Giuseppe Urbano (Guida al Diritto)
La sconfitta davanti ai tribunali
amministrativi può costare cara in termini di condanna
alle spese. L’articolo 26, comma 2, c.p.a. prevede che
“Il giudice, nel pronunciare sulle spese, può
altresì condannare, anche d'ufficio, la parte
soccombente al pagamento in favore dell'altra parte
di una somma di denaro equitativamente determinata,
quando la decisione è fondata su ragioni manifeste o
orientamenti giurisprudenziali consolidati”.
Sulla base di quest’ultima
disposizione la Sezione V del Consiglio di Stato con la
sentenza del 23 maggio 2011, n. 3083 ha condannato il
ricorrente che aveva proposto un ricorso per revocazione
ex articolo 395, n. 4. c.p.c. Il ricorso è stato
dichiarato manifestamente inammissibile e la condanna di
€ 5.000,00 per ciascuna parte ai sensi dell’articolo 26,
comma 2, C.p.a. si è aggiunta a quella relativa alle
spese di lite, anch’essa di € 5.000,00 per ciascuna
parte. Il ricorrente aveva invocato l’errore di fatto
che consente il ricorso per revocazione in realtà per
reiterare le censure e le prove già esaminate in sede di
appello e sulle quali il giudice si era già espresso.
Con ciò eludendo le maglie strette entro le quali è
consentito il rimedio della revocazione.
La sentenza in commento fornisce un
inquadramento dell’articolo 26, comma 2, c.p.a.
nell’ambito delle disposizioni processuali relative alla
condanna alle spese di giudizio.
Alcune di esse prevedono una
condanna al pagamento di somme di denaro a tutela della
controparte. Tra queste si possono annoverare quelle che
riguardano le spese di lite (articoli 91 e 92 c.p.c.) e
quelle relative alla responsabilità per lite temeraria
(articolo 96, commi 1 e 2, C.p.c.). Nel primo caso, la
parte vittoriosa viene rimborsata delle spese sostenute
per essere stata costretta all’instaurazione del
giudizio o per resistere in un giudizio infondato nei
suoi confronti. Il secondo caso riguarda una fattispecie
più grave: l’azione o la resistenza in giudizio nei
confronti della parte vittoriosa integra un vero e
proprio danno civile. In questo caso, dunque, la
condanna presuppone l’esistenza effettiva di un danno e
il nesso di causalità tra la condotta illecita
processuale e il danno. Sotto il profilo soggettivo è
richiesto qualcosa in più della semplice colpa: la “mala
fede” o la “colpa grave”.
Altre disposizioni sono poste a
tutela dell’interesse pubblico a non aggravare
l’efficiente ed efficace svolgimento dell’azione
giudiziaria. Così per esempio, l’articolo 246 bis del
Codice dei contratti pubblici - introdotto dal recente
articolo 4, comma 2, lett. ii), Dl n. 70/2011 – prevede
una sanzione economica a carico di chi instaura un
giudizio o vi resiste in modo pretestuoso. In questi
casi, il gettito è conseguentemente devoluto all’erario.
L’articolo 26, comma 2, c.p.a., pur
avendo presupposti applicativi analoghi a quelli
previsti dall’articolo 246 bis del Codice dei contratti
pubblici, ha una finalità diversa, essendo diretto a
tutelare in prima battuta il privato leso dall’azione
giudiziale dell’avversario. Solo in via mediata, la
norma tutela anche l’interesse pubblico ad evitare
giudizi inutili che paralizzano l’attività giudiziaria
ostacolando la realizzazione del “giusto processo”
attraverso il rispetto del valore della ragionevole
durata del processo.
L’articolo 26, comma 2, C.p.a. ha
carattere speciale rispetto alla disposizione più
generale di cui all’articolo 96, comma 3, C.p.c.
Mentre quest’ultima, infatti, si
limita a prevedere in modo generico la possibilità di
condanna equitativa in caso di soccombenza, la prima
disposizione ha un contenuto più determinato con
particolare riferimento ai presupposti di applicazione:
la decisione che giustifica la condanna deve essere
fondata su “ragioni manifeste” o su “orientamenti
giurisprudenziali consolidati”.
Rimane analoga, però, la natura
giuridica. Secondo il Consiglio di Stato la norma
prevede “un indennizzo” per “il danno lecito da
processo”, cioè il pregiudizio che la parte vittoriosa
ha subito in ragione del processo e della sua durata,
anche se la controparte non sia soggettivamente
rimproverabile. Ciò vale a distinguerla dalle altre
tipologie di condanna già accennate (condanna alle spese
della lite, condanna per lite temeraria, sanzione
pubblica).
Non si tratta di mere disquisizioni
teoriche. L’aver ricavato, infatti, un ruolo autonomo
alla disposizione in questione rispetto a quelle già
previste dall’ordinamento processuale, comporta in
termini pratici la possibilità di cumulare le diverse
tipologie di condanne.
Tra il semplice rimborso delle
spese di lite e il risarcimento del danno per lite
temeraria si colloca dunque la figura intermedia
dell’indennizzo per danno lecito da processo. Una
maggiore attenzione, in definitiva, dovrà essere
prestata nel decidere se incardinare un giudizio o
resistervi, se è ragionevolmente scontata la
soccombenza.
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