Avv. Alfredo De Francesco
Sommario
1. Il thema decidendum
2. L’oggetto del contendere
3. Critica alla sentenza delle Sezioni unite penali
3.1 Sul potere di iniziativa cautelare in genere
3.2 Il fondamento “logico” del potere cautelare del VPO
secondo le Sezioni Unite
3.3 L’illogicità del ragionamento delle Sezioni Unite
Penali
4. L’iniziativa cautelare tra pubblico ministero e VPO:
soluzione di alcuni profili pratici
5. Conclusioni
1. Il thema decidendum
Il tema affrontato dalla decisione in oggetto è uno di
quelli all’apparenza assai specifici e marginali e, in
verità, alquanto noiosi, poiché ritenuti, non
impropriamente, appannaggio esclusivo di uditori assai
specializzati. La decisione in oggetto, del resto, si
inserisce nel contesto cautelare, conseguente
all’arresto o al fermo, con riferimento a soggetti
istituzionali secondari ed eventuali.
Le Sezioni Unite Penali, con la sentenza de qua
(consultabile si banca dati De Jure), sono state
investite della seguente questione: “se al vice
procuratore onorario, al quale ai sensi dell’art. 72
comma 1 lett. b) ord. giud. è rilasciata la delega a
svolgere funzioni di pubblico ministero nella udienza di
convalida dell’arresto e nel contestuale giudizio
direttissimo, debba riconoscersi anche il potere di
richiedere l’applicazione di una misura cautelare
personale, oppure, se occorra a tale fine una espressa
delega”.
Al quesito, l’Alta Corte risponde negativamente e
precisamente esprime detto principio di diritto: “la
delega conferita al vice procuratore onorario dal
procuratore della Repubblica, a norma degli artt. 72
comma 1 lett. b) ord. giud. e 162 disp. att. c.p.p., per
lo svolgimento delle funzioni di pubblico ministero
nell’udienza di convalida all’arresto o del fermo o in
quella di convalida all’arresto nel contestuale giudizio
direttissimo, comprende la facoltà di richiedere
l’applicazione di una misura cautelare personale,
dovendosi altresì considerare prive di effetto giuridico
limitazioni a tale iniziativa eventualmente contenute
nell’atto di delega”.
Tale assunto lascia non poche perplessità, poiché si è
nei fatti introdotta una legittimazione extra ordinem
del vice procuratore onorario a limitare la libertà
altrui, anche nel caso in cui il pubblico ministero
abbia dato indicazioni contrarie sul punto.
Ciò che si è ferito, con la sentenza de qua, non è
l’esegesi normativa, ma i principi ad essa sottostanti.
Non si tratta, dunque, di mera opinabilità, ma di una
vera e propria involuzione ermeneutica, che non può non
preoccupare gli animi più accorti.
La necessità di una attenta analisi sul punto si spiega
sol che si comprenda l’importanza pratica della
decisione. Il ragionamento ed il contesto di riferimento
sono complessi, ma questi possono semplificarsi se si
individua il cuore della questione. Sicché, per ben
comprendere le critiche che si intendono muovere in
proposito, si devono evidenziare i valori in gioco.
2. L’oggetto del contendere
La libertà personale è bene preziosissimo. Essa è, del
resto, garantita dalla nostra Carta fondamentale e da
normative internazionali, non ultima dalla Convenzione
per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle
libertà fondamentali (CEDU), contro ogni abusiva lesione
operata dall’Autorità statale.
Legalità e formalità sono i noti paradigmi entro i quali
detta libertà può essere limitata. Parafrasando l’art.
13 cost., infatti, non può ammettersi alcuna sua
restrizione se non per atto motivato dell’autorità
giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge.
Sul soggetto che può in effetti autorizzare la
limitazione, alla luce della legislazione nazionale
vigente, non vi è molta discussione: il giudice è figura
elettiva, mentre il pubblico ministero è solo
autorizzato, benché “ufficialmente” facente parte
dell’autorità giudiziaria, ad adottare provvedimenti del
tutto provvisori da convalidarsi necessariamente ed
entro termini strettissimi da un organo giurisdizionale.
La svolta sul punto è stata determinata dall’adozione
del “nuovo” codice di procedura penale: dovendo essere
il processo penale strutturato secondo logiche di
equilibrio di parti, non poteva ammettersi che la parte
pubblica potesse in qualche modo disporre direttamente
della libertà dell’imputato per mere esigenze
processuali, come un tempo si faceva con l’ordine di
arresto o di cattura (art. 393 c.p.p. 1930).
Con la riforma costituzionale sul “giusto processo” ed
in particolare con la costituzionalizzazione del
processo penale di parti, è da escludere un ritorno al
passato e, dunque, la possibilità per l’inquirente di
adottare misure cautelari personali contro l’accusato e,
in ogni caso, che il giudice possa, ex officio,
pronunciarsi sulla libertà altrui.
Definita la figura di chi “può” autorizzare la
restrizione della libertà personale, resta da chiarire
il modus.
Tutto è, nel nostro sistema costituzionale, demandato
alla legge, ma tale rimando non è né ondivago né labile:
la legge deve, infatti, stabilire tutti i presupposti
perché la restrizione possa in concreto avvenire. Ecco
che allora vanno indicati i soggetti che possono
rivolgersi al giudice, perché questi faccia arrestare,
custodire o mettere in detenzione un uomo, la forma, i
contenuti ed i tempi della domanda e, ovviamente, le
specifiche fattispecie dalla cui realizzazione deve o
può conseguire la limitazione della libertà personale.
Non è ammissibile, quindi, un rimando generico a tali
profili: la tassatività implica specificità. Del resto,
se tutto vale, tutti possono tutto quando vogliono. Il
che annulla il senso della motivazione del provvedimento
giurisdizionale nell’ambito de quo e ogni valenza al suo
controllo.
Peraltro, trattandosi di domanda rivolta ad un giudice
per l’applicazione di un dolore contro un uomo, vigendo
il diritto di difesa e riconosciuto il ruolo
fondamentale del contraddittorio, il procedimento
applicativo deve conformarsi a questi ultimi ed
essenziali valori procedurali, sicché deve essere almeno
dato, ove non sia prevista la possibilità di
interloquire prima dell’adozione del provvedimento
restrittivo, il diritto di replica a posteriori ovvero
un diritto a riesaminare i presupposti applicativi
mediante una impugnazione specifica.
Alla luce di quanto sopra, risulta come una estensione
giurisprudenziale dei profili e presupposti legali, che
autorizzano la restrizione della libertà personale, sia
inammissibile, dovendosi nella materia di cui si tratta,
optare sempre, specie nel dubbio o nell’ambiguità della
disciplina penale, in favore della libertà. E ciò non
per bieco tecnicismo o per amore di impunità collegate a
lacune normative, ma per il massimo rispetto che la
giurisdizione deve alla libertà personale, essendo il
giudice l’organo statale deputato a garantirne in
concreto la tutela e l’effettività di tale diritto.
Se ciò non avviene, ogni lagnanza per l’arbitrio perde
di significato e con essa il senso stesso delle garanzie
costituzionali.
3. Critica alla sentenza delle Sezioni unite penali
Ecco che allora non può non stupire la decisione in
commento e la ragione di una sua critica accorata. In
essa, non vi è semplice discussione tecnica sui ruoli e
sulle competenze di una figura accessoria del processo
penale, il vice procuratore onorario (di seguito
indicato come “VPO”), ma dei suoi poteri e delle sue
competenze nell’ambito della privazione della libertà
personale.
La legge processuale e quella ordinamentale non
attribuiscono affatto al VPO alcun potere di avanzare
domande cautelari coercitive, né, invero, risulta che
egli possa in qualche modo azionare autonomamente fasi o
gradi (seppur incidentali) del procedimento che possano
condurre alla limitazione della libertà personale (vedi
art. 72 ord. giud.). Egli, infatti, può solo
partecipare, per quel che qui maggiormente interessa, ad
udienze, all’evidenza fissate a seguito di attività
promosse dal pubblico ministero professionale. In tali
contesti, il ruolo del VPO è quello di argomentare, se
lo ritiene, a sostegno delle richieste aliunde avanzate.
Si spiega allora la sua partecipazione non solo alle
udienze dibattimentali, ma anche a quelle di convalida
dell’arresto o del fermo.
Tale conclusione non viene scalfitta dal rilievo per cui
anche il VPO dovrebbe godere dell’autonomia decisionale
di cui all’art. 53 c.p.p.. Altro è, infatti, avere la
facoltà di non sostenere, contro la propria scienza e
coscienza, una domanda avanzata dal pubblico ministero
delegante, altro è inferire da ciò un potere di avanzare
domande o iniziative processuali autonome, id est non
delegabili. Il VPO è un delegato d’udienza del pubblico
ministero ed in quella sede assume le vesti di pubblico
ministero, ma non può per ciò stesso sostituirsi ad esso
in tutte le facoltà processuali che la legge riserva a
tale fondamentale figura istituzionale. Quanto meno ciò
non può ammettersi senza espressa previsione di legge.
Tanto più che, a fronte della richiesta di convalida
dell’arresto e nell’ambito delle udienza dibattimentali
delegate al VPO, quest’ultimo non può ritrattare la
convalida o l’azione penale: egli può solo, senza che
ciò costituisca un vincolo per il giudice, concludere in
merito anche non conformemente alle istanze originarie
del pubblico ministero. Tuttavia, un’eventuale discrasia
sul punto tra VPO e magistrato inquirente professionale,
non fa venir meno la domanda del pubblico ministero ed
il conseguente dovere per il giudice di pronunciarsi in
merito.
Né, oltremodo, può ricavarsi dalla potenziale autonomia
del VPO nel prestare il consenso alla definizione del
procedimento con l’applicazione della pena su richiesta
delle parti ovvero a procedere a nuove contestazioni,
giusto il disposto dell’art. 162 comma 3 disp. att.
c.p.p., una sostanziale autonomia dei poteri dello
stesso VPO rispetto a quelli delegabili ex lege dal
pubblico ministero.
E’ ben vero che le ipotesi in questione costituiscono
delle eventualità e persino dei casi imprevedibili, che
possono accadere in udienza, ma tutte, si ripete, tutte
tali iniziative si connettono comunque all’azione penale
originariamente mossa dal pubblico ministero ordinario e
mirano, nella sostanza, ad evitare che una inezia del
VPO sul punto, possa provocare una “inutile” e
“dispendiosa” celebrazione del dibattimento. Sul punto
sono inequivocabili l’art. 521 comma 2 c.p.p., che
prevede la restituzione degli atti nel caso in cui non
si sia proceduto alle nuove contestazioni, e l’art. 448
comma 1 ult. per. c.p.p., che prevedere che il giudice
all’esito del dibattimento può applicare la diminuente
del rito, nel caso in cui il dissenso al patteggiamento
sulla pena della parte pubblica, sia ingiustificato.
Da quanto sopra, quindi, emerge che l’autonomia
d’udienza del VPO non incide giuridicamente sulle scelte
originarie del pubblico ministero. Essa, invero, le
presuppone e, quand’anche il VPO possa incidere su
queste ultime, ciò avviene solo allorché il giudice, in
caso di mancata iniziativa del VPO, a stretto rigor di
legge, non potrebbe decidere nel merito ovvero lo
potrebbe comunque fare ma a seguito di un inutile
dibattimento, essendo le richieste sul rito alternativo
avanzate dall’imputato ragionevoli ed accettabili.
3.1 Sul potere di iniziativa cautelare in genere
Come ha giustamente riconosciuto la Suprema corte nella
sentenza de qua, non è nei contenuti specifici della
singola delega, che possono rinvenirsi i parametri di
riferimento dei poteri, ma nelle disposizioni di legge
ed in particolare in quelle dell’ordinamento
giudiziario: <<il contenuto della delega è circoscritto
per materia dall’ordinamento giudiziario e non dalle
disposizioni del procuratore della Repubblica…; la
delega costituisce il fondamento per il legittimo
esercizio delle funzioni requirenti, ma non segna il
confine entro il quale l’onorario può determinarsi in
modo autonomo in udienza; le condizioni o restrizioni
eventualmente inserite nella delega devono considerarsi
come non apposte, per cui il giudice non deve tenerne
alcun conto, spettandogli solo di controllare se la
delega sia conferita con il rispetto degli artt. 72 ord.
giud. e 162 disp. att. c.p.p.>> (così Cass. Sez. Un.
Pen., sentenza n. 13716/2001 cit. punto 5 del
Considerato in diritto).
Ma se così è, è oltremodo vero che la disciplina legale
delle misure cautelari personali non è data dalle leggi
di ordinamento ma dal codice di rito, salvo che si
ricada (ma non è questo il caso) in eventuali leggi o
disposizioni speciali.
Nel codice di procedura criminale la norma fondamentale
in materia è data dall’art. 291 c.p.p., che attribuisce
al pubblico ministero il potere di impulso de quo;
potere che all’evidenza è autonomo, benché connesso,
alle altre funzioni allo stesso attribuite dalla legge.
Che ciò sia, deriva dal semplice fatto che dalla
titolarità dell’azione penale non consegue, né
giuridicamente né logicamente, il potere di domandare la
custodia dell’imputato (essendo il tutto subordinato a
condizioni legali oltre che al vaglio giurisdizionale).
Tale autonomia, peraltro, emerge in senso ampio
considerando che al pubblico ministero, oltre
all’esercizio dell’azione pubblica, spettano ulteriori
iniziative proprie della funzione, che evidentemente ne
delineano il ruolo processuale (arg. ex art. 178 comma 1
lett. b c.p.p.).
Nulla vieta in potenza che tali funzioni ed iniziative
possano essere delegate, ove la legge lo consenta: si
tratta solo di comprendere se, seppur in casi specifici
o in determinati contesti, altri soggetti possano
procedere autonomamente e, dunque, senza delega
specifica ovvero a prescindere dalla stessa.
Sul punto e venendo peraltro al centro del problema, in
tema di udienza di convalida, la partecipazione
personale dell’accusa pubblica non è necessaria, ma è
pur vero che nel caso in cui non ritenga di comparire,
il pubblico ministero deve trasmettere al giudice le
richieste in ordine alla libertà personale con gli
elementi su cui le stesse si fondano (art. 390 comma
3bis c.p.p.).
In tale contesto, non è necessario, nel caso in cui si
debbano applicare misure cautelari personali, l’assenso
scritto del procuratore della Repubblica o di un suo
delegato (art. 3 comma 4 D. lgs. 106/2006) per evidenti
ragioni d’urgenza, ma tale deroga non inficia l’assunto
secondo cui il potere cautelare è di regola in capo al
pubblico ministero.
Tanto più che se si tratta di convalida di fermo, un
vaglio preliminare si è già svolto a monte con l’assenso
scritto del procuratore della Repubblica o di un suo
delegato ex art. 3 comma D. lgs. n. 106/2006.
Peraltro, seppur si può condividere l’assunto secondo
cui il visto, di cui si tratta, non si configura come
condizione di ammissibilità della domanda cautelare (sul
punto vedi Sezioni unite Penali sentenza 22 gennaio 2009
n. 8388 consultabile in banca dati De Jure), da ciò non
deriva che l’autonomia decisionale sulla richiesta
cautelare sia in capo a soggetti diversi dal magistrato
inquirente.
In sostanza, nell’attuale conformazione normativa così
come in quella precedente, non risulta che magistrati,
diversi da quelli appartenenti all’ufficio del pubblico
ministero, possano procedere autonomamente a richiedere
l’applicazione di misure cautelari.
3.2 Il fondamento “logico” del potere cautelare del VPO
secondo le Sezioni Unite
La sentenza in commento riconosce quest’ultimo punto,
tanto che in essa si legge: <<è appena il caso di
rilevare come il pubblico ministero sia il soggetto cui
spetta il potere di sollecitare l’applicazione di una
misura cautelare e che, di norma, in assenza di una sua
specifica e formale richiesta, la libertà personale non
possa essere limitata configurandosi altrimenti una
nullità di ordine generale ed assoluta>> (così nel punto
6 del Considerato in diritto).
Se non che, a detta delle Sezioni Unite Penali, da ciò
non si ricava affatto che sia inibito un potere autonomo
del magistrato onorario una volta che sia delegato
all’udienza di convalida e pur in assenza di un titolo
autorizzativo. Tanto più che argomentando a contrario,
cioè se si sostenesse che senza delega il VPO non
potrebbe chiedere la misura cautelare, <<ne deriverebbe
una incongruenza: il legislatore avrebbe ammesso a
partecipare alla udienza di convalida un soggetto
abilitato a prendere posizione solo in relazione alla
legittimità dell’arresto>>, posto che <<l’oggetto del
contraddittorio nell’udienza prevista dall’art. 391
c.p.p. deve ritenersi esteso all’intero tema della
decisione, che comprende non solo la valutazione sulla
legittimità dell’operato della polizia, ma, anche, e, se
del caso, la richiesta di applicazione di una misura
cautelare personale>>. Da qui la conclusione per cui
<<implicitamente, ma chiaramente, il legislatore ha
attribuito al magistrato la possibilità di interloquire
in relazione a tutte le attività da espletare>>
nell’udienza di convalida. Ma se così è, prosegue la
Corte, posto che la richiesta della misura cautelare
personale è un elemento eventuale ma fisiologico di tale
udienza e poiché <<nessuna norma richiede che, per il
procedimento applicativo di tale misura, il magistrato
onorario sia munito di una specifica delega e, quindi,
nessuna norma prevede la invalidità della misura non
preceduta dall’assenso del delegante>>, è giocoforza
ammettere che <<la necessità di una specifica
autorizzazione al magistrato onorario, non imposta dalla
legge e non desumibile dal sistema, non può essere
affermata in via interpretativa>> (così, anche per le
precedenti citazioni, al punto 6 del Considerato in
diritto della sentenza in commento).
Da qui l’enucleazione del principio di diritto più sopra
enunciato e qui criticato.
3.3 L’illogicità del ragionamento delle Sezioni Unite
Penali
Pur col massimo rispetto dovuto, non si può non notare
come il ragionamento della Suprema Corte sia illogico.
In tanto può essere oggetto di decisione del giudice
della convalida l’applicazione di una misura cautelare,
in quanto vi sia una domanda. Nessuno esclude che il VPO
possa interloquire in merito e possa, sussistendo una
domanda cautelare, argomentare anche per la sua non
applicazione. Si domanda se il VPO possa estendere a
proprio arbitrio il tema dell’udienza di convalida, per
il sol fatto che vi partecipi a seguito di delega
generica del pubblico ministero o persino contro le
indicazioni ricevute in merito. Qui la conclusione non
può che essere negativa sia per ragioni logiche che di
valore. Essendo il punto di fondamentale importanza
convien trattarne compiutamente.
Si ammetta pure, per ipotesi, che chi può avanzare una
domanda al giudice possa anche argomentarne la
fondatezza innanzi allo stesso. Ma quand’anche ciò sia,
non si può razionalmente sostenere che, se ciò è, data
la possibilità di argomentare sopra una domanda, si può
anche avanzarla. Tale è invece l’argomentazione
dell’Alto consesso. Il salto logico del ragionamento
della Corte è, infatti, innegabile, poiché dal
conseguente (possibilità di sostenere autonomamente una
domanda cautelare) si fa derivare l’antecedente
(possibilità di avanzare autonomamente una domanda
cautelare) sulla sola base del silenzio normativo o, per
meglio dire, sul fatto che non vi sono chiare
indicazioni legali contrarie.
Ciò potrebbe essere se e solo se vi sia equivalenza, se
non logica ma almeno giuridica, tra soggetto proponente
la domanda e soggetto deputato a sostenerla innanzi al
giudice. Ma tale equivalenza non può essere affermata.
Non è vero, infatti, che chi può discutere autonomamente
di una qualunque domanda può anche avanzarla. Ciò vale
per la difesa, ma anche per l’accusa, dove, per esempio,
è innegabile che il VPO non può esercitare l’azione
penale in via autonoma, benché possa discuterne la
fondatezza in udienza. Non è peraltro vero neppure il
contrario e cioè che chi avanza una domanda può sempre
discuterla, come è dimostrato dalla disciplina d’udienza
delle impugnazioni specie in sede di Corte di
cassazione. Del resto, le funzioni processuali in
questione sono diverse e diverse e distinti possono
essere anche i soggetti deputati a tal fine dalla legge
processuale.
Dai profili accennati, quindi, risulta che il silenzio
della legge sul punto in questione non vale ad ammettere
generalizzazioni improprie, ma ad escluderle. Né si può,
come pure indicano le Sezioni Unite, far leva sopra la
mancanza di specifiche sanzioni processuali, nel caso di
richiesta cautelare avanzata dal VPO, per affermare la
correttezza del ragionamento qui avversato. Essendo
l’attività preclusa ex se per difetto assoluto di
competenza, non si vede in quale altro modo la legge
dovrebbe disciplinare la fattispecie: non esiste una
specifica sanzione, poiché l’atto è di per sé vietato
spettando l’iniziativa cautelare solo al pubblico
ministero (art. 291 c.p.p.). Ed anche ad ammettere che
il tutto non sia sanzionato da nullità generale ex art.
178 comma 1 lett. b) c.p.p. è però evidente non vi è
alcun “vuoto normativo”, attesa la stretta legalità
della materia (art. 272 c.p.p.): il giudice non può non
respingere una domanda cautelare autonoma del VPO per il
semplice fatto che <<non è ammessa forma alcuna di
detenzione, di ispezione o perquisizione personale, né
qualunque altra restrizione della libertà, se non … nei
soli casi e modi previsti dalla legge>> (art. 13 comma 2
cost.).
4. L’iniziativa cautelare tra pubblico ministero e VPO:
soluzione di alcuni profili pratici
Essendo il pubblico ministero, nella ricostruzione
effettuata, l’unico soggetto deputato ad avanzare una
richiesta cautelare, è evidente che il VPO può solo
avere funzioni delegate, fermo restando una sua
autonomia ex art. 53 c.p.p..
Se ciò è, non pare inopportuno fornire alcune
indicazioni per eventuali casi, che possono presentarsi.
Del resto, ammessa la titolarità esclusiva del pubblico
ministero in materia cautelare è bene andare sul
concreto. Data la finalità tipicamente pratica
perseguita, conviene procedere per fattispecie. Si
venga, quindi, al punto.
-
Richiesta cautelare avanzata per iscritto dal pubblico
ministero; mancanza espressa di delega cautelare al VPO.
Il giudice può pronunciarsi in merito adottando la
decisione ritenuta di giustizia.
Tale conclusione non muta nel caso in cui il VPO si
ponga in contrasto con l’iniziativa del magistrato
inquirente, vuoi perché richieda l’applicazione di
misura meno afflittiva, vuoi perché sostenga la sua
infondatezza.
La posizione di favore del VPO (magari scaturita dal
contraddittorio d’udienza) ovviamente potrà essere
elemento argomentativo per giustificare la mancata
applicazione della misura massima auspicata dal pubblico
ministero, ma non potrà giustificare un mancato
pronunciamento sul punto.
Esiste una legittima domanda cautelare ed il giudice
procedente deve provvedervi.
-
Richiesta cautelare avanzata dal pubblico ministero con
delega cautelare al VPO
In tale caso, il VPO viene investito dell’intera domanda
cautelare e quindi ha la possibilità di avanzare
modifiche e integrazioni, sempre se comprese nella
delega.
Un eventuale contrasto non si pone, poiché il pubblico
ministero si è comunque rimesso, in tutto o in parte,
all’autonomia del VPO, essendo peraltro chiara la
volontà cautelare del magistrato professionale.
Qui quel che vale, quindi, è la volontà ultima
manifestata dal VPO.
Tuttavia, se nulla viene detto in udienza, il giudice
può riferirsi all’istanza originariamente avanzata dal
pubblico ministero, che per l’effetto non può intendersi
come automaticamente caducata.
Il VPO potrà impedire al giudice di pronunciarsi sulla
cautela se tale facoltà risulterà dalla delega: in caso
contrario, nulla di ciò potrà essere.
Insomma, il VPO può incidere nella misura in cui ciò gli
è espressamente consentito dal pubblico ministero.
E’ appena il caso di osservare che in questo contesto la
delega cautelare al VPO non crea una discrasia con
l’art. 72 ord. giud.. Infatti, non si tratta di
estendere le attività oltre i contesti ammessi, ma di
fornire indicazioni specifiche per quel che può accadere
nell’udienza (specie di convalida), affidando se del
caso e per ragioni di giustizia una discrezionalità al
VPO rispetto a quanto indicato dal magistrato prima del
contraddittorio.
In termini ancor più chiari, anche se con delega la
volontà cautelare è sempre riconducibile al pubblico
ministero, il quale risulta così sempre il dominus
dell’iniziativa procedimentale de qua.
L’azione cautelare è allora sempre unica, ma si può
manifestare sotto forma di atto complesso a formazione
progressiva, poiché integrabile per relationem con quel
che accadrà in udienza.
Nulla peraltro vieta al pubblico ministero di
intromettersi nel corso dell’udienza, per quanto
concerne le richieste cautelari, mediante l’invio di una
specifica ed ulteriore istanza, che integra o
sostituisce in tutto o in parte quella originaria.
Se ciò accade, il giudice deve tener conto delle ultime
volontà del pubblico ministero, essendo il VPO spogliato
di ogni potere in merito.
-
Il pubblico ministero conferisce una delega cautelare
espressa e specifica al VPO, ma non vi è una domanda
cautelare originaria
Qui ogni aspetto cautelare dipende, nei suoi contenuti,
dalla volontà del VPO.
Il silenzio vale come mancanza di domanda ed il giudice
non può pronunciarsi.
Sul senso della delega del pubblico ministero, rispetto
all’ordinamento giudiziario, vale quanto detto al
precedente punto.
-
Medesimo contesto di cui al punto precedente, ma il
pubblico ministero invia, nel corso dell’udienza, una
domanda cautelare autonoma
In questa ipotesi, prevale il volere ultimo del pubblico
ministero.
La delega cautelare si ha per revocata e con essa ogni
potere del VPO.
In sostanza si ricade nella prima ipotesi più sopra
prospettata: non mutando le conclusioni, si rinvia a
detta sede per gli approfondimenti.
-
Il pubblico ministero affida una delega generica al VPO
E’ questo il caso più controverso e che ha dato origine
al contrasto giurisprudenziale.
In linea di principio, dovrebbe ritenersi che in assenza
di indicazione espressa la delega a partecipare
all’udienza dibattimentale o relativa alla convalida
dell’arresto non attribuisca un potere cautelare al VPO
(in tal senso vedi, per il dibattimento, Cass. Pen. Sez.
VI sentenza 3 dicembre 2008 n. 4290 e, per l’udienza di
convalida, Cass. Pen. Sez. V sentenza 6 novembre 2009 n.
4438 entrambe consultabili su banca dati De Jure).
Tale principio, in assenza di dati contrari, non può
essere derogato.
Sicché il VPO non può, come più sopra indicato, avanzare
una domanda cautelare in via autonoma specie in
dibattimento.
Vi possono, tuttavia, essere situazioni ambigue, nelle
quali si può dubitare del fatto che il pubblico
ministero non abbia voluto delegare un potere cautelare.
Ciò vale specialmente e, direi, quasi esclusivamente nei
casi in cui, in vista della convalida, l’arrestato o il
fermato non sia stato liberato ai sensi dell’art. 121
disp. att. c.p.p., secondo cui questi vanno posti in
libertà dal pubblico ministero quando non si intenda
richiedere l’applicazione di misure coercitive.
In tale contesto, il più rilevante ai fini pratici, si
può in effetti pensare che il magistrato inquirente
abbia in realtà delegato il VPO non solo a partecipare
all’udienza di convalida ma anche ad avanzare richieste
cautelari.
Ciò però può essere solo se la delega de qua, in ogni
caso da esibirsi (arg. ex art. 162 comma 1 disp. att.
c.p.p.), è specifica per il procedimento in corso o per
l’udienza di cui si tratta e non anche quella generica.
Che ciò sia deriva dal fatto che la richiesta cautelare
deve pur sempre ricondursi alla volontà dell’inquirente;
volontà cautelare che non può essere presunta, vigendo
il principio della libertà in sede processuale
dell’imputato (artt. 13 e 27 comma 3 cost.).
Ad ogni modo nel dubbio e nel caso in cui il VPO non
fornisca, anche sotto la propria responsabilità,
conferme sul proprio potere, magari integrate con
attestazioni del pubblico ministero, si deve escludere
qualunque legittimazione.
Delineati, seppur sinteticamente i casi pratici più
particolari, è giunto il tempo di concludere.
5. Conclusioni
<<Nel conflitto tra i due interessi pubblici tutelati
dalle norme processuali penali, quando la volontà della
legge non imponga espressamente la prevalenza dell’uno
sull’altro, questa deve essere riconosciuta
all’interesse relativo alla libertà individuale>> (V.
Manzini, Trattato di diritto processuale penale, Vol. I,
pag. 184, UTET ed. 1931). Così si scriveva in tempi in
cui vigevano idee buie per i diritti umani e per le
libertà fondamentali. Un tale assunto non può non valere
ed a maggior ragione in contesti costituzionali fondati
sul rispetto dell’uomo.
Nella sentenza qui criticata, si comprendono le ragioni
pratiche del principio di diritto enunciato. Non si
condividono, tuttavia, né le implicazioni di sistema né
il pericolosissimo iter argomentativo.
Il VPO è organo ausiliario del pubblico ministero e come
tale va trattato. Si può discutere se a tale figura
devono essergli attribuiti maggiori poteri di
iniziativa. Ma tutto ciò non autorizza lassismi in tema
di tutela della libertà personale.
E’ di solare evidenza che la delega generica e
generalizzata al VPO a partecipare ad udienze di
convalida, se può semplificare la procedura
amministrativa d’investitura e può giustificarsi nei
confronti di soggetti che hanno fornito adeguate “prove
di affidabilità”, mal si concilia con le necessità di
garanzia che ancora sussistono nel nostro sistema
processuale penale.
Quando si chiede l’applicazione di una sofferenza, anche
se nei confronti di soggetti miserabili, vi è necessità
di ponderazione e critica e, soprattutto, di analisi
specifica del caso.
Il contesto normativo sul punto autorizza, seppur
indirettamente, prassi lassiste, laddove le indicazioni
di cui all’art. 121 disp. att. c.p.p. non vengano
rispettate. L’arrestato è portato spesse volte innanzi
al giudice in stato di ristrettezza, senza che il
pubblico ministero sappia compiutamente del caso o, per
meglio dire, senza che lo conosca nei minimi dettagli,
tanto da non potersi determinare, in tutta scienza e
coscienza, sulla necessità della custodia cautelare o di
altra misura coercitiva. Non potendo o volendo comparire
in udienza e non avendo liberato il ristretto, il
pubblico ministero dovrebbe comunque dare indicazioni
sulla libertà di quello (arg. ex art. 390 comma 3bis
c.p.p.). Date le formalità richieste, le strette
tempistiche, il carico di lavoro dell’ufficio e la
conoscenza non sempre approfondita del caso è meglio,
dunque, inviare il VPO di turno affinché consideri la
situazione mediante l’audizione degli operanti e
dell’indagato, magari alla luce di una non banale
arringa difensiva.
Non è impropria, quindi, la partecipazione del VPO
all’udienza di convalida né è di per sé censurabile che
questi abbia la possibilità di richiedere, con una certa
discrezionalità, l’applicazione di misure cautelari,
auspicata dal pubblico ministero. Ma se tutto ciò è
inevitabile, vista l’attuale situazione ordinamentale ed
organizzativa della giustizia nostrana, è pur vero che
il tutto va comunque incanalato entro margini di
legalità e soprattutto di responsabilità istituzionale.
Il pubblico ministero è il solo soggetto che può
avanzare in via autonoma istanze cautelari. Egli può
delegare tale suo potere, ma non in senso generico,
implicito e in via generale ed astratta. La delega
cautelare, insomma, può esserci ma va data chiaramente
per il singolo procedimento e a quello specifico VPO.
Qui deleghe in bianco, oltre ad inquietare gli animi
amanti delle libertà, sono un vero non senso
costituzionale.
In fondo, quel che maggiormente rattrista nel leggere la
sentenza delle Sezioni Unite Penali in questione è
l’emergere dell’idea, purtroppo sempre più presente e
forte nel nostro ordinamento processuale penale, secondo
cui, benché tutto sia forma, le forme sono per lo più
inutili, sicché si deve procedere sempre più alla loro
semplificazione. Ma una tale aspirazione, applicata alle
limitazioni della libertà, conduce all’annientamento
delle garanzie.
Si può, anzi si deve semplificare, ma senza
compromettere valori e principi.
Ammessa l’autonomia cautelare del VPO, sol perché vi è
una delega generica per partecipare ad udienza non solo
di convalida, considerato altresì che la sua
applicazione, in violazione dell’art. 72 comma 3 ord.
giud., a procedimenti diversi da quelli “semplici” a
citazione diretta non determina alcuna nullità (vedi,
tra le tante, Cass. Pen. Sez. I sentenza 14 marzo 2007
n. 21350 rinvenibile banca dati De Jure), sarà
giocoforza ammettere che il VPO potrà in qualunque
processo avanzare istanze cautelari, purché in udienza,
in aggiunta a quelle eventualmente proposte dal pubblico
ministero. Il che, alla lunga, porrà delicati profili
per eventuali conflitti tra poteri o competenze con il
pubblico ministero ed implicherà, verosimilmente,
l’erosione dello stesso concetto di “giudicato
cautelare”, posto che la preclusione sul punto relativa
ad un organo non vale, a stretto rigore, per l’altro. Il
tutto, naturalmente, in totale danno per l’imputato.
Essendo il tutto frutto di considerazioni
giurisprudenziali, nell’epoca nostra sempre più
instabili, non è improprio auspicare un salutare
ripensamento, anche se una tale speranza è allo stato
alquanto vana e non prossima al realizzarsi. Ma il punto
non sconforta. Dopo tutto, non avvilire valori non è mai
inutile, seppur costi tanta fatica non solo
intellettuale. |