La sentenza n. 41281/2006 è di particolare interesse
perché affronta e risolve due questioni interpretative
per anni controverse.
La prima riguarda la qualificazione o no della relazione
di servizio della polizia giudiziaria come atto
irripetibile, ai fini e per gli effetti dell’inserimento
nel fascicolo per il dibattimento (art. 431, comma 1,
lettera b), del codice di procedura penale).
La seconda concerne la ricostruzione delle condizioni e
dei limiti entro cui può essere esercitato il potere
integrativo del giudice del dibattimento in materia di
prova (articolo 507 del codice di procedura penale).
La soluzione adottata in specie sulla natura
ripetibile della relazione di servizio consente alla
Corte di affrontare l’altra questione sottoposta alla
sua attenzione, ovvero quella relativa all’ambito dei
poteri di iniziativa probatoria del giudice nel processo
penale.
L’art. 507 cpp prende in esame la questione concernente
l’assetto tra i poteri delle parti e l’iniziativa del
giudice in campo probatorio attribuendo a questi il
potere di integrazione probatoria ex officio.
L’intervento del giudice su tale terreno costituisce una
sorta di “intrusione nell’iniziativa” che, in via
principale, è demandata alle parti in virtù del
principio dispositivo incardinato nell’art. 190 cpp,
tuttavia una ragionevole deroga a tale principio si
rende necessaria per pervenire ad una “giusta” condanna
a cui non si potrebbe giungere se l’istruttoria
dibattimentale si rivelasse lacunosa ed incompleta.
In un contesto nel quale si passa da sistema di tipo
inquisitorio nel quale vigeva il principio del
“contraddittorio sulla prova” che veniva assunta in una
precedente fase istruttoria e poi valutata nel
contraddittorio mentre la figura del giudice istruttore
costituiva un organo d’accusa che aveva il potere di
formulare un’ipotesi ricostruttiva del fatto e ricercava
le fonti di prova necessarie a fondarla, ad un sistema
di tipo accusatorio nel quale si parla di
“contraddittorio per la prova” facendo riferimento
all’art. 111 co. 4 Cost che dispone che “il processo
penale è regolato dal contraddittorio nella formazione
della prova”, ed i poteri del giudice istruttore sono
stati assorbiti dal ruolo del pm, si deve stabilire se i
poteri officiosi del giudice in campo probatorio
costituiscono un “nostalgico” residuo del sistema
inquisitorio o se essi siano a sostegno del principio
della ricerca della verità come fine “primario ed
ineludibile del processo”, come ribadito dalla Corte
Costituzionale con sent. 3 giugno 1992 n. 255.
La questione concernente la natura dei poteri attribuiti
al giudice dall’art. 507 si pone in relazione ad un
duplice ordine di problemi: se tali poteri possano
essere esercitati in rapporto a prove non
tempestivamente dedotte dalle parti (come nel caso in
cui il pm non abbia presentato la lista testimoniale
entro il termine previsto a pena di decadenza dall’art.
468 cpp) e, più in generale, se l’attivazione di tali
poteri necessiti o meno di un principio di attività
probatoria svolta dalle parti.
La risposta a tali quesiti ha dato origine ad una sorta
di “guerra di religione”, un dibattito che ha coinvolto
dottrina e giurisprudenza.
Secondo un orientamento restrittivo, il quale fa
riferimento ad un modello accusatorio “puro”, il potere
ex art. 507 presenta un carattere di eccezionalità, in
quanto la gestione dell’istruzione dibattimentale è
demandata alle parti, sicché al giudice, il quale deve
mantenersi rigorosamente neutrale rispetto alle
prospettive individuali, è consentito un potere di
intervento nell’acquisizione probatoria limitato
all’integrazione delle tesi rimaste incomplete; non è
quindi esercitabile se nessuna attività istruttoria è
stata compiuta per essere stata dichiarata inammissibile
la richiesta di prova testimoniale, come nel caso di
omesso deposito della lista ex art. 468 ovvero di
mancata indicazione delle circostanze su cui l’esame
deve vertere.
Secondo un indirizzo intermedio, il potere di
integrazione probatoria attribuito al giudice dall’art.
507 non è vincolato da preclusioni o decadenze, ma non
può supplire alla totale inerzia delle parti; è quindi
esercitabile a condizione che qualche prova sia stata
acquisita, quantomeno sulla base della lettura degli
atti contenuti nel fascicolo del dibattimento.
Secondo un orientamento estensivo, il potere di
assunzione di nuove prove non tollera alcuna
limitazione, purché vi sia l’assoluta necessità ai fini
dell’accertamento della verità. Aderendo a tale
orientamento in dottrina si è sottolineato che il
principio dispositivo possiede una forza espansiva dei
poteri delle parti, ma non svolge una funzione
preclusiva, con la conseguenza che i poteri officiosi
del giudice, seppure residuali, delimitano il potere
dispositivo sia “verso l’alto”, ovvero attribuendo al
giudice la facoltà di escludere le prove irrilevanti,
superflue e vietate dalla legge, sia “verso il basso”,
consentendo di integrare le prove dedotte dalle parti,
quando queste risultino insufficienti ad assicurare la
funzione conoscitiva del processo.
Dal punto di vista giurisprudenziale nel 1992 le SS. UU.
si erano pronunciate sulla questione con la Sent. 6
novembre 1993 n. 11227, c.d. sentenza Martin la quale
aderisce all’orientamento estensivo ed afferma che la
tesi restrittiva, secondo la quale al giudice è precluso
il potere di ammettere prove che le parti avrebbero
potuto chiedere ma non hanno chiesto, non è sorretta “né
da argomenti letterali né sistematici”, argomenti che
sorreggono invece la tesi estensiva. Infatti, dai lavori
preparatori concernenti la genesi della direttiva 73, da
cui l’art. 507 trae origine, fin dagli emendamenti
proposti dall’allora Guardasigilli Morlino in relazione
al testo della legge delega del 1974, emerge con
chiarezza l’intenzione del legislatore di dare al
giudice un potere in grado di ovviare all’inerzia delle
parti in materia probatoria.
Inoltre la lettura estensiva dell’art. 507 ben si
armonizza con il dettato dell’art. 603 cpp, non potendo
riconoscersi che al giudice di appello, rinnovando
l’istruttoria dibattimentale, competa un potere
probatorio più ampio che gli consenta di ammettere prove
che erano precluse al giudice di prima istanza:
“altrimenti in alcuni casi si renderebbe necessario
l’appello per completare il quadro probatorio,
costringendo il giudice di primo grado ad una decisione
non sorretta da elementi e quindi provvisoria”.
Tale pronuncia è stata consacrata dalla Corte
Costituzionale con sent. 26 marzo 1993 n. 111 nella
quale la Corte dichiara la infondatezza delle questioni
di legittimità costituzionale dell’art. 507 sollevate in
riferimento agli artt. 2, 3, 24, 25, 76, 77, 101, 111 e
112 Cost. ed afferma che il potere istruttorio del
giudice del dibattimento, di cui all’art. 507 non è
affatto eccezionale, bensì suppletivo rispetto a quello
delle parti. Il Giudice delle leggi afferma che una
lettura in chiave limitativa del potere ex art. 507
contrasta con “la ricerca della verità” che rimane “il
fine primario ed ineludibile del processo penale”.
Infatti il metodo dialogico che presiede alla formazione
della prova nel dibattimento, non può porsi come un
ostacolo al pieno accertamento dei fatti, “altrimenti ne
sarebbe risultata tradita la funzione conoscitiva del
processo, che discende dal principio di legalità e da
quel suo particolare aspetto costituito dal principio di
obbligatorietà dell’azione penale”.
Riprendendo le argomentazioni affrontate nella Sentenza
Martin, la Corte Costituzionale ha evidenziato che il
diritto alla prova, pur rivestendo un ruolo centrale nel
processo di parti, non può escludere la “introduzione ad
iniziativa del giudice delle prove necessarie
all’accertamento dei fatti, rispetto alle quali le parti
siano rimaste inerti o dalla quali siano decadute”. Una
simile conclusione trova giustificazione nella
previsione di numerosi poteri d’ufficio riconosciuti al
giudice nella fasi dibattimentale (artt. 506, 508, 511,
511 bis) fra i quali spicca proprio quello fissato
dall’art. 507.
Nonostante gli interventi delle SS. UU. e della Corte
Costituzionale, non sono mancate pronunce contrarie da
parte delle singole sezioni della Cassazione, le quali
hanno restrinto i poteri officiosi del giudice
escludendo che essi possano esercitarsi in caso di
inerzia delle parti.
Si ricordino, ad esempio, la Cass. Sez. V, 1 dicembre
2004, n. 15631 e la Cass. Sez. I, 30 gennaio 1995,
Rizzo, Cass. Sez. I 28 settembre 1995, Cass. Sez. I 8
luglio 2000, Cass. Sez. III 10 dicembre 1996, sentenze
che “seppure talvolta accreditate come espressione del
contrario orientamento, sono in realtà caratterizzate da
peculiarità dei singoli casi che non consentono di
ritenerle adesive dell’uno o dell’altro orientamento”.
Con sentenza 41281/2006, le SS. UU. riaffermano in
toto l’impianto argomentativo della sentenza Martin
alla luce dell’art. 111 Cost. in tema di “giusto
processo” e dichiarano che il potere del giudice di
disporre d’ufficio l’assunzione di nuovi mezzi di prova,
ai sensi dell’art. 507, può essere esercitato pur quando
non vi sia stata precedente acquisizione di prove che le
parti avrebbero potuto chiedere e non hanno chiesto, ma
sempre che l’iniziativa probatoria si necessaria e miri
all’assunzione di una prova decisiva nell’ambito delle
prospettazioni delle parti.
La riforma dell’art. 111 Cost. ha, infatti, solamente
accentuato il principio fondante del processo
accusatorio, ossia quello secondo il quale la prova si
forma nel contraddittorio delle parti, ma non ha in
alcun modo inciso sul principio dispositivo che, pur
caratterizzando il processo accusatorio, non è stato
integralmente recepito nel codice di rito, cosa che
neppure è stata fatta per il processo civile, nel quale
quel principio trova la sua più ampia applicazione.
La Corte svolge alcune considerazioni di tipo storico e
comparatistico ricordando il sistema nordamericano
all’interno del quale nel 1976 vi fu un’innovazione
legislativa che consentì la nomina d’ufficio
dell’esperto indipendente (expert witness) da parte del
giudice ad opera della Rule 706 delle Federal Rules of
Evidence del 1975 riguardante sia il processo civile che
quello penale. Tale innovazione conferma normativamente
una deroga del principio dispositivo che peraltro la
giurisprudenza civile aveva già affermato, mentre
permane ancora oggi nella giurisprudenza penale un certo
rifiuto nell’applicazione della norma.
Si chiede la Suprema Corte: “Perché mai non dovrebbe
essere considerato terzo un giudice scrupoloso che
intende giudicare a ragion veduta e non con informazioni
conoscitive insufficienti ben sapendo che è possibile
colmare almeno una parte delle lacune esistenti? È
questo potere (da esercitare solo in caso di assoluta
necessità) un residuo del principio inquisitorio oppure
vale a fondare un processo veramente «giusto»?”
In realtà l’attribuzione al giudice dei poteri officiosi
in materia di prova, lungi dall’interferire sul
principio di terzietà del giudice, ha la funzione di
fondare un “giusto processo”, funzione che può essere
perseguita colmando anche le eventuali lacune delle
parti qualora il giudice non si ritenga in grado di
decidere per la lacunosità o l’insufficienza del
materiale probatorio.
Si legge nella Sent. 41281/2006: “senza neppure
scomodare i grandi principi, in particolare quello
secondo cui lo scopo del processo è l’accertamento della
verità, si può ragionevolmente affermare che la norma
mira esclusivamente a salvaguardare la completezza
dell’accertamento probatorio, sul presupposto che se le
informazioni probatorie a disposizione del giudice sono
più ampie è più probabile che la sentenza sia equa e che
il giudizio si mostri aderente ai fatti”.
A questo punto va rimarcata la differenza
logico-concettuale tra l’ipotesi di incertezza
probatoria all’origine dei poteri ex art. 507 e l’ambito
in cui ricadono le situazioni contemplate dall’art. 530
co. 2 cpp, nel quale si impone al giudice di assolvere
l’imputato quando la prova sia insufficiente e
contraddittoria.
Nel caso dell’art. 507 si tratta di una valutazione
afferente l’incompletezza del materiale probatorio a cui
può essere posto rimedio essendo emersa in dibattimento
una fonte che, astrattamente, consentirebbe
l’integrazione del thema probandum, mentre nel
caso delle ipotesi contemplate dall’art. 530 co. 2 si
tratta di una regola di giudizio in base alla quale la
prova, pur esaurientemente raccolta nel corso
dell’istruttoria dibattimentale, si rivela inidonea a
fondare la colpevolezza dell’imputato. Le due norme in
esame hanno quindi un diverso oggetto.
Inoltre, l’attribuzione del potere ex art. 507 mira a
dare concretezza al principio dell’obbligatorietà
dell’azione penale, costituzionalizzato nell’art. 112,
il quale comporta la necessità che il giudice possa e
debba sempre verificare l’esercizio da parte del pm dei
suoi poteri di iniziativa, come delle sue carenze od
omissioni.
“Una limitazione dei poteri probatori officiosi del
giudice sarebbe idonea a vanificare il principio
dell’obbligatorietà dall’azione penale e si porrebbe in
palese contraddizione con l’esistenza degli amplissimi
poteri del giudice in tema di richiesta di archiviazione
del pm”.
Ciò a differenza dei sistemi accusatori dei Paesi di
commow law nei quali l’azione penale non è obbligatoria
ed il pm può rinunciare ad essa anche per facta
concludentia, ad esempio rinunciando ad ammettere
alcune prove.
Presupposto per l’esercizio del potere officioso ex art.
507 è l’espletamento dell’istruttoria dibattimentale.
L’espressione “terminata l’acquisizione delle prove”
indica il limite temporale decorso il quale il giudice
può esercitare il potere di integrazione probatoria,
anche nel caso in cui non vi sia stata alcuna precedente
attività delle parti.
Pur recependo questa interpretazione sostenuta da
dottrina e giurisprudenza, quest’ultima non si è
tuttavia mostrata rigida nell’applicazione della regola
temporale stabilita dall’art. 507. Si è, infatti,
stabilito che l’assunzione di una testimonianza disposta
ai sensi dell’art. 507 in un momento diverso rispetto a
quello indicato dalla norma costituisce mera
irregolarità la quale non è sanzionata né sotto il
profilo della inutilizzabilità, né di quello della
nullità di ordine generale ricollegabile all’art. 178
co. 1 lett. C cpp in quanto l’escussione di un teste,
“anticipata” rispetto al termine dell’acquisizione delle
prove, non incide sull’assistenza, sulla rappresentanza
o sull’intervento dell’imputato.
La prova deve essere nuova, assolutamente necessaria e
pertinente.
Secondo le Sezioni Unite e la Corte Costituzionale per
“prova nuova” deve intendersi non solo la prova
sopravvenuta o scoperta successivamente rispetto
all’allegazione di parte a norma dell’art. 493 cpp, ma
anche la prova non disposta precedentemente,
preesistente o sopravvenuta, conosciuta o non
conosciuta, purché risulti dagli atti.
Dalla lettera dell’art. 507 la prova deve essere
“assolutamente necessaria”, deve cioè avere carattere di
decisività, presupposto indefettibile “diversamente da
quanto avviene nell’esercizio ordinario del potere
dispositivo delle parti in cui si richiede soltanto che
le prove siano ammissibili e rilevanti”.
L’assunzione d’ufficio ex art. 507 presuppone l’assoluta
impossibilità di decidere allo stato degli atti, è una
valutazione ampiamente discrezionale e per questo può
essere in concreto contestata. Ma il giudice ha l’onere
di motivare tale assunzione di prove sicché, secondo la
giurisprudenza, l’eventuale carenza giustificativa
determina un vizio di motivazione passibile di
determinare la nullità della sentenza. Tale ordinamento
giurisprudenziale è stato criticato in dottrina in
quanto rischia di vanificare ogni tipo di controllo
sull’operato del giudice.
Il canone dell’assoluta necessarietà comporta quindi una
più penetrante ed approfondita valutazione di pertinenza
e rilevanza delle nuove prove, che è correlata alla più
ampia conoscenza dei fatti di causa già acquisita.
Una parte della dottrina sostiene che la prova risulta
assolutamente necessaria quando il suo grado di
rilevanza risulta indispensabile perché il giudice possa
superare l’incertezza probatoria ed emettere una giusta
decisione, un’altra parte, la quale si riallaccia
all’interpretazione maggiormente restrittiva dell’art.
507, afferma che nuove acquisizioni probatorie sono
legittime solo in presenza di un elemento emergente per
la prima volta nel dibattimento tale da incrinare la
linearità della costruzione del fatto.
Inoltre il potere integrativo può essere esercitato solo
nell’ambito delle prospettazioni e non per supportare
probatoriamente una diversa ricostruzione che il giudice
possa ipotizzare, giacché diversamente si finirebbe con
il pregiudicare il basilare principio della terzietà del
giudice. (Cass. SS. UU. 30 ottobre 2003, n. 20,
Andreotti).
Si legge nella sentenza per il delitto Pecorelli: “la
corte di assise di appello, disancorandosi
consapevolmente dalle ipotesi antagoniste prospettate
dall’accusa e dalla difesa ed esimendosi dall’obbligo
istituzionale di sciogliere i nodi del confronto
dialettico sviluppatosi, sia sulle ipotesi che sulle
prove, nel corso del giudizio di merito, ha deciso di
sottoporre a verifica giudiziale un proprio
«teorema»accusatorio, da essa formulato in via autonoma
ed alternativa, in violazione sia delle corrette regole
di valutazione della prova che del basilare principio di
terzietà della giurisdizione, anche rispetto ai problemi
implicati nel caso giudiziario”.
Circa la tipologia delle prove assumibili è controversa
la questione se il legislatore abbia voluto
circoscriverle o meno.
Se si segue la lettera dell’art. 507 sono da escludere i
mezzi di ricerca della prova (ispezione, perquisizione,
sequestro probatorio, intercettazione), salvo che
tendano alla ricerca di una cosa o di un documento la
cui acquisizione sia per legge obbligatoria o la cui
esistenza o collocazione risulta dagli atti.
Ma l’orientamento maggioritario sostiene che la formula
impiegata dal legislatore non deve intendersi in senso
riduttivo, perché sarebbe frutto di una mera svista del
legislatore, come dimostrato sia dalla rubrica della
norma (ammissione di nuove prove), sia dal contenuto
dell’omologa previsione dell’art. 523 co. 6 cpp i quali
si riferiscono entrambi all’assunzione di nuove prove,
espressione comprensiva anche dei mezzi di ricerca della
prova.
Nello stesso senso è orientata la giurisprudenza, la
quale sostiene che l’esercizio dei poteri ex art. 507
comprende tutti i mezzi di prova nuovi rispetto a quelli
acquisiti ad iniziativa delle parti, ivi compresi i
mezzi di ricerca della prova.
In conclusione la Suprema Corte si sofferma sulla
posizione delle parti a fronte dell’esercizio del potere
integrativo officioso da parte del giudice affermando:
“resta integro il potere delle parti di chiedere
l’ammissione di nuovi mezzi di prova – secondo la regola
indicata nell’art. 495 cpp co. 2 (prova contraria) – la
cui assunzione si sia resa necessaria a seguito
dell’integrazione probatoria disposta d’ufficio e, da
diverso punto di vista, che l’esercizio dei poteri in
deroga al principio dispositivo non fa venir meno
l’onere del Pubblico Ministero di provare il fondamento
dell’accusa e, tanto meno, l’obbligo per il giudice di
rispettare i divieti probatori esistenti”.
Dott.ssa Angela Allegria
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE PENALI
Sentenza 17.10.2006 n. 41281
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri
Magistrati:
Dott. MARVULLI Nicola - Presidente
-
Dott. LATTANZI Giorgio -
Consigliere -
Dott. DE ROBERTO Giovanni -
Consigliere -
Dott. CALABRESE Renato L. -
Consigliere -
Dott. BRUSCO Carlo G. - rel.
Consigliere -
Dott. CARMENINI Secondo Libero -
Consigliere -
Dott. CANZIO Giovanni - Consigliere
-
Dott. FIALE Aldo - Consigliere -
Dott. FRANCO Amedeo - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso proposto da:
G.A. Nata a (OMISSIS);
Avverso la sentenza del Tribunale
di Biella in data 7.3.2005; Visti gli atti, la sentenza
denunziata e il ricorso; Udita in pubblica udienza la
relazione svolta dal Consigliere Dott. Carlo Giuseppe
Brusco; Udito il Pubblico Ministero nella persona
dell’Avvocato Generale Dott. Esposito Vitaliano che ha
concluso chiedendo l’annullamento con rinvio.
Fatto
1) La sentenza impugnata e i motivi
di ricorso. Il Procuratore della Repubblica presso il
Tribunale di Biella ha proposto ricorso immediato per
Cassazione avverso la sentenza 7 marzo 2003 del
Tribunale di Biella, in composizione monocratica, che ha
assolto G.A. Da plurime imputazioni concernenti il reato
di cui all’art. 485 cod. pen. (quattro evasioni dagli
arresti domiciliari commesse tra il 6 e il 31 maggio
2000).
Il Tribunale ha ritenuto che non
fosse stata provata la responsabilità dell’imputato; il
Pubblico Ministero infatti non aveva depositato la lista
testimoniale e il giudice aveva respinto la richiesta di
ammissione dei testi ai sensi dell’art. 507 c.p.p.
Ritenendo inapplicabile questa norma nel caso di inerzia
della parte;
inoltre era stata respinta la
richiesta di inserimento nel fascicolo per il
dibattimento delle relazioni di servizio redatte dagli
organi di polizia giudiziaria.
A fondamento del ricorso il
pubblico ministero ricorrente deduce:
• la violazione dell’art. 507
c.p.p.; in base all’orientamento della Corte
costituzionale (sentenza 26 marzo 1993 n. 111) e a
quello, assolutamente prevalente, della Corte di
cassazione (ed in particolare delle sezioni unite:
sentenza 21 novembre 1992 n. 17, Martin)
l’interpretazione che il giudice di primo grado ha dato
della norma indicata non può essere condivisa, secondo
il ricorrente, perché trascura di considerare che il
nuovo processo penale, pur essendo fondato sul principio
dispositivo, ha pur sempre per fine ultimo la ricerca
della verità; ciò giustificherebbe un’interpretazione
non limitativa dei poteri officiosi del giudice anche
nei casi di inerzia delle parti;
• la violazione dell’art. 431
c.p.p., comma 1, lett. B; l’accertamento compiuto dalla
polizia giudiziaria sulla presenza della persona nella
sua abitazione non costituirebbe infatti un atto di mera
informativa ma conterrebbe un accertamento e la
descrizione di una situazione di fatto suscettibile di
modificazioni nel tempo e sarebbe quindi correttamente
inquadrabile tra gli atti non ripetibili della polizia
giudiziaria con la conseguente possibilità di
acquisizione al fascicolo per il dibattimento.
In conclusione il ricorrente chiede
l’annullamento con rinvio della sentenza impugnata.
2) L’ordinanza di rimessione alle
sezioni unite. La sesta sezione di questa Corte, alla
quale il procedimento era stato assegnato, ha, con
ordinanza 13 giugno 2006, disposto la trasmissione degli
atti a queste sezioni unite rilevando che su entrambe le
questioni proposte con i motivi di ricorso sussiste
contrasto nella giurisprudenza di legittimità.
Quanto al primo tema di contrasto
nell’ordinanza di trasmissione si sottolinea che – dopo
che le sezioni unite (con la già citata sentenza 6
novembre 1992 n. 11227, Martin) avevano ritenuto che il
potere del giudice di disporre d’ufficio l’assunzione di
nuovi mezzi di prova, ai sensi dell’art. 507 c.p.p.,
potesse esercitarsi non solo quando non vi era stata
precedente ammissione di prove ma altresì con
riferimento a prove che le parti avrebbero potuto
chiedere e non hanno richiesto – si sono formati due
orientamenti divergenti nella giurisprudenza di
legittimità. Il primo, maggioritario, si è posto sulla
linea accolta dalle sezioni unite; secondo altre
decisioni invece il potere officioso del giudice nel
procedimento di formazione della prova può essere
integrativo e sussidiario ma mai del tutto sostitutivo
dei poteri propri delle parti.
In merito al problema relativo alla
delimitazione del concetto di atti non ripetibili – con
particolare riferimento alla possibilità di inquadrare
in questa categoria le relazioni di servizio che
riproducono attività di constatazione ed osservazione
effettuate dalla polizia giudiziaria – la sesta sezione
ha evidenziato una duplice e ricorrente divaricazione
nella giurisprudenza di legittimità sostenendosi, in
alcune decisioni, che le indicate relazioni
costituiscono atti non ripetibili equiparabili a
perquisizioni, sequestri ed ispezioni con la conseguente
possibilità di acquisire questi atti al fascicolo per il
dibattimento. Per converso il secondo e contrastante
orientamento esclude invece questa possibilità
affermando che le relazioni in questione costituiscono
una mera constatazione ed acquisizione della notizia di
reato, che può essere agevolmente ridescritta
dall’operante nel corso del dibattimento, e non possono
quindi essere acquisite all’indicato fascicolo.
Diritto
3) Gli atti non ripetibili in
generale. Per ragioni di ordine logico è opportuno
esaminare preliminarmente la questione relativa alla
possibilità di acquisire al fascicolo per il
dibattimento le relazioni di servizio. Dalla risposta a
questo quesito discende infatti la rilevanza dell’altro
quesito perché una risposta positiva (nel senso che la
relazione di servizio di cui si tratta nel presente
giudizio fosse ritenuta acquisibile e utilizzabile dal
giudice) renderebbe privo di rilievo l’esame dell’altro
tema proposto.
Su questo problema il contrasto
nella giurisprudenza di legittimità è effettivo e
risalente negli anni; anche dopo che le sezioni unite di
questa Corte l’avevano risolto con la sentenza 28
ottobre 1998 n. 4, Barbagallo, rv. 212758 – affermando
la possibilità di inserimento nel fascicolo per il
dibattimento dei “verbali di sopralluogo e di
osservazione e delle riprese fotografiche connesse” (in
una decisione peraltro dedicata all’esame di altri temi)
– la giurisprudenza della Corte di Cassazione si è
nuovamente divaricata soprattutto sul quesito se
rientrino tra gli atti irripetibili le relazioni di
servizio sulle attività di constatazione, osservazione,
pedinamento, controllo ecc. mentre non v’è un effettivo
contrasto sulla natura irripetibile degli atti che
descrivono situazioni di luoghi, persone o cose soggette
a modificazioni.
In particolare, per restare alle
pronunzie più recenti, tra le decisioni che hanno
seguito il percorso delle sezioni unite possono essere
ricordate Cass., sez. 5^, 12 ottobre 2005 n. 39995,
Gissi, rv.
232380; sez. 2^, 12 gennaio 2005 n.
2353, Are, rv. 230618; sez. 3^, 27 maggio 2004 n. 28930,
Troncone, rv. 229494; mentre per l’orientamento opposto
si sono espresse, tra le altre, Cass., sez. 6^, 8 giugno
2004 n. 39230, Aiuto, rv. 230375; sez. 1^, 23 ottobre
2002 n. 37286, Marucci, rv. 222537; sez. 1^, 13 giugno
2003 n. 30122, Ventaloro, rv, 225493.
A differenza del tema che verrà
successivamente affrontato quello relativo
all’individuazione dei criteri da seguire per affermare
la natura non ripetibile di un atto della polizia
giudiziaria riguarda direttamente il “giusto processo”
nell’assetto derivante dall’innovato art. 111 Cost. Dopo
la riforma introdotta dalla Legge Costituzionale 23
dicembre 1999, n. 2 e dopo l’entrata in vigore della
Legge Attuazione 1 marzo 2001, n. 63.
L’inserimento del verbale di un
atto della polizia giudiziaria nel fascicolo per il
dibattimento, al di fuori dei casi previsti, costituisce
infatti una deroga non solo al principio di oralità
(che, pur caratterizzando il sistema accusatorio, non ha
peraltro copertura costituzionale) ma in particolare al
principio del contraddittorio nella formazione della
prova perché consente che l’atto, formato nella fase
procedimentale, venga utilizzato, previa lettura, per la
decisione.
E’ vero che la legge di attuazione
indicata non ha modificato l’art. 431 c.p.p. Ma questa
norma va oggi interpretata alla luce della previsione
contenuta nell’art. 111 Cost., comma 4 che impone il
contraddittorio come regola per la formazione della
prova mentre il comma successivo consente la deroga a
questo principio solo nel caso di consenso
dell’imputato, di provata condotta illecita e “per
accertata impossibilità di natura oggettiva”.
Dal nuovo assetto della disciplina
costituzionale sulla formazione della prova derivano
quindi due conseguenze: 1) al di fuori degli altri casi
indicati (consenso e provata condotta illecita) l’atto
di cui si discute, per poter essere ritenuto non
ripetibile, non deve essere rinnovabile in dibattimento
per “accertata impossibilità di natura oggettiva”; 2) in
caso di dubbio un’interpretazione costituzionalmente
orientata non può che imporre una delimitazione degli
atti acquisibili al fascicolo dibattimentale alle sole
ipotesi nelle quali la rinnovazione sia effettivamente
ed oggettivamente impossibile.
Va ancora precisato che la non
ripetibilità degli atti della polizia giudiziaria
riguarda l’irripetibilità originaria mentre l’ipotesi
prevista dall’art. 512 c.p.p. Riguarda i casi di
impossibilità sopravvenuta di ripetizione dell’atto e
che la disciplina degli atti non ripetibili riguarda,
oltre che gli atti della polizia giudiziaria e del
Pubblico Ministero, anche quelli compiuti dal difensore
come prevede la lett. E dell’art. 431 a seguito della
modifica introdotta dalla L. 7 dicembre 2000, n. 397,
art. 15.
4) Criteri per stabilire la natura
non ripetibile dell’atto. Ciò premesso, non avendo il
legislatore provveduto a individuare gli atti non
ripetibili né ad indicare i criteri necessari per
qualificare tale un atto del procedimento, sta
all’interprete individuare questi criteri avendo
presente la necessità di non incorrere in un duplice
contrapposto errore: il primo errore è quello di fare
riferimento al contesto in cui l’atto è stato compiuto
perché in questo caso non esisterebbe atto ripetibile in
dibattimento non essendo mai riproducibile il contesto
in cui l’atto è stato formato (anche le dichiarazioni
rese dalla persona informata sui fatti non sono
ripetibili nel medesimo contesto).
Il secondo errore in cui potrebbe
incorrere l’interprete è quello di fare esclusivamente
riferimento alla possibilità di descrizione delle
attività compiute perché, in questo caso, sarebbe ben
difficile ritenere non ripetibili quegli atti che, fino
ad oggi, dottrina e giurisprudenza hanno concordemente
ritenuto tali (perquisizioni, sequestri, arresto, fermo
ecc.). L’agente o l’ufficiale di polizia giudiziaria
infatti ben potrebbe essere chiamato a descrivere nel
dibattimento le attività svolte in queste occasioni.
Va ancora ricordato che possono
ritenersi superate le teorie che facevano riferimento,
per individuare gli atti in questione, alla natura di
“atto a sorpresa” o di “atto indifferibile” (gli atti
che hanno queste caratteristiche possono talvolta essere
ripetibili mentre atti a sorpresa o indifferibili non
necessariamente hanno caratteristiche di
irripetibilità).
Per verificare a quale nozione di
ripetibilità abbia fatto riferimento l’art. 431 c.p.p.
Occorre intanto procedere con un criterio di esclusione
considerando che mai potranno essere considerate
originariamente irripetibili le dichiarazioni che,
nell’impianto accusatorio del nostro codice,
costituiscono il tipico esempio di atto ripetibile con
modalità narrative. Non è un caso che, ben prima della
modifica dell’art. 111 Cost., sia stata abrogata
l’originaria previsione del codice (art. 500 c.p.p.,
comma 4) che consentiva l’acquisizione al fascicolo per
il dibattimento delle dichiarazioni assunte dal p.m. O
dalla p.g. Nel corso delle perquisizioni ovvero sul
luogo e nell’immediatezza del fatto, utilizzate per le
contestazioni. Nel bilanciamento tra i principi che si
riferiscono alla genuinità dell’atto e al rispetto del
contraddittorio nella formazione della prova in tema di
dichiarazioni la prevalenza non poteva che essere
attribuita al secondo principio (unica eccezione
potrebbe essere oggi ritenuta quella delle dichiarazioni
rese da persona in punto di morte).
La ripetibilità non può peraltro
consistere nella mera possibilità di descrivere le
attività compiute dagli agenti e ufficiali di polizia
giudiziaria. L’esame delle fattispecie concordemente
ritenute appartenere alla categoria degli atti non
ripetibili consente invece di affermare che questi atti
sono caratterizzati dall’esistenza di un risultato
ulteriore rispetto alla mera attività investigativa
della polizia giudiziaria e dall’acquisizione di
informazioni ulteriori derivate da questa attività; ma
deve trattarsi di casi in cui questo risultato ulteriore
non sia più riproducibile in dibattimento se non con la
perdita dell’informazione probatoria o della sua
genuinità.
Insomma si deve trattare di un
risultato estrinseco rispetto alla mera attività
d’indagine che, di per sé, può sempre essere ridescritta
in dibattimento senza che alcuna informazione vada
perduta.
Ciò appare evidente nel caso delle
intercettazioni telefoniche (le cui trascrizioni sono
peraltro inserite nel fascicolo per il dibattimento per
espressa previsione normativa: art. 268 c.p.p., comma
7). Chi le ha materialmente eseguite potrebbe, in
astratto, descrivere in dibattimento le attività svolte
ed anche riferire il contenuto delle conversazioni
intercettate, ma non potrebbe certo riprodurre le
conversazioni captate: quello che in ipotesi potrebbe
riferire sarebbe comunque diverso da quanto è stato
captato e andrebbe dunque perduta un’informazione
probatoria potenzialmente rilevante nel processo.
Per quanto riguarda altri casi di
atti tipici comunemente ritenuti irripetibili
(perquisizioni, sequestri, arresti ecc.) la costruzione
è di meno immediata evidenza ma il concetto è analogo.
Qualunque attività svolta dagli appartenenti alla
polizia giudiziaria può essere ridescritta in forma
narrativa nel contraddittorio delle parti ma se questa
attività si è cristallizzata in un atto o in un fatto
estrinseci alla mera attività investigativa il risultato
dell’attività può essere descritto ma non riprodotto.
Così l’apprensione materiale in cui
si concretizza il sequestro, la ricerca materiale del
corpo di reato che si svolge nel corso della
perquisizione, la concreta privazione della libertà
personale nei casi di arresto o fermo: tutte attività
ulteriori, diverse ed estrinseche rispetto a quelle
investigative, che vengono cristallizzate in un verbale
il cui contenuto informativo non sarebbe riproducibile
in dibattimento o lo sarebbe ma con il risultato della
perdita della genuinità e immediatezza che caratterizza
la redazione del verbale che riproduce queste attività
diverse ed ulteriori.
In parte diversa è la nozione di
non ripetibilità riguardante la descrizione di luoghi,
cose o persone di interesse per lo sviluppo delle
indagini, o per la celebrazione del processo, che assume
carattere di irripetibilità quando si tratti di
situazioni modificabili per il decorso del tempo
(carattere peraltro presente anche negli atti tipici non
ripetibili) . In questi casi la non ripetibilità deriva
non da un’assoluta impossibilità di descrizione delle
situazioni modificabili ma dalla perdita di informazioni
che deriva dalla possibilità di mutamento dello stato di
luoghi, cose o persone che non renderebbe possibile, in
caso di necessità, la ripetizione dell’atto.
In questi casi la non ripetibilità
trova un’indiretta conferma normativa nelle disposizioni
dell’art. 354 c.p.p., commi 2 e 3 (che abilita la
polizia giudiziaria a compiere rilievi sullo stato delle
cose, dei luoghi e delle persone nel caso di pericolo di
alterazione, dispersione o modificazione), art. 360
c.p.p. (che abilita il Pubblico Ministero, in situazioni
analoghe, a disporre accertamenti tecnici non ripetibili
utilizzabili nel dibattimento) e art. 391 decies c.p.p.,
commi 2 e 3 (ove si fa espresso riferimento alla
documentazione di atti non ripetibili compiuti dal
difensore in occasione dell’”accesso ai luoghi” e agli
accertamenti tecnici non ripetibili). Queste norme
consentono infatti, in deroga alla disciplina ordinaria,
di svolgere attività investigativa – la cui
documentazione è utilizzabile in dibattimento – a
soggetti che di regola non dispongono dei relativi
poteri proprio perché in dibattimento non sarebbe più
possibile dare luogo al corrispondente mezzo di prova se
non con la perdita della genuinità e quindi
dell’affidabilità dell’atto.
E la conferma che il concetto di
non ripetibilità è strettamente ricollegato (anche) alla
modificazione di cose, luoghi e persone si rinviene nel
disposto dell’art. 117 delle disp. Att. c.p.p., che
estende la disciplina dell’art. 360 c.p.p. Agli
accertamenti che modifichino le situazioni indicate, e
dell’art. 223 disp. Att. c.p.p. Che prevede una
particolare disciplina per le analisi di campioni con
l’espressa previsione di acquisizione al fascicolo per
il dibattimento dei verbali di analisi non ripetibili e
dei verbali di revisione di analisi.
In conclusione ciò che giustifica
l’attribuzione della qualità di non ripetibilità ad un
atto della polizia giudiziaria, del Pubblico Ministero o
del difensore è la caratteristica di non essere
riproducibile in dibattimento. Ma ciò non è sufficiente:
nel bilanciamento di interessi tra la ricerca della
verità nel processo e sacrificio del principio
costituzionale relativo alla formazione della prova è
necessario che l’atto abbia quelle caratteristiche di
genuinità e affidabilità che possono derivare soltanto
da quell’attività di immediata percezione cristallizzata
in un verbale che inevitabilmente andrebbe dispersa ove
si attendesse il dibattimento.
5) Le relazioni di servizio in
particolare. Passando più specificamente al tema che
forma oggetto del motivo di ricorso in esame va rilevato
che il problema viene spesso impropriamente proposto
come relativo alla verifica se le relazioni di servizio
possano, o meno, essere considerate atti non ripetibili
della polizia giudiziaria ai fini della possibilità del
loro inserimento nel fascicolo per il dibattimento.
La questione è però impropriamente
proposta perché il problema non è quello della
denominazione dell’atto ma del suo contenuto. La nozione
di atto non ripetibile non ha natura ontologica ma va
ricavata dalla disciplina processuale. Ciò che rileva è
il tipo di informazione contenuto nell’atto redatto
dalla polizia giudiziaria:
se contiene un tipo di accertamento
che non sarà possibile compiere nuovamente nel
dibattimento, secondo i criteri indicati, l’atto dovrà
essere considerato non ripetibile – e quindi inseribile
nel fascicolo per il dibattimento indipendentemente
dalla sua denominazione (la necessità di fare
riferimento al contenuto dell’atto per verificare se la
relazione si riferisca effettivamente ad attività non
ripetibili è stata di recente ribadita da Cass., sez.
1^, 12 aprile 2005 n. 14664, Palermo, rv. 231328).
Quindi, anche per le relazioni di
servizio, perché possano essere ritenute non ripetibili
non sarà sufficiente che contengano informazioni su
attività d’indagine che, per loro natura, possono essere
descritte in dibattimento ma è necessario che contengano
la descrizione di un’attività materiale svolta,
ulteriore rispetto a quella investigativa e non
riproducibile, ovvero la descrizione di luoghi, cose o
persone che, parimenti, possono essere ritenute non
ripetibili perché soggetti a modificazioni secondo i
criteri in precedenza indicati.
Anche nel caso delle relazioni di
servizio si potrebbe affermare che queste attività
materiali e questi rilievi potrebbero essere ripetuti in
dibattimento con la descrizione narrativa delle attività
svolte da parte di chi le ha compiute e con la
ricostruzione verbale della situazione di luoghi,
persone e cose da parte di chi ha compiuto i rilievi. Ma
non è così: il narrante può descrivere ciò che ha
compiuto o ciò che ha visto ma non compiere nuovamente
un’attività che si è concretizzata in un risultato
oggettivo estrinseco che non può essere nuovamente
compiuto (non solo il sequestro, la perquisizione,
l’arresto ecc. ma altresì il rilievo dei luoghi, la
descrizione della cosa soggetta a modificazioni ecc.);
può ridescrivere una situazione ma
non riprodurla come è stata “fotografata”
nell’immediatezza. In questi casi la mancata
acquisizione dell’atto condurrebbe alla perdita di
un’informazione certamente più genuina della descrizione
che potrebbe farsene in dibattimento e che si può
rivelare essenziale per l’esito del processo.
Ma questa perdita dell’informazione
probatoria non si verifica nei casi in cui la relazione
di servizio (o altro atto della polizia giudiziaria) si
limiti a descrivere attività investigative consistenti
in osservazione, constatazione, pedinamenti,
accertamento della presenza di persone e di loro
attività come contatti, spostamenti ecc. ovvero si
limitino a descrivere le circostanze di tempo e di luogo
in cui è stata acquisita la notizia di reato. In questi
casi non v’è alcuna “impossibilità di natura oggettiva”
alla riproduzione narrativa in dibattimento delle
attività svolte; non v’è alcun risultato estrinseco in
cui si sia concretizzata l’attività d’indagine che non
possa essere riprodotto in dibattimento; non esiste
alcuna perdita di informazioni probatorie genuine.
Per esemplificare: il pedinamento
può essere descritto in dibattimento da chi l’ha
compiuto che potrà riferire, per esempio, delle attività
svolte e delle persone con cui il pedinato ha avuto
contatti. Se il pedinato verrà osservato mentre consegna
sostanza stupefacente ad un terzo saranno l’arresto e il
sequestro della sostanza che non potranno essere
riprodotti in dibattimento non la descrizione
dell’attività investigativa precedentemente svolta e
delle modalità di acquisizione della notizia di reato.
Del resto in che cosa si
differenziano queste “relazioni di servizio”
dall’informativa di reato prevista dall’art. 347 c.p.p.
E della cui natura di atto ripetibile (salvo per quelle
parti che possano farsi rientrare nella nozione in
precedenza indicata) nessuno ha mai dubitato? Anzi nella
redazione del nuovo codice il legislatore ha avuto
presente proprio il vecchio “rapporto” quale elemento
discriminante atto a sottolineare l’affermazione del
sistema accusatorio nella formazione della prova
pervenendo a mutarne la denominazione e ritenendo
conclamata la non acquisibilità al fascicolo per il
dibattimento.
Sarebbe poi singolare consentire
che la polizia giudiziaria, con una mera scelta
terminologica (qualificando come “relazione di servizio”
un’informativa di reato) divenisse arbitra della
possibilità di derogare al principio della formazione
della prova nel contraddittorio delle parti.
I casi in cui le relazioni di
servizio si limitino a descrivere le attività di
indagine rientrano dunque tra le attività ripetibili
proprio perché la ripetizione si esaurisce con la
descrizione narrativa di questa attività; tra l’altro,
proprio per contrastare il pericolo di perdita
dell’informazione probatoria derivante dal decorso del
tempo e dall’attenuarsi dei ricordi, è previsto che il
testimone possa essere autorizzato a consultare, in
aiuto della memoria, documenti da lui redatti (art. 499
c.p.p., comma 5).
Se però, nel corso di queste
attività, sorge la necessità di documentare una
situazione modificabile dei luoghi, delle persone o
delle cose i relativi rilievi possono assumere natura di
atti non ripetibili e (per questa sola parte) divenire
inseribili nel fascicolo per il dibattimento. Parimenti
se l’attività d’indagine è accompagnata da rilievi
fotografici, fonografici o cinematografici (alla cui
collocazione tra i documenti potrebbe essere di ostacolo
la circostanza che non preesistono al procedimento; ma
la soluzione è controversa: v. da ultimo Cass., sez. 5^,
20 ottobre 2004 n. 46307, Held, rv. 230394, che ha
ritenuto che queste rappresentazioni siano acquisibili
come documenti) anche queste attività di documentazione
devono essere ritenute non ripetibili proprio perché non
possono essere riprodotte in dibattimento se non con una
descrizione narrativa che non riproduce quanto descritto
nel rilievo fotografico, fonografico o cinematografico
con conseguente perdita dell’informazione probatoria
(oltre che della sua genuinità).
6) La redazione dei verbali degli
atti non ripetibili. Va a questo punto affrontato un
problema ulteriore: l’art. 431 c.p.p., comma 1, lett. B
parla di “verbali” di atti non ripetibili (e allo stesso
modo si esprime la lett. C per gli analoghi atti del
Pubblico Ministero e del difensore). Le relazioni di
servizio non sempre vengono redatte con la forma del
verbale anche per la (prevalente) funzione di atto
interno all’amministrazione che le medesime svolgono.
Ma è chiaro che i casi che
interessano sono quelli nei quali la relazione di
servizio, per il suo contenuto, assume anche
un’efficacia esterna. E dunque occorre fare riferimento
alla norma che disciplina la documentazione
dell’attività di polizia giudiziaria: l’art. 357 c.p.p..
E da questa norma è possibile ricavare un’ulteriore
conferma di quanto si è fin qui detto: la relazione di
servizio che descrive le attività di indagine in nulla
differisce dall’annotazione prevista dal primo comma e
come tale mai potrà essere acquisita al fascicolo per il
dibattimento. La documentazione delle altre attività per
le quali è richiesta la redazione del verbale potrà
essere acquisita in presenza delle caratteristiche
ricordate (quindi sempre per quelle previste dalla lett.
D – perquisizioni e sequestri – e solo in presenza di
caratteristiche di modificabilità nell’ipotesi della
lett. f).
In questi casi se la relazione
riguarda atti non ripetibili nel senso indicato e
contiene tutti gli elementi previsti per la redazione
del verbale indicati nell’art. 136 c.p.p. Non possono
esservi dubbi sulla possibilità di utilizzazione
dell’atto risolvendosi, il problema accennato, in una
questione nominalistica.
Se invece l’atto non contiene
questi elementi è la stessa disciplina codicistica che
ci fornisce la soluzione: l’art. 142 c.p.p. Precisa
infatti in quali casi il verbale deve essere ritenuto
nullo (se vi è incertezza assoluta sulle persone
intervenute o se manca la sottoscrizione del pubblico
ufficiale che lo ha redatto). Con la conseguenza che, in
questi casi, l’atto non potrà essere acquisito al
fascicolo per il dibattimento anche se contiene la
documentazione di atti non ripetibili.
7) Conclusioni sul secondo motivo
di ricorso. In base ai principi enunciati possono in
parte ricomporsi anche le divergenze che si sono
riscontrate sulla natura non ripetibile di atti di vario
genere compiuti dalla polizia giudiziaria (se si tratta
di atti di privati – per es. querele e denunce – il
problema della irripetibilità originaria neppure si pone
trattandosi di atti ripetibili in forma narrativa)
dovendosi escludere che la categoria degli atti non
ripetibili costituisca un numerus clausus.
Si pensi al verbale di
constatazione della polizia tributaria che non potrà
essere considerato atto irripetibile salvo che per
quelle parti che documentino situazioni modificabili
(per es. la consistenza del magazzino, le risultanze di
documentazione contabile che non viene sequestrata o
altre situazioni soggette a variazioni per opera del
tempo o delle persone) e analogamente per quanto
riguarda i verbali relativi alle infrazioni in materia
di lavoro e quelle in materia di circolazione stradale.
La natura di atti non ripetibili
dovrà invece essere riconosciuta agli accertamenti e
rilievi planimetrici o volumetrici (per es. a seguito di
un incidente stradale o nel caso di rilevazione di
violazioni urbanistiche), alle rilevazioni tecniche su
luoghi, cose e persone (per es. per accertare la
presenza di tracce di sparo o di sostanze stupefacenti)
in tutti i casi in cui vi sia possibilità di mutamento
delle situazioni rilevate.
In conclusione deve ritenersi
corretta la soluzione adottata dal giudice e ribadita
nella sentenza impugnata: la relazione di servizio della
quale era stato chiesto l’inserimento nel fascicolo per
il dibattimento descriveva una mera attività di indagine
esauritasi con la sua esecuzione che poteva agevolmente
(e senza perdita di alcuna informazione probatoria)
essere descritta in dibattimento; né esisteva alcun
situazione di luoghi, cose o persone modificabile per il
decorso del tempo. Non poteva quindi essere acquisita e
utilizzata senza il consenso delle parti.
8) I poteri di iniziativa
probatoria del giudice. Accertato che il giudice ha
correttamente escluso che l’atto in questione potesse
entrare a far parte del fascicolo per il dibattimento
occorre ora affrontare la questione – che forma oggetto
del primo motivo di ricorso – relativa all’ambito dei
poteri di iniziativa probatoria del giudice nel processo
penale.
La sesta sezione di questa Corte ha
rilevato come, dopo la più volte ricordata sentenza
Martin di queste sezioni unite (le cui conclusioni sono
state condivise dalla Corte costituzionale), sia
periodicamente riemerso, nella giurisprudenza di
legittimità, un orientamento di segno opposto che
restringe i poteri officiosi del giudice escludendo in
particolare che questi poteri possano esercitarsi nei
casi di inerzia delle parti.
L’analisi della giurisprudenza di
legittimità dimostra peraltro come gli orientamenti
effettivamente dissenzienti rispetto a quello delle
ss.uu. Siano assolutamente episodici: per quanto consta
in realtà questi precedenti sono costituiti dalla
sentenza sez. 5^, 1 dicembre 2004 n. 15631, Canzi, rv.
232156 e dalla più risalente sez. 1^, 30 gennaio 1995,
Rizzo, rv. 201939. Altre decisioni (sez. 1^, 28
settembre 1995, Di Lena, rv. 202864; sez. 1^, 8 giugno
2000, Fiderno, rv. 216595 e sez. 3^, 10 dicembre 1996,
Adragna, rv. 207461), pur talvolta accreditate (anche
nell’ordinanza di rimessione a queste sezioni unite)
come espressione del contrario orientamento, sono in
realtà caratterizzate da peculiarità dei singoli casi
(peculiarità che, nell’economia di questa decisione è
irrilevante esaminare) che non consentono di ritenerle
adesive dell’uno o dell’altro orientamento.
Ciò premesso occorre osservare,
come prima riflessione sul tema, che è comunemente
riconosciuto che il nuovo codice, pur richiamandosi ad
un modello processuale che fa riferimento al cd.
“processo di parti” non abbia peraltro inteso accogliere
integralmente il principio dispositivo che pur
caratterizza questo tipo di processo. Del resto questo
principio neppure è integralmente accolto nel processo
civile – tipico processo di parti nel quale il principio
dispositivo trova la sua più ampia applicazione – nel
quale il giudice è dotato (art. 115 c.p.c.) di ampi
poteri officiosi nella disponibilità delle prove, sia
pure nei soli casi previsti dalla legge, peraltro
numerosi ed incisivi (interrogatorio non formale delle
parti: art. 117;
ispezione di persone e di cose:
art. 118 c.p.c.; nomina di consulente tecnico: art. 191
c.p.c.; richiesta d’informazioni alla p.a.: art. 213
c.p.c.; assunzione di testi de relato: art. 257 c.p.c.,
ecc.).
Coerentemente quindi l’art. 507
c.p.p. Conferma come questa opzione nel processo penale
non sia stata piena e incondizionata. E può anche
ricordarsi – a conferma della compatibilità del sistema
accusatorio con le deroghe al principio dispositivo –
che è relativamente recente un’innovazione legislativa
che ha consentito, nel sistema nordamericano, la nomina
d’ufficio dell’esperto indipendente (expert witness) da
parte del giudice (ad opera della Rule 706 delle Federal
Rules of Evidence del 1975 riguardante sia il processo
civile che quello penale) confermando normativamente una
deroga del principio dispositivo che peraltro la
giurisprudenza civile aveva già affermato (nella
giurisprudenza penale permane ancor oggi un certo
rifiuto nell’applicazione della norma).
Il problema è dunque quello di
individuare l’ambito di applicazione dei poteri
officiosi di natura probatoria del giudice e, in questa
ottica, deve anzitutto rilevarsi che sull’assetto
codicistico non ha influito la recente riforma dell’art.
111 Cost. Che ha accentuato esclusivamente quello che
costituisce il principio fondante del processo
accusatorio – la formazione della prova nel
contraddittorio delle parti – ma nulla ha innovato sul
principio dispositivo che, pur essendo uno dei principi
cui si ispirano i sistemi accusatori, non li
caratterizza in modo così decisivo come i criteri che
riguardano la formazione della prova.
Occorre anche precisare che nella
cultura giuridica europea continentale il principio
dispositivo è stato visto come un antidoto non tanto
alla sopravvivenza di poteri officiosi del giudice che,
in sede di decisione, si trovi nell’impossibilità di
adottare un giudizio equo e consapevole quanto al
classico esempio del giudice inquisitore rappresentato
(ancor oggi nei paesi dove sopravvive) dall’istituto del
giudice istruttore previsto anche dal nostro ordinamento
previgente.
Il giudice istruttore, in realtà,
costituiva un organo d’accusa mascherato da giudice
terzo e le sue iniziative erano prevalentemente dirette
ad acquisire gli elementi per fondare l’accusa nel
giudizio;
aveva il potere di formulare egli
stesso un’ipotesi ricostruttiva del fatto (nella prassi
talvolta formulava anche i capi d’imputazione) e
ricercava le fonti di prova necessarie a fondarla. Tutte
attività che, nel codice vigente, sono state
opportunamente trasferite al pubblico ministero (va
anche ricordato che in alcuni paesi dove sopravvive –
per es. in Francia – il giudice istruttore svolge
altresì la funzione di garantire un esercizio
indipendente dell’azione penale che il P.M., organo
dell’esecutivo, non può svolgere).
Ma l’art. 507 ha un diverso ambito
di applicazione e, soprattutto, un diverso scopo: quello
di consentire al giudice – che non si ritenga in grado
di decidere per la lacunosità o insufficienza del
materiale probatorio di cui dispone – di ammettere le
prove che gli consentono un giudizio più meditato e più
aderente alla realtà dei fatti che è chiamato a
ricostruire. Senza neppure scomodare i grandi principi
(in particolare quello secondo cui lo scopo del processo
è l’accertamento della verità) può più ragionevolmente
affermarsi che la norma mira esclusivamente a
salvaguardare la completezza dell’accertamento
probatorio sul presupposto che se le informazioni
probatorie a disposizione del giudice sono più ampie è
più probabile che la sentenza sia equa e che il giudizio
si mostri aderente ai fatti.
Ciò consente di eliminare anche
l’equivoco secondo cui l’acquisizione d’ufficio delle
prove da parte del giudice fa venir meno la sua
terzietà. Il giudice istruttore del precedente
ordinamento poteva non apparire terzo (e in parte non lo
era) perché formulava ipotesi ricostruttive e indagava
per averne conferma non diversamente dall’organo
dell’accusa; ma perché mai non dovrebbe essere
considerato terzo un giudice scrupoloso che intende
giudicare a ragion veduta e non con informazioni
conoscitive insufficienti ben sapendo che è possibile
colmare almeno una parte delle lacune esistenti? E’
questo potere (da esercitare solo in caso di assoluta
necessità) un residuo del principio inquisitorio oppure
vale a fondare un processo veramente “giusto”? C’è un
altro equivoco da superare: che questa limitazione del
principio dispositivo nuoccia alla difesa dell’imputato
o mini il principio della parità delle parti. Certo
possono esservi pubblici ministeri che omettono di
depositare la lista testi (per inerzia o per un erroneo
convincimento di poter provare diversamente l’ipotesi di
accusa: questo processo ne è un esempio) ma è forse
statisticamente più significativa la percentuale di
difensori negligenti che non utilizzano tutti gli
strumenti a loro disposizione per un’efficace difesa dei
loro assistiti. E l’art. 507 ha dunque anche la funzione
di evitare che si pervenga a condanne ingiuste.
Dal punto di vista dell’adeguamento
ai principi costituzionali (ricordiamo comunque che il
sistema accusatorio non è costituzionalizzato; sono
costituzionalizzati alcuni principi fondamentali del
sistema accusatorio) e dello scopo della norma è quindi
evidente che all’art. 507 può essere dato il significato
più ampio conforme alla formulazione letterale della
norma. Senza dimenticare che questo assetto si inserisce
in un sistema caratterizzato dall’obbligatorietà
dell’azione penale che impone una costante verifica
dell’esercizio dei poteri di iniziativa del pubblico
ministero, e quindi anche delle sue carenze od
omissioni.
Una limitazione dei poteri
probatori officiosi del giudice sarebbe idonea a
vanificare il principio dell’obbligatorietà dell’azione
penale e si porrebbe in palese contraddizione con
l’esistenza degli amplissimi poteri del giudice in tema
di richiesta di archiviazione del Pubblico Ministero. E
ciò spiega anche la differenza con quanto avviene nei
sistemi accusatori di coimon law – nei quali le deroghe
al principio dispositivo sono inesistenti (o
assolutamente eccezionali) – essendo, questa disciplina
processuale, ricollegata alla disponibilità dell’azione
penale da parte del Pubblico Ministero che può
rinunziare ad essa, di fatto, anche con la mancata
richiesta di ammissione delle prove.
Va ancora osservato che le
limitazioni che il diverso orientamento vorrebbe
introdurre (che vi sia stata assunzione delle prove e
non vi sia stata inerzia delle parti) neppure vengono
accennate nella Legge Delega, direttiva 73 che parla
genericamente di “potere del giudice di disporre
l’assunzione di mezzi di prova” mentre sia la relazione
al progetto preliminare che quella al progetto
definitivo confermano l’inesistenza di limitazioni (nel
solo progetto definitivo è stato introdotto il limite
temporale peraltro neppure connotato da caratteristiche
di perentorietà).
Per quanto riguarda in particolare
il limite temporale, è da rilevare che l’affermazione,
contenuta in alcune isolate decisioni (e in alcuni
commenti), che la formulazione della norma non
consentirebbe di applicare il principio dell’ammissione
d’ufficio delle prove perché la norma fa riferimento
allo spazio temporale successivo alla “acquisizione
delle prove” costituisce un’evidente forzatura apparendo
ovvio che la norma si riferisce al caso normale in cui
acquisizione di prove vi sia stata ma sarebbe privo di
senso inserirvi un divieto quando acquisizione di prove
non vi sia stata o quelle proposte non siano state
ritenute ammissibili.
Più ragionevole, ma non
condivisibile, è la tesi che configura il divieto come
una sorta di sanzione per l’inerzia della parte ma anche
questa opzione incontra le obiezioni di cui si è detto:
la formulazione letterale della norma contrasta con
questa interpretazione e i limiti in cui, nel nostro
sistema processuale, sono stati accolti i principi del
sistema accusatorio non consentono di escludere
un’iniziativa di ufficio del giudice diretta ad
acquisire le informazioni necessarie per la sua
decisione.
Deve quindi essere confermato
l’orientamento espresso da queste sezioni unite con la
già citata sentenza Martin del 1992 (e condiviso anche
dalla Corte costituzionale nella sentenza 26 marzo 1993
n. 111) nella quale opportunamente si rilevava, a
conferma della correttezza dell’orientamento di ritenere
il potere del giudice esercitabile anche in caso di
inerzia delle parti, che nel giudizio di appello al
giudice è consentito (art. 603 c.p.p., comma 3) di
disporre d’ufficio la rinnovazione dell’istruzione
dibattimentale in tutti i casi previsti dai commi
precedenti e quindi anche nel caso di prove che, benché
conosciute, non erano state assunte.
V’è ancora, in questa sentenza,
un’importante precisazione che consente di evitare che
l’esercizio del potere in esame avvenga in modo troppo
esteso o addirittura arbitrario: l’iniziativa deve
essere “assolutamente necessaria” (sia l’art. 507 che il
603 usano questa espressione) e la prova deve avere
carattere di decisività (altrimenti non sarebbe
“assolutamente necessaria”) diversamente da quanto
avviene nell’esercizio ordinario del potere dispositivo
delle parti in cui si richiede soltanto che le prove
siano ammissibili e rilevanti.
Può ancora aggiungersi che questo
potere andrà esercitato nell’ambito delle prospettazioni
delle parti e non per supportare probatoriamente una
diversa ricostruzione che il giudice possa ipotizzare.
La formulazione di un’ipotesi autonoma e alternativa da
parte del giudice costituisce infatti (v. Cass., sez.
un., 30 ottobre 2003 n. 20, Andreotti) “violazione sia
delle corrette regole di valutazione della prova che del
basilare principio di terzietà della giurisdizione”.
E’ infine superfluo sottolineare
che, a seguito dell’iniziativa officiosa, resta integro
il potere delle parti di chiedere l’ammissione di nuovi
mezzi di prova – secondo la regola indicata nell’art.
495 c.p.p., comma 2 (prova contraria) – la cui
assunzione si sia resa necessaria a seguito
dell’integrazione probatoria disposta d’ufficio e, da
diverso punto di vista, che l’esercizio dei poteri in
deroga al principio dispositivo non fa venir meno
l’onere del Pubblico Ministero di provare il fondamento
dell’accusa e, tanto meno, l’obbligo per il giudice di
rispettare i divieti probatori esistenti.
9) Conclusioni, Consegue alle
considerazioni svolte l’accoglimento del ricorso
limitatamente al primo motivo con il conseguente
annullamento della sentenza impugnata e rinvio al
giudice che l’ha pronunziata che dovrà quindi provvedere
sulla richiesta di esercitare i poteri d’ufficio
previsti dall’art. 507 c.p.p. Senza che vengano in
considerazione decadenze o inerzie in cui le parti siano
incorse.
P.Q.M.
La Corte Suprema di Cassazione,
sezioni unite penali, annulla l’impugnata sentenza e
rinvia per nuovo esame al Tribunale di Biella.
Così deciso in Roma, il 17 ottobre
2006.
Depositato in Cancelleria il 18
dicembre 2006 |