Giuseppe De Luca, Avvocato e
Segretario Comunale Generale
L’autotutela può essere definita
come il potere di far valere i propri diritti senza
ricorrere all’autorità giudiziaria. Tale potere
costituisce un carattere indefettibile della pubblica
amministrazione. Ciò nondimeno, pur trattandosi di un
potere tipicamente proprio degli enti pubblici, è
altresì consentito ai privati, sia pure nei soli casi
legislativamente indicati: si pensi, restando in materia
amministrativa, alla cosidetta resistenza passiva dei
privati all’esecuzione di atti amministrativi abnormi o
comunque radicalmente nulli. Anche nel diritto privato
può menzionarsi la possibilità per chiunque detenga
legittimamente una cosa di opporsi allo spoglio della
stessa fintantoché non si ravvisino le condizioni per
potersi agire solo giudizialmente con le azioni di
reintegrazione e manutenzione (art 1168 e 1170 c.c.),
una volta cioè che si versi oramai in un momento
successivo all’immediatezza dell’azione illegittima.
Ancora si pensi alla legittima difesa scriminante l’aver
cagionato danni (art 2044 c.c.) o addirittura l’aver
consumato azioni delittuose (art 52 c.p.). Trattasi
tuttavia di ipotesi ben definite e circoscritte nello
spettro di operatività: difatti, l’oltrepassare i limiti
legislativamente prescritti al privato per l’esercizio
di tale potere può determinare conseguenze sul piano
civilistico ex articolo 2043 oppure su quello penale
come ad esempio nel reato di esercizio arbitrario delle
proprie ragioni con violenza sulle cose o alle persone
(artt. 392 e 393 c.p.)
In diritto amministrativo
l’autotutela ha, per converso, un raggio di applicazione
vastissimo. Soltanto in passato ci si era interrogati
sulla possibilità di poter configurare in capo agli enti
pubblici un generale potere di autotutela anche nei casi
in cui il legislatore non l’avesse espressamente
previsto. Vi era infatti qualche perplessità circa la
difficoltà di raccordare il riconoscimento generale di
tale potere con il principio di legalità. Tali riserve
possono ormai dirsi superate attraverso il radicamento
di tali poteri nei principi del giusto procedimento, di
procedimentalizzazione e funzionalizzazione dell’azione
amministrativa ex art 97 della Carta Costituzionale.
L’autotutela amministrativa può
essere innanzitutto di tipo decisorio ogni qualvolta la
pubblica amministrazione interviene su di un proprio
provvedimento attraverso l’esercizio dei cosidetti
poteri di secondo grado (ad es. revoca e annullamento in
sede di autotutela). L’autotutela decisoria, poi, può
altresì divenire di tipo contenzioso nei casi in cui il
privato esperisca un ricorso ammnistrativo dinanzi alla
stessa pubblica amministrazione (ad es. ricorso
gerarchico, in opposizione, o straordinario dinanzi al
Capo dello Stato): in tal caso la P.A. deciderà sui suoi
stessi provvedimenti adottati, senza tuttavia quelle
garanzie di terzietà che circondano i ricorsi
giurisdizionali. L’autotutela può infine risolversi
nello svolgimento dell’attività esecutiva necessaria per
portare a compimento i propri atti contro i privati
riottosi o renitenti (si pensi ad esempio ad
un’ordinanza di sgombero eseguita coattivamente con
l’ausilio della forza pubblica). Non a caso si parla di
cosiddetta esecutorietà dei provvedimenti amministrativi
(art 21 ter L.241/90).
L’esercizio dell’autotutela involge
problematiche di particolare delicatezza con riferimento
alla D.I.A. (dichiarazione di inizio attività). Un
elemento di sicura criticità è peraltro fornito dal
fatto che il legislatore, pur circoscrivendo l’istituto
della D.I.A. ad attività a carattere tendenzialmente
vincolato, tuttavia ne ha offerto diverse versioni non
sempre conciliabili (si pensi alla D.I.A. disciplinata
nell’ambito del Testo Unico dell’edilizia (D.P.R.
380/01) all’articolo 22, o ancora agli istituti affini,
anche terminologicamente come la D.I.A.P. (dichiarazione
di inizio attività produttiva) che talune regioni - è il
caso della Lombardia - hanno introdotto nell’esercizio
della potestà legislativa concorrente in materia di
commercio). Spesso peraltro è accaduto che la previsione
regionale collidesse con quella statale di principio,
come ad esempio avvenuto per la D.I.A. disciplinata
dalla legge regionale sul territorio n 12 del 2005 della
Lombardia, in molti punti stridente con la previsione
della legge statale di cui al D.P.R. 380/01.
Ad ogni modo la disciplina di base
dell’istituto è contenuta nel novellato art 19 della
legge 241/90: esso qualifica la dichiarazione di inizio
attività come ogni atto ampliativo della sfera giuridica
del richiedente ed utile allo svolgimento di attività
edilizia, imprenditoriale e commerciale: atto il cui
rilascio dipenda esclusivamente dall’accertamento dei
requisiti e presupposti di legge o di atti
amministrativi a contenuto generale e non sia previsto
alcun limite o contingente complessivo; il cui rilascio,
quindi, dipenda in definitiva dallo svolgimento di
un’attività amministrativa vincolata. L’attività oggetto
della dichiarazione può essere iniziata decorsi trenta
giorni dalla data di presentazione della dichiarazione
all’amministrazione competente. Entro il predetto
termine di trenta giorni l’amministrazione può adottare,
in caso di accertata carenza delle condizioni
legittimanti, motivati provvedimenti di divieto di
prosecuzione dell’attività e di rimozione dei suoi
effetti; salvo, ove ciò sia possibile, che l’interessato
provveda a conformare l’attività svolta alla normativa
vigente entro il termine fissato dell’amministrazione.
In questa fase, tuttavia, siamo ancora in un momento
definibile come endoprocedimentale: non essendo difatti
ancora decorsi i trenta giorni, e in mancanza delle
condizioni di legge, non può dirsi formato alcun
provvedimento amministrativo di assenso; ed è proprio
questo il motivo per cui il legislatore non qualifica
come autotutela il potere dell’amministrazione di
vietare la prosecuzione dell’attività e rimuoverne gli
effetti.
Diversamente è a dirsi per il caso
in cui, invece, il termine di trenta giorni sia decorso
senza che l’ente pubblico abbia rilevato alcunché: solo
ora potrà parlarsi di un provvedimento amministrativo,
sia pure tacito. Ecco quindi che da questo momento
l’amministrazione potrà sì intervenire sul provvedimento
radicatosi, ma soltanto azionando i poteri di autotutela
riconosciuti dalla legge. Difatti l’articolo 19 comma 3
secondo inciso della legge 241/90 fa comunque salvo il
potere dell’amministrazione competente di assumere
determinazioni in via di autotutela ai sensi degli
articoli 21 quinques e 21 nonies, ovverossia revocando o
annullando il provvedimento implicitamente formatosi. La
scelta dell’uno o dell’altro provvedimento da adottare
in sede di autotutela seguirà la tipologia dei motivi
addotti dalla pubblica amministrazione nell’esercizio
dei suoi poteri: fermo restando che in entrambi i casi
le motivazioni si innestino su di una valutazione del
pubblico interesse, di revoca potrà trattarsi nel caso
di sopravvenuti motivi di pubblico interesse ovvero di
mutamento dell’originaria situazione di fatto o ancora
di una nuova, diversa, valutazione della stessa.
Diversamente, per il caso in cui il provvedimento
amministrativo implicitamente formatosi appaia
illegittimo per violazione di legge o viziato da eccesso
di potere o da incompetenza, potrà trattarsi di
annullamento. Ovviamente, proprio per le caratteristiche
del provvedimento implicito, costituito in definitiva da
un silenzio legislativamente significativo serbato sulla
D.I.A., i vizi di violazione di legge, eccesso di potere
o incompetenza andranno scrutinati in stretto legame con
la dichiarazione assentita (può esemplificativamente
pensarsi al caso di una D.I.A. presentata da un tecnico
non abilitato, oppure resa dinanzi ad un ufficio non
competente, o ancora ad una D.I.A. effettuata per il
caso in cui occorresse un provvedimento diverso ed
esplicito quale un permesso a costruire o
un’autorizzazione).
Nell’esercizio dei poteri di
autotutela si pongono inevitabilmente delicati problemi
di tutela del terzo intesa come tutela dell’affidamento
altrui. Di tanto sembra aver tenuto conto il legislatore
laddove ha approntato una serie di rimedi orientati in
quel senso. Per la revoca della D.I.A. è addirittura
previsto che laddove la stessa comporti pregiudizi in
danno dei soggetti direttamente interessati,
l’amministrazione ha l’obbligo di provvedere al loro
indennizzo (art 21 quinques comma 1 terzo inciso legge
241/90). Tanto appare ragionevole se pensiamo che la
revoca può derivare anche da fattori sopravvenienti,
riguardo ai quali il privato può essere del tutto
incolpevole: si pensi al caso di una D.I.A. in materia
di commercio che venga revocata sulla base
dell’introduzione di uno strumento di programmazione
fino ad allora assente, per il rilascio delle licenze in
quel determinato settore. Ciò nondimeno, anche nella
revoca possono evidenziarsi degli addebiti in capo al
privato il quale abbia colposamente tralasciato taluni
aspetti nel rendere la dichiarazione di inizio attività.
Ed infatti il legislatore precisa che l’indennizzo andrà
liquidato tenendo conto dell’eventuale conoscenza o
conoscibilità, da parte del privato, della contrarietà
dell’atto revocato all’interesse pubblico; o
dell’eventuale concorso del privato all’erronea
valutazione circa la compatibilità dell’atto revocato
con l’interesse pubblico (art 21 quinquies commi bis e
ter L. 241/90).
Minori esigenze di tutela
circondano invece l’annullamento in sede di autotutela.
Tanto per l’ovvia ragione che alcuna esigenza di
protezione può prefigurarsi nei confronti di un privato
che abbia reso una dichiarazione di inizio attività
intrinsecamente illegittima. Anche in tal caso,
tuttavia, esigenze di tutela dell’affidamento altrui
possono emergere ogni qualvolta il pur giusto
provvedimento di annullamento venga adottato dopo molto
tempo, così vanificando gli effetti nel frattempo
stabilizzatisi: si pensi all’avviamento economico di un
locale aperto con una D.I.A. oggetto di annullamento
dopo il decorso di un anno o più. Ed il legislatore non
manca di cogliere tale possibile sfumatura, premurandosi
di prevedere che l’annullamento in sede di autotutela
possa essere adottato soltanto entro un termine
ragionevole; anche, inoltre, tenendo presenti gli
interessi dei destinatari e dei controinteressati in
combinazione con quelli dell’Ente (art 21 nonies comma 1
L.241/90), così richiamando l’attenzione dell’operatore
sull’esigenza di uno scrutinio ulteriore e diverso da
quello concernente la sussistenza delle ragioni di
interesse pubblico. Non può però del tutto escludersi
che anche l’annullamento intervenuto dopo un lungo lasso
di tempo, apparentemente irragionevole, possa invece
resistere giudizialmente qualora ci siano circostanze
tali da giustificarlo, e, in definitiva, renderlo
ragionevole: si pensi esemplificativamente al caso in
cui, in sede contenzioso, si faccia questione
dell’annullamento di una D.I.A. in materia edilizia,
operato dopo molto tempo, e, in particolare, dopo il
verificarsi di danni a terzi derivati proprio
dall’intervento originariamente assentito. Non di rado,
al riguardo, si è ritenuto che l’omessa vigilanza,
procrastinatasi nel tempo, non potesse dirsi negligente
proprio in ragione della vastità del territorio
controllato; così leggendo in senso restrittivo il dato
normativo sulla responsabilità per il danno cagionato da
cose in custodia (art 2051 c.c.), relativizzandone la
portata alle concrete possibilità di controllo, anche in
funzione della struttura burocratica esistente. |