|
HOLDING PUBBLICA
I documenti
rassegnati dalle
Commissioni “Servizi
pubblici” e “Governance
delle partecipate”
del Consiglio
Nazionale dei
Dottori
Commercialisti e
degli Esperti
Contabili,
intitolati “Costituzione
di holding”
e “Holding degli
enti locali,
attività finanziaria
e modelli di
governance”,
forniscono lo spunto
per esaminare, in
sintesi, le
potenzialità che lo
strumento dell’holding
presenta per l’ente
locale, con uno
sguardo anche ai
riflessi della
disciplina
codicistica, in
particolare, in
materia di
responsabilità da
attività di
direzione e
coordinamento.
Nel maggio 2010 le
commissioni “Servizi
pubblici” e “Governance
delle partecipate”
del Consiglio
Nazionale dei
Dottori
Commercialisti e
degli Esperti
Contabili hanno
licenziato un
documento,
intitolato “Costituzione
di holding”,
seguito, nel marzo
2011, da altro
intitolato “Holding
degli enti locali,
attività finanziaria
e modelli di
governance”.
I predetti
interventi
affrontano, nel
complesso, il tema
della fruibiltà di
tale strumento
organizzativo da
parte di enti
pubblici
territoriali,
adottando una
prospettiva
giuridica
(valutando, cioè,
l’ambito entro il
quale all’ente
territoriale è
consentito – nel
rispetto del
principio di
legalità -
costituire e/o
mantenere
partecipazioni in
una società
holding; nonché
quali siano i
riflessi in merito
alla disciplina
applicabile, con
riguardo, in
particolare alla
normativa del codice
civile in materia di
attività di
direzione e
coordinamento e/o
alle possibilità
offerte dai diversi
modelli di
governance messi
a disposizione dal
legislatore per il
tipo societario
della s.p.a.) senza
tuttavia trascurare
un taglio “pratico”,
così da tracciare
una rassegna delle
opportunità che lo
strumento della
holding consente
all’ente pubblico in
termini di gestione
efficiente delle
partecipazioni
societarie e di
riduzione di costi.
I documenti offrono,
quindi, lo spunto
per esaminare - pur
senza pretese di
sistematicità –
alcune questioni
relative al tema
della società
partecipata da uno o
più enti locali (in
quanto tale,
“pubblica”), la
quale, a sua volta,
detenga e amministri
le partecipazioni
possedute in società
terze dai medesimi
enti locali soci.
Il concetto di
società pubblica
rimanda alla figura
di un ente
societario (dunque,
rivestito di forma
privata) a
partecipazione
pubblica: il
carattere pubblico,
pertanto, afferisce
al capitale
dell’ente (ossia ai
soggetti che lo
partecipano) e non
all’ente medesimo[1][1].
L’istituto si è
affermato nel
settore dei servizi
pubblici locali,
interessato da un
deciso stimolo
legislativo
all’adozione del
modello
organizzativo
societario (con
preferenza per il
tipo capitalistico)
per la realizzazione
delle finalità di
esternalizzazione di
alcuni segmenti
dell’attività della
pubblica
amministrazione[1][2].
L’amministrazione
pubblica, infatti,
per il conseguimento
dei propri scopi
istituzionali, può
esercitare attività
economica per la
produzione di beni e
servizi non solo
direttamente (e
salva la possibilità
di affidare in
appalto il servizio)
ma anche attraverso
apposita società
assoggettata al suo
controllo.
Non è ozioso
ricordare, in tale
contesto, che la
Relazione al codice
civile del 1942, a
proposito della
società a
partecipazione
pubblica chiarisce
che “è lo
Stato medesimo che
si assoggetta alla
legge della società
per azioni per
assicurare alla
propria gestione
maggiore snellezza
di forme nuove e
possibilità
realizzatrici”:
l’accesso allo
strumento societario
da parte della
pubblica
amministrazione,
dunque, dovrebbe
sempre essere
improntato a una
migliore
realizzazione degli
obiettivi di
interesse generale,
posto che, in tanto
si giustifica
l’inquadramento dei
pubblici poteri
entro una cornice
privatistica[1][3],
in quanto tale
contesto sia
funzionale alla
realizzazione degli
interessi della
comunità.
Il ricorso alla
struttura societaria
può, in concreto,
assumere una
articolazione ancora
più ramificata
laddove
l’amministrazione
pubblica eserciti il
controllo di una
società che, a sua
volta, diriga e
coordini una o più
società (ciascuna,
verosimilmente,
specializzata in un
singolo settore)
alle quali spetti in
concreto lo
svolgimento di
attività operative,
essendo riservato
alla società
direttamente
controllata
dall’amministrazione
pubblica (la
holding,
appunto) l’indirizzo
unitario – la
direzione e il
coordinamento –
delle imprese
partecipate.
Come rilevato dalla
magistratura
contabile, per gli
enti di grandi
dimensioni, che
controllano
direttamente una
rete di società
satellite, è
particolarmente
adeguata una
riorganizzazione in
chiave di gruppo,
mediante
costituzione di un
apposito organismo
societario,
totalmente
partecipato
dall’ente locale (o
dagli enti locali) e
destinato alla
titolarità e
gestione delle
partecipazioni
dell’ente, nonché
investito del
compito di
coadiuvare e fornire
servizi a tutte le
aziende del gruppo,
oltre che chiamato a
coadiuvare gli
organi politici
nelle decisioni
strategiche[1][4].
La holding
pubblica, dunque, è
un mezzo; ed è un
mezzo attraverso il
quale l’ente locale
mira – come
segnalato dai
richiamati
interventi del
Consiglio Nazionale
dei Commercialisti e
degli Esperti
Contabili –
all’attuazione
della propria azione
in modo coordinato e
unitario e, nel
contempo,
all’organizzazione
delle società
partecipate secondo
canoni di
efficienza,
efficacia ed
economicità.
Una duplice
finalità, insomma,
di programmazione,
da un lato, e di
controllo,
dall’altro, che in
tanto potrà
concretamente
realizzarsi in
quanto il soggetto
cui sia attribuito
il compito di
amministrare la
holding sia in
possesso di
competenze
manageriali nel
campo gestionale
delle partecipate e,
al contempo, l’ente
locale sia soggetto
istituzionale
deputato a imprimere
livelli di qualità
ai servizi offerti
dalle partecipate.
Tre gli aspetti che
meritano essere
segnalati circa
l’influenza che la
(ormai non più
giovane) riforma del
diritto societario è
in grado di
esercitare sulla
percorribilità, da
parte dell’ente
pubblico,
dell’opzione
holding.
In primo luogo, il
d.lgs 6/2003 ha
introdotto
espressamente la
possibilità di
costituire una
società per azioni "per
atto unilaterale”
(art. 2328 c.c.), di
modo che può
configurarsi una
società di capitali
che abbia un unico
socio[1][5],
cui è consentito lo
svolgimento di
attività
imprenditoriale
fruendo del
beneficio della
responsabilità
limitata; il che
rende intuitivamente
appetibile per il
singolo ente locale
la costituzione di
una società per
azioni holding,
totalitariamente
partecipata, alla
quale conferire le
proprie
partecipazioni
societarie.
La scelta a favore
del tipo di s.p.a.,
poi, dà accesso alla
pluralità di modelli
di amministrazione
e controllo
(tradizionale,
dualistico,
monistico) offerti
all’autonomia
societaria ex art.
2380 c.c.[1][6].
In secondo luogo, la
ridefinizione dello
schema della società
a responsabilità
limitata, nel senso
di una decisa
valorizzazione
dell’autonomia
statutaria, può
rendere tale forma
organizzativa
(sinora pressoché
inutilizzata, a
favore del modello
della s.p.a.)
appropriata alla
holding
pubblica, perché in
grado di assicurare
un notevole grado di
elasticità e,
quindi, di
adattabilità alle
diverse esigenze del
caso concreto.
Quale che sia il
tipo societario
prescelto, il
Consiglio Nazionale
dei Dottori
Commercialisti e
degli Esperti
Contabili suggerisce
che lo statuto della
holding
strutturi la
governance
prevedendo, per
l’amministratore
delegato, funzioni
operative di
gestione in
attuazione del
budget, oltre
che di intervento
nell’assemblea delle
partecipate; per il
presidente del
consiglio di
amministrazione,
funzioni di raccordo
istituzionale tra
l’ente socio e
l’organo preposto
alla sorveglianza
attiva della società
e al controllo
interno.
Inoltre, si avverte
l’opportunità che lo
statuto dell’ente
socio preveda
espressamente che
quest’ultimo si
avvale, come modello
organizzativo, di
una società
holding a intero
capitale pubblico
incedibile per la
gestione delle
società partecipate;
holding che
deve risultare
qualificata come
espressione dello
stesso ente locale,
così da poter
intervenire anche in
accordi o
convenzioni
sottoscritti con i
soci delle
partecipate per il
governo della
società.
In aggiunta, è più
che mai auspicabile
che l’ente socio
adotti un apposito
regolamento di
indirizzo e
controllo della
holding e, di
riflesso, delle
monadi del gruppo,
diretto a regolare
le materie non per
disciplinate in via
legislativa,
definendo le
competenze rispetto
alle diverse
decisioni da
assumere.
È opportuno, poi,
che la costituzione
della holding
venga supportata da
un business plan
per l’analisi degli
aspetti economici
patrimoniali e
finanziari connessi
alla costituzione e
alla successiva
attività della
holding, in
particolare
evidenziandone la
sostenibilità
economica (con
previsione delle
eventuali perdite di
esercizio e delle
strategie per farvi
fronte), e
finanziaria (anche
in termini di
capacità di reperire
risorse aggiuntive
sul mercato), oltre
a indicare i
riflessi per il
bilancio dell’ente
socio derivanti
dalla costituzione
della holding.
Il terzo e più
rilevante aspetto
connesso alla
riforma del diritto
societario è
rappresentato
dall’innesto di una
disciplina sui
gruppi societari,
suscettibile di
trovare applicazione
anche rispetto a
quelli che vedono un
ente pubblico in
posizione apicale,
posto che gli artt.
2497 e segg. c.c.
introducono una
pluralità di regole
in materia, le quali
interessano, tra
l’altro, la
responsabilità della
capogruppo (“società
o ente”)[1][7]
che eserciti
attività di
direzione e
coordinamento “nel
perseguimento di un
interesse
imprenditoriale
proprio o altrui in
violazione dei
principi di corretta
gestione societaria
e imprenditoriale
della società”
soggetta a tale
attività.
È noto che, in
assenza di espressa
definizione
legislativa, l’art.
2497-sexies
c.c. individua –
quali fattispecie
presuntive
dell’attività di
direzione e
coordinamento, ai
fini
dell’applicazione
della responsabilità
in questione -
l’obbligo di
redigere il bilancio
consolidato del
gruppo e/o
l’esercizio di un
controllo ai sensi
dell’art. 2359 c.c.,
ossia la titolarità
della maggioranza
dei voti
esercitabili
nell’assemblea
ordinaria ovvero
sufficienti per
esercitare
un’influenza
dominante
nell’assemblea
ordinaria, ovvero
uno stato di
sovraordinazione
indotto da
particolari vincoli
contrattuali.
Se è indubbio che la
normativa trovi
applicazione nei
gruppi
verticisticamente
controllati da una
holding
pubblica, resta
controverso se sia
configurabile
analoga
responsabilità a
carico dell’ente
pubblico holding,
il quale, invece di
conferire in
apposita società le
proprie
partecipazioni, si
ponga direttamente
al vertice della
piramide
organizzativa di
gruppo, per porre in
essere in prima
persona un’attività
astrattamente
riconducibile alla
direzione e
coordinamento di
società, mediante
un’unità
organizzativa
interna preposta
alla gestione delle
partecipazioni
possedute.
A favore della
soluzione negativa
milita il dato
testuale, posto che
l’art. 2497 c.c.,
nell’affermare la
responsabilità di
chi eserciti
attività di
direzione e
coordinamento con
riferimento agli
enti che “agiscono
nell’interesse
imprenditoriale”,
parrebbe, a priori,
escludere dal
proprio ambito di
operatività lo Stato
e gli altri enti
pubblici
territoriali, in
quanto enti
esponenziali della
società deputati a
soddisfare i bisogni
delle comunità
rappresentate (le
cui attività
imprenditoriali
eventualmente
esercitate, dunque,
assumono
necessariamente
carattere accessorio
e marginale rispetto
alle altre loro
attività)[1][8]
e, comunque,
insuscettibili di
agire “in
violazione dei
principi di corretta
gestione societaria
e imprenditoriale”
delle società
controllate[1][9].
Mentre, in senso
contrario, si
sostiene che, poiché
la disciplina di cui
agli artt. 2497 e
segg. c.c. è stata
introdotta a
presidio
dell’interesse dei
soci e dei
creditori, tale
strumento di
garanzia andrebbe
riconosciuto, al di
là del dato
letterale, anche nel
caso i principi di
corretta gestione
fossero violati nel
perseguimento di un
interesse non
imprenditoriale.
Diversamente
opinando, i soci e
creditori avrebbero
a disposizione i
soli rimedi di
diritto comune e
solo nei confronti
delle persone
fisiche responsabili
e non anche contro
l’ente che esercita
la direzione e il
coordinamento[1][10].
In tale ottica,
considerato che
l’attività di
direzione e
coordinamento non
postula
necessariamente la
titolarità di una
partecipazione di
controllo, potendo
discendere anche – “al
di fuori delle
ipotesi previste
dell’art.
2497-sexies” -
da un contratto tra
le società coinvolte
ovvero da clausole
statutarie inserite
negli statuti delle
sottoposte (art.
2497-septies
c.c.)[1][11],
la connessa
responsabilità può
ammettersi anche nel
caso in cui al
vertice del gruppo
societario, in luogo
della holding
pubblica, vi sia
direttamente l’ente
pubblico
territoriale, il
quale svolga in
prima persona
l’attività di
holding
attraverso
un’influenza
concretizzata
mediante il potere
di nomina e revoca
degli amministratori[1][12].
Fino a includere,
tra i soggetti
astrattamente
responsabili ex art.
2497 c.c., il
rappresentante
dell’ente pubblico
che emetta l’ordine,
poi attuato dalla
società, contrario
ai principi di
corretta gestione
societaria e
imprenditoriale[1][13].
Il d.l. 78/2009,
all’art. 19, con
norma di
interpretazione
autentica dell’’art.
2497, comma 1,
c.c., ha chiarito,
quantomeno, che per
enti suscettibili di
esercitare attività
di direzione e
coordinamento,
devono intendersi
quei “soggetti
giuridici
collettivi, diversi
dallo Stato, che
detengono la
partecipazione
sociale nell’ambito
della propria
attività
imprenditoriale
ovvero per finalità
di natura economico
finanziaria”.
Il Consiglio dei
Dottori
Commercialisti e
degli Esperti
Contabili pone
l’accento sul
riferimento al
carattere
imprenditoriale
dell’attività
nell’ambito della
quale la
partecipazione deve
essere detenuta e
alla natura
economico-finanziaria
della finalità di
detenzione della
partecipazione, per
sottrarre anche gli
enti territoriali
dall’ambito
dell’art. 2497 c.c..
In ogni caso, la
negazione, in capo
all’ente pubblico
territoriale
dell’idoneità a
essere titolare di
un “interesse
imprenditoriale”
non vale, di per sé,
a escludere la
soggezione alla
responsabilità per
attività di
direzione e
coordinamento,
quantomeno a titolo
di concorso: l’art.
2497, comma 2, c.c.,
infatti, stabilisce
che risponde in
solido chi abbia
comunque preso parte
al fatto lesivo e,
nei limiti del
vantaggio
conseguito, chi ne
abbia
consapevolmente
tratto vantaggio.
Può comunque
ipotizzarsi,
pertanto, la
responsabilità
dell’ente pubblico
che induca l’organo
amministrativo della
società controllata
a violare i principi
di corretta
gestione, nei
confronti di soci e
creditori di
quest’ultima, nella
misura in cui si
dimostri una sua
partecipazione al
fatto lesivo o il
conseguimento
consapevole di un
vantaggio.
Non va peraltro
sottovalutato che la
responsabilità in
questione – che
opera nei confronti
dei soci e creditori
della società
consorella – viene
esclusa se l’atto
dannoso per la
singola “monade” del
gruppo viene
neutralizzata da
benefici indiretti o
potenziali derivanti
al gruppo nel suo
insieme[1][14].
La holding
partecipata da enti
pubblici
territoriali, in
quanto società in
mano pubblica, è
interessata da una
serie di
disposizioni[1][15]
ispirate al
contenimento dei
costi delle attività
riconducibili alla
sfera pubblica, da
un lato, e al
rispetto dei
principi comunitari
di concorrenza, non
discriminazione e
trasparenza al fine
di evitare
alterazioni o
distorsioni della
concorrenza e del
mercato.
Vengono in rilievo,
in particolare, le
disposizioni che
tendono a
restringere i campi
di operatività della
società pubblica.
La tendenza è stata
inaugurata dall’art.
13 del c.d. Decreto
Bersani[1][16],
il quale prevede, al
comma 1, che le
società a capitale
interamente pubblico
o misto, costituite
o partecipate dalle
amministrazioni
pubbliche regionali
e locali per la
produzione di
servizi strumentali
all’attività di tali
enti, devono operare
esclusivamente con
gli enti costituenti
o partecipanti o
affidanti, con
divieto di svolgere
prestazioni (lavori,
servizi e forniture)
a favore di altri
soggetti pubblici o
privati né in
affidamento diretto
né con gara, e di
partecipare a altre
società o enti.
Le società
strumentali, poi,
non possono
affiancare ulteriori
attività a quelle
svolte
funzionalmente
nell’interesse
dell’ente pubblico
che le partecipa
(comma 2).
I divieti hanno
carattere
imperativo:
contratti conclusi
in violazione dei
commi 1 e 2 sono
nulli, in forza di
quanto previsto dal
comma 13[1][17].
Nel settore delle
società strumentali[1][18],
dunque, il Decreto
Bersani nega a
priori la
legittimità dello
schema organizzativo
consistente
nell’esercizio in
via mediata, da
parte di
amministrazioni
pubbliche regionali
e locali, di
attività di impresa
attraverso le
società operative,
coordinate e
dirette, perché
totalmente
partecipate, dalla
capo-gruppo (holding),
a sua volta
controllata
dall’amministrazione
pubblica: e ciò in
quanto la società
partecipata dal
soggetto pubblico,
se svolge servizi
strumentali, non può
partecipare ad altre
società o enti[1][19].
Inoltre, la norma –
che ha carattere
eccezionale[1][20]
– ammette
espressamente la
costituzione di
società a capitale
pubblico o misto con
oggetto la gestione
di servizi pubblici
locali nonché
l’assunzione di
partecipazioni da
parte di tali
società; nonché, ed
è quel che qui
maggiormente
interessa, la
possibilità per
società pubbliche
che svolgono
l'attività di
intermediazione
finanziaria prevista
dal TUB (Testo Unico
Bancario – d.lgs. 1
settembre 1993, n.
385), di
partecipazione ad
altre società o
enti.
Tale ultimo aspetto
– rileva il
Consiglio Nazionale
dei Dottori
Commercialisti e
degli Esperti
Contabili -
consente, di
riflesso, l’accesso,
per l’ente pubblico,
allo schema dell’holding
il cui oggetto
sociale sia
circoscritto alla
detenzione e
gestione delle
partecipazioni
dell’ente stesso,
posto che, nel
concetto di attività
di intermediazione
finanziaria viene
ricompresa quella di
“assunzione di
partecipazioni”,
ai sensi dell’art.
106 TUB, vigente
alla data di entrata
in vigore dell’art.
13, Decreto Bersani.
E, peraltro –
osserva sempre il
Consiglio - occorre
tener presente che
le holding
comunali (ma la
considerazione non
può che essere
estesa anche a
quelle provinciali e
regionali), quando
costituite per
conseguire la
massima efficienza
nella governance
delle partecipazioni
dell’ente locale,
non si pongono
in una situazione di
“invasione” dei
mercati attraverso
la detenzione delle
partecipazioni
dell’ente locale,
così da non
rappresentare un
rischio di
distorsione
concorrenziale;
quindi, rispetto a
tali società
(beninteso, se
holding aventi a
oggetto la mera
governance delle
partecipazioni) non
sussiste la
possibilità, neppure
in astratto, di
violare il principio
a presidio del quale
l’art. 13 del
Decreto Bersani è
stato emanato.
Del resto, la deroga
a favore delle
società pubbliche
che svolgono
l'attività di
intermediazione
finanziaria è stata
introdotta in sede
di conversione del
Decreto Bersani
proprio per
escludere dal
divieto ivi previsto
le società
finanziarie
regionali, perché
ritenute,
ontologicamente,
società strumentali
necessarie al
perseguimento delle
finalità di gestione
della attività della
Regione stessa; “non
dobbiamo dimenticare
che una delle aree
strategiche d’affari
fondamentali per le
società in questione
è proprio costituita
dall’intervento
finanziario, recato
anche mediante
attività di venture
capital, a sostegno
degli star up
imprenditoriali
delle piccole e
medie imprese del
territorio
regionale. Trattasi
di interventi che si
concretizzano,
sovente, non tanto
nella concessione di
prestiti o
finanziamenti ma a
medio e lungo
termine con pesanti
vincoli di garanzia
e di restituzione,
bensì sotto forma
recati anche
mediante lo
strumento della
partecipazione
azionaria, nelle
imprese di cui la
finanza regionale
interviene a
sostenere
l’iniziativa di star
up o di sviluppo e
di rilancio
strategico”[1][21].
L’esenzione,
peraltro, ha
carattere parziale,
perché circoscritta
al divieto di
detenere
partecipazioni e
non, ovviamente,
alle ulteriori
attività
finanziarie,
soprattutto se
dirette al pubblico
in regime di
attività
imprenditoriale
(ossia proprio ciò
che la norma intende
precludere alle
società partecipate
dagli enti
pubblici).
Il Consiglio
Nazionale dei
Dottori
Commercialisti e
degli Esperti
Contabili si premura
di chiarire – con
dovizia di
argomentazioni – che
deve escludersi a
priori che
l’abrogazione
dell’art. 113 TUB,
con soppressione
dell’elenco ivi
previsto e
contestuale
introduzione degli
elenchi di cui agli
artt. 106-107 TUB,
abbia potuto
influire sulla
deroga di cui
all’art. 13, Decreto
Bersani, a favore
delle società
strumentali che
svolgono attività di
intermediazione
finanziaria intesa
come attività di
assunzione e
gestione delle
partecipazioni
societarie degli
enti pubblici soci;
la quale deroga
permane ancorché la
holding non
sia in possesso dei
requisiti per
l’iscrizione degli
elenchi di cui agli
artt. 106 e 107 TUB[1][22].
La tutela della
concorrenza e del
mercato è la
finalità che ispira,
pure, la l. 24
dicembre 2007, n.
244 (Finanziaria
2008) nella parte in
cui, all’art. 3,
commi da 27 a 29,
vieta a tutte le
amministrazioni
pubbliche di cui
all’art. 1, comma 2,
d.lgs. 30 marzo
2001, n. 165 (quindi
non più solo Regioni
ed enti locali), la
costituzione di
società aventi per
oggetto attività di
produzione di beni e
di servizi “non
strettamente
necessarie per il
perseguimento delle
proprie finalità
istituzionali”;
così come di
“assumere o
mantenere
direttamente o
indirettamente
partecipazioni,
anche di minoranza,
in tali società. È
sempre ammessa la
costituzione di
società che
producono servizi di
interesse generale”;
e, di riflesso, sono
consentite anche
società partecipate
che svolgono
attività
strettamente
necessarie alle
finalità
istituzionali delle
amministrazioni
pubbliche[1][23].
Il mantenimento
delle partecipazioni
“non vietate” e
l’assunzione di
nuove deve essere
autorizzato
dall’organo
consiliare con
delibera motivata,
da trasmettersi alla
sezione competente
della Corte dei
conti (art.19, 2°
comma, lett. a, l.
23 luglio 2009, n.
102)[1][24].
Le amministrazioni
devono dismettere le
partecipazioni in
società “vietate”
entro il 31 dicembre
2010[1][25],
nel rispetto di
procedure ad
evidenza pubblica.
Il termine ha natura
perentoria[1][26].
L’art. 3, comma 27,
della Finanziaria
2008 è stato
modificato dalla l.
18 giugno 2009, n.
69, che, all’art.
71, comma 1, lett.
b), ha soppresso le
parole “o
indirettamente”.
La modifica parrebbe
quindi consentire
alle amministrazioni
pubbliche di
detenere
partecipazioni anche
in società aventi a
oggetto attività di
produzione di beni e
servizi non
strettamente
necessarie per il
perseguimento delle
proprie finalità
istituzionali,
purché, appunto, in
via indiretta e,
quindi, tramite
holding
costituite ad hoc.
Soluzione che appare
ragionevole,
considerato che, per
l’ente pubblico, la
dismissione di
partecipazioni non è
sempre concretamente
realizzabile: si
pensi a
partecipazioni in
società non
competitive sul
mercato che,
intuitivamente, non
sono collocabili
presso investitori
privati e che
avrebbero, pertanto,
quale unica
alternativa, la
messa in
liquidazione[1][27].
Il che non sempre
risulta funzionale
all’interesse
dell’ente locale,
costretto a
liquidare un’impresa
redditizia.
Secondo la
magistratura
contabile[1][28],
tuttavia - in forza
dell’art. 3, comma
27 - l’oggetto
sociale della
holding deve
sempre e comunque
rispettare i limiti
predefiniti dalla
delibera adottata
dall’ente locale ai
fini della
ricognizione delle
società partecipate
e, dunque, la
holding non
potrà che detenere
partecipazioni che
non siano in
contrasto con le
previsioni
dell’ente; il che
finirebbe per
precludere alla
holding (e,
quindi, all’ente “indirettamente”)
di detenere
partecipazioni non
strettamente
necessarie alle
finalità
istituzionali
dell’ente o di
interesse generale.
Il modello
organizzativo della
holding,
resta comunque
opzione percorribile
per lo svolgimento
di attività
strettamente
necessarie alle
finalità
istituzionali
dell’amministrazione[1][29]
e per la produzione
di servizi di
interesse generale[1][30].
E, a tal riguardo,
il Consiglio
Nazionale dei
Dottori
Commercialisti e
degli Esperti
Contabili ammette il
ricorso allo
strumento dell’holding
da parte dei Comuni,
segnalando che
secondo la
classificazione
imposta dall’art. 3
comma 27 della Legge
finanziaria 2008,
tali società si
configurano come “strumentali”
all’ente e
particolarmente
adatte al
perseguimento delle
finalità del
medesimo, in quanto
strumenti di
governance
necessari a una
corretta azione
dell’ente locale
attraverso le
proprie partecipate;
e che, peraltro, l’holding
comunale, in
quanto società
strumentale, è
tenuta ad adottare
una struttura della
governance
secondo le regole
imposte per l’in
house providing
e non può operare
che con gli enti
locali soci.
Altra disposizione a
venire in rilievo è
l’art. 14, comma 32
del d.l. 78/2010[1][31],
il quale circoscrive
la possibilità di
costituzione di una
holding
comunale,
introducendo un
limite dimensionale
collegato alla
popolazione, in
quanto, “fermo
restando quanto
previsto dall’art.
3, commi 27, 28 e 29”
della Finanziaria
2008, preclude ai
Comuni fino a 30.000
abitanti di
possedere
partecipazioni
societarie[1][32],
posto che viene ad
essi fatto divieto
di costituire nuove
società con obbligo
di mettere in
liquidazione quelle
già costituite e/o
cedere le
partecipazioni in
queste detenute[1][33].
Per espressa
previsione, i Comuni
la cui popolazione
non superi i 30.000
abitanti possono
sottrarsi al raggio
di applicazione
della disposizione
associandosi tra
loro per superare la
soglia in questione
e, quindi,
costituire società a
partecipazione
paritaria o
proporzionale al
numero di abitanti.
La disposizione non
si applica nel caso
in cui le società
già costituite
abbiano, al
31dicembre 2013, il
bilancio in utile
negli ultimi tre
esercizi, non
abbiano subito, nei
precedenti esercizi,
riduzioni di
capitale conseguenti
a perdite di
bilancio; non
abbiano subito, nei
precedenti esercizi,
perdite di bilancio
in conseguenza delle
quali il Comune sia
stato gravato
dell’obbligo di
procedere al ripiano
delle perdite
medesime[1][34].
Sempre l’art. 14
comma 32 del d.l.
78/2010, stabilisce
il limite di una
sola partecipazione
per i comuni con
popolazione compresa
tra 30.000 e 50.000
abitanti, con
obbligo di
dismissione delle
partecipazioni
ulteriori.
I limiti e gli
obblighi sanciti
dall’art. 14 comma
32 del d.l. 78/2010,
non si estendono
alle società che
svolgono servizi
pubblici locali, in
quanto soggette alla
specifica normativa
di cui all’art. 23-bis,
d.l. 25 giugno 2008,
n. 112 convertito
dalla l. 6 agosto
2008, n. 133 e
successive
modificazioni, e al
d.p.r. 7 settembre
2010, n. 168[1][35].
L’art. 14 comma 32
del d.l. 78/2010,
dovrebbe stimolare i
Comuni con
popolazione fino a
30.000 abitanti a
conferire tutte le
proprie azioni o
quote in una
holding
partecipata con
altri Comuni, in
modo da superare,
nel totale, la
soglia dei 30.000
abitanti, e i Comuni
tra i 30.000 e
50.000 abitanti a
costituire una
holding cui
conferire tutte le
proprie
partecipazioni; tale
modalità di
aggregazione è
coerente con la
ratio della
norma, rinvenibile
nella riduzione
delle spese degli
apparati
amministrativi degli
enti locali,
attraverso processi
obbligatori di
aggregazione per
l’esercizio in forma
associata mediante
convenzioni o unioni
(comma 28).
La carrellata che
precede conferma,
anche alla luce
delle considerazioni
del Consiglio
Nazionale dei
Dottori
Commercialisti e
degli Esperti
Contabili, che la
holding
pubblica, ossia la
holding
partecipata da enti
pubblici,
rappresenta, per gli
enti pubblici
medesimi, un modello
di governo delle
proprie partecipate
(ossia un sistema
complesso per
l’amministrazione
delle partecipate,
vale a dire, in
buona sostanza, per
l’esercizio dei
diritti di socio),
in un’ottica di
efficienza e di
riduzione dei costi
generali connessi a
queste ultime;
l’organizzazione a
mezzo holding
consente, infatti,
di pervenire
all’accentramento
della gestione
contabile e
finanziaria, dei
processi di
controllo e
amministrazione (audit,
comitati di
controllo ex d.lgs
231/01), degli
uffici legali,
appalti e forniture,
nonché al
consolidato fiscale
e alla riduzione del
numero di
amministratori, fino
alla individuazione
di un amministratore
unico in luogo dei
consigli di
amministrazione
nelle controllate di
secondo livello[1][36].
Gli amministratori
della holding
potranno sfruttare
una “visione
d’insieme”, per
organizzare il
portafoglio delle
partecipazioni
societarie conferite
dall’ente o dagli
enti soci, in modo
da definire il ruolo
strategico di
ciascuna monade del
gruppo (anche in
considerazione della
relativa rilevanza
socio-politica di
ciascuna
partecipata)
agevolando gli enti
soci all’assunzione
delle decisioni di
competenza.
La visione di
insieme della
governance della
holding
assicura, quindi,
una direzione e
coordinamento che
altrimenti, l’ente
locale, non saprebbe
assicurare, a causa
delle diverse
competenze
istituzionali
attribuite ai propri
organi e ai tempi
propri
dell’esercizio di
funzioni
pubblicistiche,
fisiologicamente
incompatibili con la
necessità di
assumere decisioni
tempestive.
Senza contare che
per gli
amministratori delle
partecipate il
referente sarà il
management della
holding, al
quale dovranno
rispondere non più
esclusivamente in
termini “politici”,
ma soprattutto in
termini
economico-finanziari.
Lo strumento
holding appare
inoltre idoneo a
consentire il
superamento delle
asimmetrie
informative che si
verrebbero a creare
fra società e organi
dell’ente locale
(tra chi ha le
informazioni e chi
assume le
decisioni), in
assenza del
diaframma
“professionale”
costituito dalla
holding stessa.
La holding,
infatti, può
configurarsi come il
punto di confluenza
delle informazioni
delle partecipate,
per una razionale
assunzione delle
scelte in base agli
indirizzi e alla
specifiche
autorizzazioni degli
enti locali soci,
che accedono alle
informazioni
attraverso il
budget della
holding, la cui
approvazione da
parte dell’ente
locale si configura
come l’atto
principale della
programmazione
economico-finanziaria
e patrimoniale per
applicare le
strategie di
interesse dell’ente
locale stesso;
nonché attraverso il
bilancio consolidato
del gruppo
predisposto dalla
holding.
Occorre avvertire,
peraltro – sempre
alla luce delle
considerazioni
svolte dal Consiglio
Nazionale dei
Dottori
Commercialisti e
degli Esperti
Contabili – che, in
tanto la holding
potrà rappresentare
un efficace
strumento di
governance delle
partecipazioni degli
enti soci, in quanto
venga elaborato e
adottato un apposito
regolamento per il
controllo delle
partecipate;
regolamento che,
secondo i
suggerimenti dei
Commercialisti e
degli Esperti
Contabili, dovrà
prevedere che
l’organo consiliare
dell’ente pubblico
esprima il proprio
indirizzo al Sindaco
del Comune (o al
Presidente della
Provincia) in vista
della partecipazione
di quest’ultimo
all’assemblea della
holding
avente per oggetto
l’approvazione del
budget e
delle relative
modifiche, le
operazioni di
investimento e di
finanziamento non
previste nel
programma annuale,
la vendita o
l’acquisto di
partecipazioni in
società ed enti, non
previsti nel budget,
l’approvazione del
bilancio d’esercizio
e della relazione
consuntiva; nonché
in vista della
nomina degli
amministratori della
società partecipate,
mediante apposita
delibera consiliare
ai sensi dell’art.
42 comma 2, lett.
m), TUEL.
di Davide Di Russo*,
Roberto Camporesi**,
Antonio Miele***
[1][1]
La definizione è
rinvenibile in
Ibba,
Società pubbliche e
riforma del diritto
societario, in
Rivista delle
società, 2005, 1
e segg., ove si
puntualizza che nel
concetto di società
pubblica possono
essere ricomprese,
oltre a quelle a
partecipazione
totalitaria,
maggioritaria o
minoritaria di un
ente pubblico, anche
quelle società che,
pur non partecipate
da uno o più enti
pubblici, ne
subiscono
l’influenza.
[2][2]
Si allude alla
disciplina dei
servizi pubblici
locali a rilevanza
economica, nella
versione risultante
dagli artt. 112-120,
d.lgs. 267/2000 e
successive
modificazioni.
* Commercialista
e Revisore dei Conti
in Torino,
Presidente
Commissione
“Governance delle
Partecipate” –
CNDCEC - www.
d.dirusso@sintesierisorse.it
** Commercialista
e Revisore dei Conti
in Rimini,
Componente
Commissione
“Governance delle
Partecipate” –
CNDCEC –
www.rcamporesi@boldriniassociati.com
*** Avvocato in
Torino
[3][3]
La società
partecipata
dall’ente pubblico è
soggetta alla
disciplina comune
nella sua integrità,
salvo le eccezioni
espressamente
previste da leggi
speciali.
[4][4]
Cfr. Corte dei
conti, sezione
autonomie, 18
settembre 2008, n.
13; in dottrina,
Galgano,
Il nuovo diritto
societario,
Padova, 2003: “Va
in ogni caso
segnalata la
possibilità di
costituire un esteso
gruppo di società,
con una holding a
partecipazione
comunale o
pluricomunale e più
controllate operante
per la gestione dei
singoli servizi
pubblici […]
potrà anche essere
concepita come
holding di
coordinamento
tecnico finanziario
di una pluralità di
società controllate,
ciascuna delle quali
specializzata in un
singolo settore”
[5][5]
La costituzione è
però condizionata
all’esecuzione
integrale del
conferimento da
parte dell’unico
socio (art. 2342,
comma 2, c.c.),
operando, in
difetto, il
meccanismo dell’art.
2325, comma 2, c.c.
(responsabilità
illimitata
dell’unico socio per
le obbligazioni
sociali sorte nel
periodo in cui è
stato titolare
dell’intero
capitale); inoltre,
a tutela del terzo
che venga a contatto
con la società, gli
amministratori, o in
via alternativa il
socio stesso, devono
però depositare
presso il Registro
delle imprese una
dichiarazione
contenente le
generalità
dell'unico socio
entro trenta giorni
dall'iscrizione del
trasferimento di
azioni del libro
soci, facendo
altresì menzione
della data di
iscrizione (art.
2362 c.c.);
conseguenza della
mancata pubblicità
è, anche in tal
caso, la perdita del
beneficio della
responsabilità
limitata.
Anche per la s.r.l.
unipersonale, il
socio unico risponde
illimitatamente
delle obbligazioni
sociali sorte nel
periodo in cui è
stato titolare
dell’intero
capitale, se non
siano stati
integralmente
eseguiti i
conferimenti o non
si sia provveduto
alla pubblicità di
cui all’art. 2470
c.c. (che prevede
l’iscrizione presso
il registro delle
imprese di una
dichiarazione
contenente le
generalità
dell’unico socio).
L'art. 2250 c.c. fa
poi obbligo di
indicare l'esistenza
di un unico socio
negli atti nella
corrispondenza della
società.
[6][6]
Va detto che il
documento
dell’Ordine
Nazionale dei
Commercialisti e
degli Esperti
Contabili manifesta
una netta preferenza
per il modello
tradizionale di
governance,
ritenendo il sistema
dualistico
inadeguato alle
esigenze di
realizzazione di un
controllo analogo
per le società in
house, stante il
diaframma –
rappresentato dal
consiglio di
sorveglianza – che
viene a frapporsi
tra azionista
pubblico e organo
gestorio
[7][7]
Nonché di
finanziamenti
infra-gruppo,
obblighi di
trasparenza,
pubblicità, diritto
di recesso.
[8][8]
Di tale avviso,
Galgano,
Direzione e
coordinamento di
società, Bologna
2005, 80
[9][9]
Così
Guaccero,
Alcuni spunti in
tema di governance
delle società
pubbliche dopo la
riforma del diritto
societario, in
Riv. soc.,
2004, 850
[10][10]
Favorevole a
un’applicazione in
senso estensivo
della disciplina,
Caprara,
Attività di
direzione e
coordinamento di
società: la
responsabiltà
dell’ente pubblico,
in Società,
2008, 557
[1][11] Dal
che deve desumersi
che può aversi
controllo societario
ai sensi dell’art.
2359 c.c. senza che
vi sia, in concreto,
direzione e
coordinamento e, per
altro verso, può
darsi direzione e
coordinamento senza
che vi sia controllo
ex art. 2359 c.c..
[11][12]
Si ricordi che
l’art. 2449 c.c.
consente, mediante
apposita previsione
statutaria, allo
stato o all’ente
pubblico socio di
s.p.a. non quotata
la facoltà di
nominare un numero
di amministatori e
sindaci (ovvero
consiglieri di
sorveglianza)
proporzionale alla
partecipazione
societaria, con
connesso esclusivo
potere di revoca.
[12][13]
cfr.
Romagnoli,
L’esercizio di
direzione e
coordinamento di
società da parte di
enti pubblici,
in La nuova
giurisprudenza
civile commentata,
2004, 214 e segg.
[13][14]
Per un puntuale
esame delle
possibili ipotesi
nell’ambito di un
gruppo capeggiato da
una holding
pubblica,
Romagnoli,
L’esercizio di
direzione e
coordinamento di
società da parte di
enti pubblici,
cit., 217 e segg.
[14][15]
Il quadro giuridico
che ne risulta è del
tutto disorganico e
privo di
sistematicità,
composto da una
pluralità di
disposizioni
speciali che il
legislatore ha
introdotto in
ossequio a esigenze
di natura
contingente.
[15][16]
d.l. 4 luglio 2006,
n. 223 - “Disposizioni
urgenti per il
rilancio economico e
sociale, per il
contenimento e la
razionalizzazione
della spesa
pubblica, nonché
interventi in
materia di entrate e
di contrasto
all’evasione fiscale”,
convertito in l.
248/2006
[1][17] I
soggetti indicati
nella norma dovevano
cessare le attività
non consentite
mediante cessione a
terzi, nel rispetto
delle procedure ad
evidenza pubblica,
oppure attraverso lo
scorporo,
costituendo, se
necessario, una
separata società.
La
Finanziaria 2007 ha
eliminato l’obbligo
di collocare sul
mercato le
costituende società
con la procedura
prevista dal d.l. 31
maggio 1994, n. 332,
convertito dalla l.
30 luglio 1994, n.
474 e ha
riconosciuto la
validità dei
contratti conclusi
dopo l’entrata in
vigore del decreto a
condizione che la
procedura di
aggiudicazione fosse
perlomeno indetta,
ancorché non
perfezionata.
Il termine per la
cessione delle
attività non
consentite, più
volte prorogato, è
stato da ultimo
rinviato al 4
gennaio 2010 (ex
art. 20, comma 1-bis,
l. 29 febbraio 2009,
n. 14).
[16][18]
Sono strumentali le
società create o
partecipate per
svolgere attività
rivolte alla
stazione appaltante
e non nei confronti
del pubblico; cfr.
Cons. Stato, 14
aprile 2008, n. 1600
[17][19]
In questi termini,
Di Russo-Miele,
La holding locale,
in
Di Russo – Falduto
(a cura di),
Governo, controllo e
valutazione delle
società partecipate
dagli enti locali,
Torino, 2009, 49
[18][20]
La norma ha superato
il vaglio di
costituzionalità; la
Consulta (Corte
cost.,
1 agosto 2008, n.
326 in Foro it.,
2010, I, 786),
nel riconoscere la
legittimità
costituzionale
dell’art. 13 del
Decreto Bersani, ha
chiarito che la
disposizione
effettua una
distinzione tra
attività
amministrativa “di
natura finale o
strumentale”
alla pubblica
amministrazione e “attività
di erogazione dei
servizi rivolta al
pubblico
(consumatori o
utenti), in regime
di concorrenza”.
L'una e l'altra
possono essere
svolte attraverso
società di capitali,
ma le condizioni di
svolgimento devono
essere diverse per “evitare
che soggetti dotati
di privilegi operino
in mercati
concorrenziali”
e possano provocare
una “distorsione
della concorrenza”.
Conseguentemente,
l’art. 13 del
Decreto Bersani ha
come obiettivo di
“separare le due
sfere di attività
per evitare che un
soggetto, che svolge
attività
amministrativa,
eserciti allo stesso
tempo attività
d'impresa,
beneficiando dei
privilegi dei quali
esso può godere in
quanto pubblica
amministrazione.”
In merito alla
capacità che la
norma riesca a
perseguire finalità
inerenti alla tutela
della concorrenza la
Corte ha
considerato, in
primo luogo, che le
disposizioni che “impediscono
alle società in
questione di operare
per soggetti diversi
dagli enti
territoriali soci o
affidanti, imponendo
di fatto una
separazione
societaria, e
obbligandole ad
avere un oggetto
sociale esclusivo”
non appaiono
irragionevoli, né
sproporzionate,
rispetto alle
esigenze indicate,
in quanto “mirano
ad assicurare la
parità nella
competizione, che
potrebbe essere
alterata
dall'accesso di
soggetti con
posizioni di
privilegio in
determinati mercati”.
In secondo luogo
“il divieto di
detenere
partecipazioni in
altre società o enti
è volto ad evitare
che le società in
questione svolgano
indirettamente,
attraverso proprie
partecipazioni o
articolazioni, le
attività loro
precluse” nel
territorio
nazionale. Quindi la
disposizione non
vieta in assoluto di
detenere
partecipazioni, ma
vieta la detenzione
di partecipazioni “in
società o enti che
operino in settori
preclusi alle
società stesse”.
[19][21]
Bassi, Le
società strumentali
delle regioni e
degli enti locali:
qualche
puntualizzazione a
due anni dalla
disciplina speciale,
in Appalti e
contratti, 2009.
[1][22] In
particolare, si fa
notare che il
legislatore, con
l’art. 13 del
Decreto Bersani non
ha inteso fare
riferimento ad una
specifica attività
“riservata” dal TUB,
ma unicamente una
serie di attività –
tutte riconducibili
in via funzionale
alla detenzione di
partecipazioni – che
potevano trovare una
più semplice
individuazione
tramite il richiamo
espresso del testo
unico bancario che,
in allora, le
elencava.
[20][23]
La l. 131/2003
identifica come
essenziali quelle
concernenti il
funzionamento degli
enti locali e il
soddisfacimento dei
bisogni primari
della comunità.
[1][24] In
merito,
Corte dei conti,
sez. contr. reg.
Lombardia, 8 luglio
2008, n. 48, in
Giurisdiz. amm.,
2008, III, 679;
la magistratura
contabile ha
chiarito che
l’elemento
discriminante è
l’oggetto delle
società, per cui
è necessario che
i competenti organi
amministrativi delle
amministrazioni
pubbliche effettuino
una ricognizione
delle partecipazioni
delle società a
qualunque titolo in
mano pubblica,
in modo da
verificare che le
stesse rispondano, o
meno, ai requisiti
fissati dalla
Finanziaria 2008.
Con
tale attività i
suddetti organi
devono pronunciarsi
“caso per caso
con una motivata
delibera ad hoc”
indicando la
sussistenza dei
requisiti, o in
mancanza degli
stessi, gli
opportuni
provvedimenti da
adottare
[21][25]
La scadenza
originaria del 30
giugno 2009 è stata
prorogata dall’art.
dall’art. 71, comma
1, lettera e), l. 18
giugno 2009, n. 69
[22][26]
Tuttavia, la Corte
costituzionale (1
agosto 2008, n. 326,
cit.) ha precisato
che “le pubbliche
amministrazioni,
entro il termine
fissato per legge,
devono avviare la
procedura di
dismissione, ma non
obbligatoriamente
completarne l’iter.
E ciò per evitare
svendite o
speculazioni dei
soggetti privati
nella determinazione
del prezzo di
acquisto della
partecipazione o
della società in
mano pubblica.”
Si rende così
necessario la
redazione di un “accurato
programma che
scandisca i tempi e
le modalità delle
previste
dismissioni.”
[23][27]
In tal senso,
Di Russo-Miele,
La holding locale,
cit., 49
[24][28]
Corte dei conti,
sez. contr. Reg.
Lombardia, 14
settembre 2010, n.
874, in
www.corteconti.it
[25][29]
Secondo la
magistratura
contabile (cfr.
Corte dei conti,
sez. contr. Molise,
23 luglio 2009, n.
32), è legittima la
costituzione di
società e/o
l’assunzione di
partecipazioni in
mancanza delle quali
non vi sarebbe altro
modo per perseguire
l’interesse
istituzionale
dell’ente.
[26][30]
La Commissione
Europea, nel
rielaborare il
concesso di “servizi
di interesse
economico generale”
di cui all’art. 86,
Trattato CE, ha
definito il servizi
di interesse
generale come quelli
che “le autorità
pubbliche ritengono
che debbano essere
garantiti, anche
qualora il mercato
non sia
sufficientemente
incentivato a
provvedervi da solo”,
ossia i servizi che
le autorità
pubbliche – in base
alla sensibilità
politiche di ogni
Stato membro –
ritengono di dover
fornire in ogni
caso.
[27][31]
convertito con
modificazioni dalla
l. 30 luglio 2010,
n. 122, come
modificato
dall’articolo 1,
comma 117, della l.
13 dicembre 2010 n.
220 (Finanziaria
2011), a sua volta
modificato in sede
di conversione del
d.l. 29 dicembre
2010 n. 225 (c.d.
“mille proroghe”)
[28][32]
Corte dei conti,
sez. contr. Reg.
Lombardia, 13
ottobre 2010, n.
1002, in
www.corteconti.it
ha chiarito che
l’art. 14, comma 32,
d.l. 31 maggio 2010,
n. 78 incide sul
piano numerico
operativo delle
partecipazioni,
sulla base della
soglia demografica
dell’Ente, mentre
l’art. 3, comma 27,
Finanziaria 2008,
incide sulle
finalità
istituzionali
perseguibili
dall’Ente attraverso
la partecipazione
societaria;
pertanto, l’inciso “fermo
restando quanto
previsto dall’art.
3, commi 27, 28, 29
della legge 24
dicembre 2007, n.
244” si risolve
in una “clausola
di salvaguardia
della normativa e
può solo significare
che, entro i limiti
numerici delle
partecipazioni che
ciascun ente può
detenere in base
alle disposizioni
dell’art. 14, comma
32, le stesse
dovranno, in ogni
caso, essere
conformi ai canoni
previsti dall’art.
3, comma 27 della
legge finanziaria
dell’anno 2008”
[29][33]
Il termine per le
dismissioni,
originariamente
previsto per il 31
dicembre 2011, è
stato prorogato al
31 dicembre 2013 in
sede di conversione
del d.l. 29 dicembre
2010 n. 225 (c.d.
“mille proroghe”),
che ha modificato in
tal senso il comma
117 dell’articolo 1
della legge 13
dicembre 2010 n.
220. Le modalità
attuative della
disposizione, nonché
ulteriori ipotesi di
esclusione dal
relativo ambito di
applicazione, devono
essere determinate
con decreto del
Ministro per i
Rapporti con le
Regioni, di concerto
con i Ministri
dell’Economia e
delle Finanze e per
le Riforme per il
Federalismo, da
emanarsi entro
novanta giorni dalla
data di entrata in
vigore della legge
di conversione.
[30][34]
ex art. 14, comma
32, l. 30 luglio
2010 n. 122, come
modificato in sede
di conversione del
d.l. 29 dicembre
2010 n. 225
[31][35]
In tal senso, Corte
dei conti, sez.
contr. Reg. Puglia,
8 luglio 2010, 56,
in
www.corteconti.it:
“il rapporto tra
la norma posta
dall’art. 14, comma
32 del d.l. 78/10 e
la norma dell’art.
23 bis, comma 8,
lett. a) del d.l.
112/08 deve essere
ricostruito in
termini di
specialità in quanto
mentre la prima ha
ad oggetto,
indistintamente,
tutti gli enti
societari
partecipati dai
Comuni, la seconda
si riferisce alle
sole società in
house affidatarie di
servizi pubblici
locali. Pertanto in
applicazione del
principio di
specialità il
Collegio ritiene che
le società in house
che gestiscono
servizi pubblici
locali rimangono
soggette al regime
transitorio
stabilito dall’art.
8, lettera a) del
D.L. 112/08”
[32][36]
Peraltro, il
documento “Aspetti
regolamentari delle
società "in house"”
del maggio 2010,
elaborato dalle
commissioni
dell’area enti
pubblici “Servizi
pubblici” e “Governance
delle partecipate”
del Consiglio
Nazionale dei
Dottori
Commercialisti e
degli Esperti
Contabili, ha
ritenuto più
adeguato un organo
di amministrazione
collegiale in
relazione alla
natura della società
e agli interessi
rappresentati: “Al
fine di garantire
efficacia al
controllo del socio
sarà opportuno
introdurre in
statuto alcune
limitazioni al
potere degli organi
delegati
(Presidente,
Comitato esecutivo e
amministratori
delegati), atteso
che i segnali
provenienti dal
legislatore sembrano
favorire la
collegialità della
gestione in capo ai
consigli di
amministrazione, a
scapito della figura
dell'amministratore
delegato, e ancor
più di quella del
Comitato Esecutivo.”
|