Il decreto legislativo n. 28 del
2010 propone la mediazione come strumento utile al
perseguimento della conciliazione della lite, ma non
consente agli utenti la scelta di praticabilità del
tentativo, costituendo questione di procedibilità
processuale.
Il tentativo mancato è infatti
sanzionato dalla improcedibilità dell’iniziativa
giudiziaria, suscettibile di essere eccepita dalla parte
convenuta ovvero di essere rilevata dal giudice
d’ufficio, sia pure, quindi, nell’accordo delle parti.
La norma non consente scelte di opportunità all’utente
ed introduce, pertanto, nell’azione civile il principio
dell’obbligatorietà della sottoposizione della materia
litigiosa al terzo estraneo, né giudice, né arbitro,
definito mediatore, le cui capacità di interlocuzione
con le parti litigiose, in merito alla materia
controversa, e di proposta conciliativa, sono
presupposte per legge, in esecuzione della legge. Il
provvedimento ha attratto non poche critiche in sede
curiale, ma il governo, responsabile della articolazione
e della formulazione della norma, ha difeso il
provvedimento attribuendo alle critiche del ceto forense
specifica valenza corporativa. In sostanza, gli avvocati
non gradirebbero il provvedimento ritenuto idoneo a
smascherare la capziosità strumentale di gran parte
delle liti. La norma, negli intenti della politica,
sancirebbe pertanto la precedenza valoriale dell’etica
della mediazione sull’etica della prestazione di
assistenza. A questa attribuzione di inconsapevolezza
professionale e di responsabilità etica e giuridica non
è stato finora replicato dalle istituzioni
rappresentative del ceto forense con proposte solutive
del carico di giustizia civile, che, per opinione
largamente condivisa, offende la qualità della risposta
offerta all’utenza. Il provvedimento normativo in
questione non appare utile allo scopo, essendo destinato
a provocare sovrapposizioni piuttosto che
semplificazioni, ma è soprattutto illiberale e quindi
incoerente con le indicazioni di tendenza sia
dell’ordinamento europeo che dell’ordinamento interno,
perché fonda il suo presupposto nella
deresponsabilizzazione del ceto forense, ritenuto, ormai
per legge, causidico e del tutto incapace di adire i
tribunali soltanto in caso di effettiva controversia su
punti insanabili della lite.
Non è in discussione che i
protagonisti del processo, parti, avvocati e giudici,
possano svolgere un ruolo più diligente nella conduzione
delle cause, e tuttavia il carico oggettivamente abnorme
rispetto alle medie europee provoca un impatto e un
attrito di difficile soluzione nell’ambito del processo
(questo elemento di analisi presupposta della normativa
in questione è del tutto condivisibile), se non mediante
il ricorso alle vigenti regole della deontologia forense
e della correttezza processuale richiesta alle parti ed
ai difensori. E’ noto che l’etica forense richiede agli
avvocati comportamenti conformi agli effettivi interessi
giuridicamente rilevanti delle parti, consistenti nella
formulazione di pareri previ sulla sostenibilità della
lite e nella adozione di modalità difensive trasparenti
e ineccepibili sia in sede preprocessuale che in sede
processuale. La mancata adozione di tali comportamenti
costituisce illecito deontologico ed assume rilevanza
processuale, se ai principi e alle regole è consentita
la effettiva concretizzazione nella pratica forense. La
fase preprocessuale non sarebbe delegata alle
(indimostrate) capacità intuitive e tecniche del
mediatore terzo, potendo essere condotta mediante
scambio di atti per corrispondenza, preordinata nei
tempi e nei modi, sui punti controversi tra i rispettivi
legali, all’esito costituendo vincolo giudiziariamente
rilevante tra le parti, ai fini della decisione, sia la
risposta offerta, che la risposta denegata, nell’ambito
del procedimento selettivo degli aspetti di lite. Tanto
gli ordini di appartenenza, quanto i tribunali, rispetto
all’osservanza puntuale delle norme in questione e alle
conseguenze efficaci nei rapporti tra le parti, sono
chiamati ad offrire l’assistenza richiesta, tanto in
termini di sanzione, quanto in termini di adesione
deliberativa ai punti definiti nell’ambito della fase
precedente il giudizio, destinato ad essere circoscritto
al punto irrisolto tra le parti ed unicamente a quello,
con economia di tempo, spese e formalità. Le liti
inesistenti o inconsistenti sono così destinate ad
essere effettivamente smascherate e gli avvocati,
consapevoli del ruolo e delle responsabilità
professionali e sociali, rispettosi dell’etica e
rispettati dalla società, sono impegnati,
conseguentemente, a coltivare le capacità e a perseguire
le ragioni del merito.
Diversamente, si prefigurano fin
d’ora sia la questione di legittimità della norma,
incoerente con i principi costitutivi e costituzionali
del giusto processo, ed una inaccettabile prospettiva di
una, purtroppo inavvertita, ma effettiva, mediazione
dell’etica, rinunciataria, demeritocratica, illiberale. |