche economica e monetaria) europea alla
quale
“gli Stati membri attribuiscono
competenze per conseguire i loro obiettivi comuni” (art.
1
TUE).
Come noto, sulla base del principio
di attribuzione, l’Unione europea è competente nelle
materie espressamente previste dai
trattati, ma sappiamo bene che oltre al principio di
proporzionalità opera anche, ed in
senso “pro-comunitario”, quello di sussidiarietà per cui
al
fine di giustificare l’intervento
comunitario può prevalere l’obiettivo comune da
perseguire
rispetto alla mera assegnazione di
competenza.
La “politica monetaria per gli
Stati membri” è competenza esclusiva dell’Unione europea
tant’è che, ai sensi dell’art. 119
TUE, “l’azione degli Stati membri e dell’Unione
comprende,
alle condizioni previste dai
trattati, l’adozione di una politica economica che è
fondata sullo
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stretto coordinamento delle
politiche economiche degli Stati membri, sul mercato
interno e
sulla definizione di obiettivi
comuni, condotta conformemente al principio di
un’economia di
mercato aperta e in libera
concorrenza”. Detta azione “comprende una moneta unica,
l’euro,
nonché la definizione e la
conduzione di una politica monetaria e di una politica
del cambio
uniche, che abbiano l’obiettivo
principale di mantenere la stabilità dei prezzi e, fatto
salvo
questo obiettivo, di sostenere le
politiche economiche generali nell’Unione conformemente
al
principio di un’economia di mercato
aperta e in libera concorrenza”. Infine, queste azioni
degli Stati membri e dell’Unione
“implicano il rispetto dei seguenti principi direttivi:
prezzi
stabili, finanze pubbliche e
condizioni monetarie sane nonché bilancia dei pagamenti
sostenibile”.
Come è stato sottolineato, le nuove
previsioni dei trattati “pur con cautele e incertezze”
appaiono “orientate al
rafforzamento del sistema di governo economico europeo
ed al suo
adattamento al contesto
globalizzato”1. I trattati prevedono procedure, anche
sulla base del
principio di leale collaborazione,
per governare il rapporto Stati-Unione in materia
economica
e monetaria, ma è evidente che la
situazione finanziaria di un Paese membro può essere
sottoposta a momenti di stress la
cui velocità e incisività possono pretendere decisioni
nazionali rapide e radicali2.
L’Italia, con i titoli di Stato a
sempre maggior rendimento, avrebbe potuto sovranamente
decidere di resistere o meno al
rischio finanziario qualora non fosse stata nella moneta
unica.
L’adesione all’Unione europea
comporta di per sé l’indisponibilità di questa scelta e
l’imposizione allo Stato di
adottare tutte le misure necessarie per garantire la
politica
economica e monetaria europea ed
evitare shock all’euro (ricordiamo nuovamente che la
“stabilità” della moneta è prevista
dallo stesso trattato).
Questa crisi di governo ha così
plasticamente mostrato cosa significa far parte di
ordinamento
giuridico politico sovranazionale
che limita la nostra autonomia (o la nostra sovranità se
si
preferisce) politica. La
dichiarazione-nota del 1 novembre del Quirinale, non a
caso, parla
proprio – contemporaneamente – di
“interessi generali dell’Italia e dell’Europa, in una
crisi
finanziaria gravida di incognite”.
D’altronde, il trattato prevede che
“L’Unione rispetta l’uguaglianza degli Stati membri
davanti ai trattati e la loro
identità nazionale insita nella loro struttura
fondamentale, politica
e costituzionale, compreso il
sistema delle autonomie locali e regionali. Rispetta le
funzioni
1 G. P. MANZELLA, La politica
economica e il governo della moneta unica, in F.
BASSANINI, G. TIBERI, Le nuove
istituzioni europee. Commento al
Trattato di Lisbona, Bologna, Il Mulino, 2010, p. 301.
2 B. CARAVITA,
Will Germany save the euro? What is the prize?, in
federalismi.it, n. 19 del 2011.
www.federalismi.it 4
essenziali dello Stato, in
particolare le funzioni di salvaguardia dell’integrità
territoriale, di
mantenimento dell’ordine pubblico e
di tutela della sicurezza nazionale. In particolare, la
sicurezza nazionale resta di
esclusiva competenza di ciascuno Stato membro” (art. 4).
Con un
linguaggio che ricorda lo schema
delle funzioni fondamentali che lo Stato italiano
prevede per
gli enti locali ex art. 117,comma
secondo, Cost., il trattato sembra da un lato nascondere
un
qualunque rapporto concreto tra lo
Stato e le politiche economiche e monetarie, dall’altro
appare solerte nel dichiarare il
rispetto dell’Unione per la “struttura fondamentale,
politica e
costituzionale, compreso il sistema
delle autonomie locali e regionali” degli Stati membri.
Veniamo così al secondo punto:
questa condizione esterna che si è (legittimamente)
imposta
all’Italia ha avuto effetti sulla
“struttura fondamentale, politica e costituzionale” del
Paese?
Non è questa la sede per
rispondere, in particolare, al tema se il sistema delle
autonomie locali
e regionali ne sia stato investito;
tuttavia, per questo aspetto, ci limitiamo a ricordare
non solo
la capacità delle norme comunitarie
di derogare addirittura al riparto costituzionale delle
competenze tra Stato e autonomie
(come riconosciuto dalla Corte costituzionale3) e la
forte
invasività del diritto comunitario,
ma anche che la stessa attuazione dell’art. 119 della
Costituzione ha assunto gli
indiscussi tratti dello strumento per il controllo della
spesa
pubblica più che dell’incremento
dell’autonomia politica e finanziaria degli enti
territoriali
autonomi, come ha sottolineato la
dottrina più attenta4. Basti inoltre pensare
all’incisività del
titolo di intervento del
legislatore statale di cui al “coordinamento della
finanza pubblica”.
Sulla restante “struttura
fondamentale” vale invece la pena riflettere pur nella
rapidità di
queste prime osservazioni.
La procedura per la formazione del
Governo Monti è stata influenzata dal fatto che i
mercati
finanziari e i partner europei
ponessero una condizione esterna che si imponeva
all’Italia,
ossia evitare il rischio di
un’insolvenza del debito pubblico che avrebbe avuto
effetti sulla
stabilità dell’Euro?
Anche in questo caso, gli atti del
Quirinale ci vengono in soccorso e ci forniscono
importanti
elementi di formale riscontro, in
particolare quando sottolineano l’urgenza che le
istituzioni
nazionali (Parlamento e Governo)
siano in grado di decidere (oltre che di decidere nel
senso
delle indicazioni europee e delle
attese internazionali).
3 Corte costituzionale sentt. nn.
224 del 1994 e n. 126 del 1996; cfr. T. GROPPI,
L’incidenza del diritto
comunitario sui rapporti
Stato-regioni in Italia dopo la riforma del Titolo V, in
www.unisi.it.
4 B. CARAVITA, Federalismi,
federalismo europeo, federalismo fiscale, in
federalismi.it, n. 9 del 2011.
www.federalismi.it 5
Nelle note e nelle dichiarazioni
del Quirinale è presente un costante riferimento alla
necessità
di garantire una adeguata capacità
di decisione delle istituzioni italiane. Così, nella
nota del
1 novembre si qualifica come
“improrogabile l’assunzione di decisioni efficaci
nell’ambito
della lettera di impegni
indirizzata dal governo alle autorità europee” e si
connette questa
considerazione sia al fatto che il
Presidente del Consiglio abbia “confermato il proprio
intendimento di procedere in tal
senso”, sia al fatto che le opposizioni abbiamo
“manifestato
la disponibilità a prendersi le
responsabilità necessarie”.
L’“urgente necessità di dare
puntuali risposte alle attese dei partner europei” è
richiamata
nella nota dell’8 novembre, mentre
la dichiarazione del 9 novembre è tutta tesa a
rassicurare
riguardo la capacità dell’Italia di
“provvedere” comunque ad adottare le decisioni
necessarie.
Si tratta di un vero “manifesto” a
sostegno della capacità dell’Italia di assumere le
scelte di
merito opportune, garantendo
certezza e rapidità dei passaggi istituzionali della
crisi (notizia
sicura delle dimissioni del Governo
Berlusconi dopo la altrettanto certa e rapidissima
approvazione della legge di
stabilità, immediatezza e massima rapidità delle
consultazioni)
per garantire che “entro breve
tempo o si formerà un nuovo governo che possa con la
fiducia
del Parlamento prendere ogni
ulteriore necessari decisione o si scioglierà il
Parlamento per
dare subito inizio a una campagna
elettorale da svolgere entro i tempi più ristretti”.
Nella dichiarazione, il Presidente
della Repubblica, non a caso, conclude rassicurando che
“sono pertanto infondati i timori
che possa determinarsi in Italia un prolungato periodo
di
inattività governativa e
parlamentare”; ciò non solo per la velocità dei passaggi
istituzionali
di cui sopra, ma anche perché – una
sottolineatura che dice molto rispetto a questo secondo
punto di analisi – è “comunque
sempre possibile in ogni momento adottare, se
necessario,
provvedimenti di urgenza”. Una
riflessioni di chiusura che, tradotta, significa che
anche se
non si formasse un nuovo governo
(quindi non si arrivasse al giuramento e si restasse con
il
dimissionario) o se si formasse ma
non ottenesse la fiducia, rimarrebbe pur sempre
possibile
impiegare lo strumento del
decreto-legge per adottare queste decisioni.
Il punto relativo all’impiego del
decreto-legge, ma non in questa sede, meriterebbe di
essere
approfondito. Tuttavia, appare
evidente che, nella dichiarazione di chiarimento del 9
novembre, l’ipotesi dell’impiego di
provvedimenti di urgenza rappresentava il minimum della
capacità decisionale che l’Italia
avrebbe potuto (e dovuto) garantire nella situazione di
crisi ai
mercati finanziari e ai partner
europei. D’altronde il maximum era già stato in qualche
modo
individuato il 1 novembre allorché
nella nota del Quirinale si era espressamente fatto
riferimento al largo spazio di
consenso delle forze politiche di maggioranza e di
opposizione a
convergere sulle decisioni da
adottare per rispondere all’aggravarsi della crisi con
assunzione
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comune di responsabilità: quella
che era definita “una nuova prospettiva” che il Capo
dello
Stato riteneva espressamente suo
“dovere” verificare.
Arriviamo così al terzo punto di
analisi, ossia il ruolo del Presidente della Repubblica
nella
gestione istituzionale per
garantire - per di più in tempi rapidi - una adeguata
capacità
decisionale della Repubblica.
In primo luogo, rileva l’apertura
formale della crisi. Essa non si è consumata con il voto
della
Camera di martedi 8 novembre a
seguito del fatto che il rendiconto dello Stato avesse
avuto
solamente 308 voti favorevoli. Quel
voto aveva dimostrato formalmente non tanto che il
Governo non avesse la maggioranza
assoluta dei voti in quel ramo del Parlamento (cosa che
poco rileva visto che il Governo
deve avere la maggioranza semplice dei voti nei
provvedimenti dove si sostanzia il
rapporto fiduciario), quanto piuttosto che il Parlamento
e il
Governo non fornivano alcuna
garanzia decisionale con riguardo agli impegni da
assumere
per correggere la crisi finanziaria
nazionale che rischiava di travolgere anche l’euro,
nonostante le rassicurazione del
Presidente del Consiglio.
A quel punto è sorta la doppia
“anomalia” di una crisi parlamentare (nel senso del
locus) ma
non formalmente tale (nel senso
dell’atto e dell’obbligo di dimissioni) per di più
aperta nella
sostanza non dalle dimissioni del
Presidente del Consiglio ma dall’annuncio delle
dimissioni
sub condicione dell’approvazione
della legge di stabilità.
In questo passaggio si annida la
peculiarietà della crisi di governo di questi giorni.
Per
garantire in tempi rapidi una
adeguata capacità decisionale del Paese e scongiurare
“un
prolungato periodo di inattività
governativa e parlamentare” (sono sempre parole del
Quirinale) che sarebbe potuto
realizzarsi con l’apertura immediata di una crisi di
governo
formale, si è operato al fine di
garantire che un governo “pre-dimissionario” approvasse
uno
degli atti politici per antonomasia
nel rapporto tra Parlamento e esecutivo (quale è la
legge di
stabilità) e, parallelamente, sono
stati impiegati questi giorni per realizzare in modi e
forme
particolari delle vere e proprie
“pre-consultazioni” tra le forze politiche e tra esse e
il
Quirinale, se non forse un vero e
proprio “pre-incarico”.
D’altronde, incontri istituzionali
in questo senso si erano svolgi già prima delle
dimissioni
dell’8 novembre: il Presidente
della Repubblica tra il 2 e il 3 novembre aveva ricevuto
“una
delegazione” di rappresentanti di
Pdl, Pd, Lega Nord e Terzo Polo.
Non a caso, nella
dichiarazione-nota del 3 novembre scorso, con la quale
il Quirinale ha
fornito alcune osservazioni, si
evince che “non si è trattato di consultazioni
protocollari - di
cui non esistevano i presupposti”,
ma di “colloqui informali” con la maggior parte delle
forze
www.federalismi.it 7
politiche. Proprio sulla base di
detti colloqui, il Capo dello Stato precisa di “poter
dire ai
nostri partner europei agli
osservatori internazionali, e al mondo degli investitori
finanziari,
che le forze politiche
fondamentali, sia di maggioranza sia di opposizione,
sono consapevoli
della portata dei problemi che
l’Italia deve affrontare con urgenza e attraverso sforzi
coerenti
e costanti nel tempo. Gli
obbiettivi di risanamento finanziario e di rilancio
della crescita
economica e sociale assunti dalle
autorità italiane nelle sedi europee - da ultimo, nelle
riunioni
del 26 ottobre - sono seriamente
riconosciuti come impegnativi dal più ampio arco delle
parti
politiche e sociali”.
Il punto chiave della nota del 3
novembre è quello in cui il Presidente della Repubblica
precisa che, pur essendo tutto il
sistema politico consapevole della necessità di dover
adottare
dette misure urgenti, vi è una
divisone tra chi ritiene che ciò debba avvenire con
l’attuale
maggioranza politica che sostiene
il Governo e chi, invece, richiede che ciò avvenga con
una
nuova compagine parlamentare e di
governo.
In questo contesto, il Presidente
della Repubblica non ha ovviamente assunto alcuna
posizione tra le due soluzioni
possibili, specificando che “alle une e alle altre forze
appartiene
interamente la libertà di assumere
le rispettive determinazioni in Parlamento e le
responsabilità che ne conseguono
rispetto agli interessi generali dell’Italia e
dell’Europa, in
una crisi finanziaria ancora
gravida di incognite. I prossimi sviluppi dell’attività
parlamentare mi consentiranno di
valutare concretamente la effettiva evoluzione del
quadro
politico-istituzionale”.
Con una impeccabile correttezza
istituzionale, il Capo dello Stato ha fatto riferimento
agli
sviluppi dell’attività parlamentare
quale unica fonte di informazioni utile a “valutare
concretamente la effettiva
evoluzione del quadro politico-istituzionale.”
Proprio il voto di martedi 8
novembre 2009 con i 308 voti a favore del rendiconto ha
permesso al Capo dello Stato (e
alle forze politiche) la concreta valutazione
dell’effettiva
evoluzione del quadro
politico-istituzionale.
D’altronde, nella nota del 1
novembre il Presidente aveva chiarito di “ritenere suo
dovere
verificare le condizioni per il
concretizzarsi” della “nuova prospettiva di larga
condivisione
delle scelte” attese dall’Unione
europea e dagli operatori economici e finanziari. Il
Parlamento, con il voto dell’8
novembre, ha aperto la strada alla potenziale
concretizzazione
di questa nuova prospettiva facendo
venir meno una delle due ipotesi espresse dalle forze
politiche nelle consultazioni
“informali” dei giorni precedenti ossia quella
dell’autosufficienza
decisionale della maggioranza
politica che sosteneva il Governo nell’ottemperare agli
(cosa se
non altro) “vincoli derivanti
dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi
internazionali” di
www.federalismi.it 8
cui all’art. 117, comma primo,
Cost. (anche se sappiamo come la Corte costituzionale
abbia
tentato di distinguere tra i
vincoli e gli obblighi)5.
Il Presidente della Repubblica, ci
sembra di poter dire, ha in questi giorni svolto nella
piena
adesione alle norme costituzionali
il ruolo proprio del Capo dello Stato di un ordinamento
giuridico che è parte di un
soggetto politico sovranazionale (l’Unione europea) del
quale deve
difendere interessi e politiche
perché gli interessi e le politiche comunitarie sono
tout court gli
interessi e le politiche nazionali
(come conferma uno dei passaggi degli atti citati).
Con riguardo al ruolo del
Presidente della Repubblica, anche in questo caso, come
è stato
sottolineato in via più generale,
non dobbiamo confondere i desiderata personali dal
contesto
normativo costituzionale che, però,
è diverso da quello originario6. Il mandato del Capo
dello
Stato di un Paese che aderisce
all’Unione europea non può essere lo stesso di un Paese
che
non ne è membro. Il Presidente
della Repubblica, nel suo ruolo di “Capo dello Stato” e
di
“rappresentante dell’unità
nazionale” (art. 87, comma primo, Cost.) opera in una
sorta di
“contesto costituzionale allargato”
rispetto al semplice quadro del 1948.
Di questo “contesto costituzionale
allargato”7 non può non far parte l’insieme degli
interessi
nazionali connessi a quelli
dell’Unione europea e un Presidente della Repubblica che
non
custodisse quota parte nazionale
anche questa dimensione costituzionale potrebbe venire
meno al proprio ruolo se non
addirittura divenire responsabile per alto tradimento o
attentato
alla Costituzione ex art. 90 Cost..
In questi giorni, il Presidente
della Repubblica ha assunto su di se il ruolo di
“garante della
nazione nell’Unione europea”8 nel
momento in cui svolgere detta funzione significava
garantire rapidamente che le
istituzioni italiane fossero in grado di decidere in
modo adeguato
rispetto al contesto di
riferimento.
Se muoviamo la nostra analisi da
quando detto, più che giustificato appare l’attivismo
relazionale del Capo dello Stato,
sostanziatosi nei contatti telefonici e negli incontri
con i
Capi di Stato e di governo esteri e
con organi dell’Unione europea (Draghi, Van Rompuy,
5 C. ZANGHÌ, La Corte
costituzionale risolve un primo contrasto con la Corte
europea dei diritti dell’uomo ed
interpreta l’art. 117 della
Costituzione: le sentenze n. 348 e 349 del 2007, in
forumcostituzionale.it.
6 B. CARAVITA, Il Presidente della
Repubblica nell’evoluzione della forma di governo: i
poteri di nomina e di
scioglimento delle Camere nel
convengo di studi “Il Presidente della Repubblica
nell’evoluzione della forma di
Governo” tenutosi presso
l’Università LUISS Guido Carli di Roma il 26 novembre
2010; la relazione è
pubblicata negli “Scritti in onore
di Franco Modugno”, Napoli, Editoriale Scientifica,
2011, vol. I, p. 473 e ss..
7 Sempre che non si voglia usare
l’espressione “spagnola” di “blocco costituzionale” che,
non a caso, si riferisce
ai rapporti tra la Costituzione e
altre fonti anche degli ordinamenti territoriali
autonomi; cfr. Tribunal
Constitucional, sentenze n. 18/82,
76/83, 29/86 e 227/88.
8 Riflette sul rapporto tra unità
nazionale e Unione europea B. CARAVITA, Cosa festeggiano
gli italiani? Ovvero
del sottile confine tra ricorrenza
civile e ricorrenza politica, in federalismi.it, n. 11
del 2011.
www.federalismi.it 9
Obama, Wulff e Sarkozy);
altrettanto giustificate appaiono poi le brevissime
consultazioni
nella giornata di domenica 13
novembre (iniziate la mattina e concluse la sera)
allorché il
Presidente della Repubblica ha
conferito l’incarico a Mario Monti lo stesso giorno alle
ore 19
circa; incarico al quale ha fatto
seguito l’accettazione con riserva da parte del
Presidente
incaricato che ha svolto un
ulteriore giro di consultazioni nelle giornate di lunedi
14 e martedi
15 novembre preannunciando di
volersi recare al Quirinale la mattina del 16 novembre
per
sciogliere la riserva.
Va ricordato che negli interventi
pubblici del Presidente del Consiglio incaricato e del
Presidente della Repubblica subito
dopo il conferimento dell’incarico si è resa evidente
contezza del quadro
economico-finanziario tant’è che il Capo dello Stato ha
anche ricordato
che l’Italia dovrà collocare, fino
all’aprile 2012, circa 200 miliardi di euro di titoli di
stato e
ciò dovrà avvenire in condizioni
migliori delle attuali per evitare rischi al sistema
finanziario
nazionale e europeo. Una
riflessione che ci riporta al primo punto della nostra
analisi quasi a
fornire una chiusura del
ragionamento.
Infine, le modalità di svolgimento
della consultazioni sono meritevoli di alcune brevi
osservazioni visto che si sono
svolte con un nome in pectore (per l’appunto quello di
Mario
Monti) che a sua volta, già nella
giornata di sabato 12 novembre (prima di ricevere
l’incarico
formale) aveva incontrato alcuni
leader politici e, in particolare, il Presidente del
Consiglio
(ancora “quasi-dimissionario”) e il
vertice della Banca centrale europea Mario Draghi.
In questo percorso, infatti, il
Capo dello Stato aveva nominato il 9 novembre il prof.
Mario
Monti senatore a vita ai sensi
dell’art. 59, comma secondo, della Costituzione, per
“aver
illustrato la Patria per altissimi
merito nel campo scientifico e sociale”. Un atto
(controfirmato
ovviamente dal Presidente del
Consiglio “pre-dimissionario”) che è parso a molti un
“preincarico”
di fatto, quasi a voler confermare
la necessità di tempi rapidi per arrivare alla
soluzione della crisi che,
ricordiamolo, non era allora ancora formalmente aperta.
Vale la pena
rammentare che la nomina di Monti a
senatore a vita ha seguito di poche ore la dichiarazione
del Capo dello Stato con la quale
si era chiarito quanto comunicato il giorno prima ossia
che il
Presidente del Consiglio si sarebbe
con certezza dimesso appena fosse stata approvata (in
pochi giorni grazie all’intesa
delle forze politiche) la legge di stabilità. Si legge
nella
dichiarazione che “non esiste
alcuna incertezza sulla scelta del Presidente del
Consiglio on.
Silvio Berlusconi di rassegnare le
dimissioni del governo da lui presieduto. Tale decisione
diverrà operativa con
l’approvazione in Parlamento della legge di stabilità
per il 2012”.
www.federalismi.it 10
Durante le consultazioni, almeno
sulla base delle dichiarazioni rese all’uscita
dall’incontro
con il Capo dello Stato da parte
delle delegazioni consultate, solo in pochi casi si è
conservato
l’approccio formale per cui debbono
essere le forze parlamentari a fornire al Presidente
della
Repubblica (che, per l’appunto, le
consulta) delle “proposte” per uscire dalla crisi di
governo
(il nuovo premier da incaricare
oppure la richiesta di scioglimento delle Camere). In
molti tra
i “consultati”, invece, hanno
relazionato alla stampa dando per scontato che fosse il
prof.
Monti il nome del “presupposto
Presidente-incaricato” e sul quale hanno ritenuto di
esprimersi in senso favorevole o
meno.
Concludendo queste nostre prime e
rapide riflessioni non possiamo non notare come si sia
trattato di una crisi
caratterizzata da molti “pre-atti” (“pre-dimissioni”, “pre-consultazioni”,
“pre-incarico”) nella necessità di
garantire velocemente il ripristino delle condizioni
decisionali delle istituzioni
nazionali; capacità decisionale che ci viene imposta,
prima ancora
dei contenuti di merito dei
provvedimenti, dal fatto che la Repubblica Italiana è
parte di un
ordinamento giuridico “complesso”
che ne condiziona la vita istituzionale e politica. Una
situazione nuova da considerare
nella conduzione di una crisi di governo e che il
Presidente
della Repubblica ha saputo
impeccabilmente comprendere e gestire nell’interesse
nazionale e
dell’Unione europea. |