Il rapporto di lavoro, come è noto,
obbliga il lavoratore a prestare la propria opera e il
datore di lavoro al pagamento della retribuzione così
come disciplinato dall’articolo 2099 del codice civile.
Il comma terzo, inoltre, stabilisce
che, “il prestatore di lavoro può anche essere
retribuito in tutto o in parte con partecipazioni agli
utili o ai prodotti, con provvigione o con prestazioni
in natura”.
Ciò, sta a significare che pure le
retribuzioni cosiddette “in nero” obbligano in fatto e
in diritto il datore di lavoro e il medesimo lavoratore
a dichiarare quegli emolumenti al fisco, a prescindere
da irrilevanti condotte o atteggiamenti di buona fede o
altre infondate cause esimenti.
In vero, l’articolo 49 del Decreto
Presidente della Repubblica del 22 dicembre 1986 n. 917,
cioè il Testo unico sulle imposte sui redditi afferma
che, per redditi da lavoro dipendente si intendono
quelli derivanti da rapporti aventi per oggetto la
prestazione di lavoro, con qualsiasi qualifica, alle
dipendenze e sotto la direzione di altri, compreso il
lavoro a domicilio, secondo quanto disciplinato dalla
legislazione sul lavoro.
Altresì, il successivo articolo 51
del T.U.I.R. in particolare il comma 1, definisce il
reddito di lavoro dipendente quello costituito da tutte
le somme e i valori in genere, a qualunque titolo
percepiti nel periodo d’imposta, anche sotto forma di
erogazioni liberali, in relazione al rapporto di lavoro.
Dunque, si può ragionevolmente
sostenere che tutto quanto il datore di lavoro
corrisponde, sotto forma di somma di denaro o come
compensi in natura al proprio dipendente costituisce
imponibile.
Le somme e i valori in genere,
indicati nel sopra menzionato articolo 51 del T.U.I.R.
in quanto riconducibili al rapporto di lavoro sono stati
elencati a titolo esemplificativo nella circolare
dell’Agenzia delle Entrate n. 326/E del 23 dicembre 1997
(gli stipendi, le pensioni e ogni tipo di trattamento
accessorio, gli straordinari, le mensilità aggiuntive,
le somme e i valori percepiti sotto forma di
partecipazione agli utili, i rimborsi spese con
esclusione delle trasferte e dei trasferimenti etc.
etc.).
In definitiva, in materia
tributaria ciò che ha prodotto ricchezza e capacità
contributiva al soggetto che l’ha percepito può e deve
essere tassato.
Ora veniamo al caso.
A seguito di ispezione in
un’azienda, si acclarava che un lavoratore dipendente,
assunto con un contratto part-time di 20 ore
settimanali, di fatto svolgeva la sua attività a tempo
pieno, superando in diverse occasioni anche le 40 ore
settimanali.
Conseguentemente al sequestro di
atti e documenti anche di lavoro, il responsabile
dell’azienda, forse per mera distrazione, aveva
ingenuamente conservato, trascritte doviziosamente su di
un’agenda, tutte le ore effettuate da quel dipendente
con le relative retribuzioni, ovviamente pagate “in
nero” e non assoggettate a ritenuta d’acconto.
Sentito a spontanee dichiarazioni e
in particolare sul suo rapporto di lavoro e sulle ore
effettivamente svolte, il dipendente confermava di aver
percepito per l’attività prestata, eccedente il
contratto part-time, somme di danaro non assoggettate al
fisco e a contribuzione.
In definitiva, la retribuzione da
questi percepita non corrispondeva realmente alle buste
paga che pure gli venivano rilasciate con cadenza
mensile dal proprio datore di lavoro.
In ragione di tale inadempienza,
entrambi i soggetti venivano deferiti all’Erario in
quanto ritenuti, evidentemente, evasori fiscali per aver
omesso di dichiarare quei celati emolumenti.
Tuttavia, nonostante la limpidezza
dei fatti, ben supportati da riscontri oggettivi nonché,
per stessa ammissione del lavoratore interessato,
quest’ultimo si difende sul punto e tenta di
giustificarsi asserendo di non essere obbligato
fiscalmente per il semplice fatto che quell’onere è solo
in capo al datore di lavoro quale sostituto di imposta.
Pertanto, se la sua Ditta non aveva
effettuate le relative trattenute fiscali e
previdenziali il medesimo doveva, a suo dire, ritenersi
esentato da tale impegno.
Dopo vari giudizi, investita della
questione anche la Suprema Corte di Cassazione le
doglianze sopra registrate sono state ritenute infondate
sulla base di queste argomentazioni.
“In presenza dell’obbligo di
effettuare la ritenuta di acconto, diretta ad agevolare
non solo la riscossione ma anche l’accertamento degli
obblighi del percettore del reddito, l’intervento del
“sostituto” lascia inalterata la posizione del
sostituito, il quale è specificamente gravato
dell’obbligo di dichiarare i redditi assoggettati a
ritenuta, poiché essi concorrono a formare la base
imponibile sulla quale, secondo il criterio di
progressività, sarà calcolata l’imposta dovuta,
detraendosi da essa la ritenuta subita come
anticipazione del prelievo. Da ciò consegue che, quando
la ritenuta non sia stata operata su emolumenti che pur
costituiscono componente di reddito alla omissione il
percettore, dovrà ovviare, dichiarando i relativi
proventi e calcolando l’imposta sull’imponibile alla cui
formazione quei proventi hanno dato concorso”
(Cassazione civile-Sezione Tributaria nr.987/11
depositata il 5 maggio 2011).
In conclusione, i compensi
percepiti in ragione di un prestazione lavorativa e
sotto qualsiasi forma, costituiscono componente di
reddito e vanno necessariamente dichiarati all’Erario a
prescindere da contrarie valutazioni fatte dal
percettore. |