carcere1 237x300 Ancora un no della
Consulta alla presunzione assoluta di adeguatezza della
custodia cautelare in carcere. Cronaca di una sentenza
annunciataCon la sentenza 12 maggio 2011, n. 164, la
Consulta è tornata a pronunciarsi sul “pacchetto
sicurezza” del 2009 dichiarando costituzionalmente
illegittimo l’art. 275 co. 3, secondo e terzo periodo
c.p.p., come modificato dal d.l. 23 febbraio 2009, n.
11, convertito con modificazioni nella l. 23 aprile
2009, n. 38, nella parte in cui non prevede che, qualora
sussistano gravi indizi di colpevolezza in ordine al
delitto di omicidio volontario (art. 575 c.p.) e sempre
che non siano acquisiti elementi dai quali risulti
l’insussistenza di esigenze cautelari, possa essere
applicata una misura cautelare diversa dalla custodia
cautelare in carcere qualora siano stati “acquisiti
elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai
quali risulti che le esigenze cautelari possono essere
soddisfatte con altre misure”. Nonostante lo sconcerto
manifestato a caldo da alcuni autorevoli esponenti della
maggioranza, che tale norma hanno ispirato, si tratta di
una sentenza largamente annunciata, il cui percorso
motivazionale ricalca quello della sentenza 21 luglio
2010, n. 265, e rappresenta il naturale sviluppo delle
basi teoriche e delle implicazioni concettuali
manifestate in quella sede.
Punto nodale della pronuncia in
esame è la presunzione assoluta di adeguatezza della
custodia cautelare in carcere, che l’art. 275 co. 3
c.p.p. enuncia rispetto ad un ampio catalogo di reati.
La storia è nota, e riflette le scelte di politica
criminale che hanno scandito alcuni interventi operati
sul codice di rito nell’ultimo ventennio.
Introdotto nel 1991 con riferimento
ai reati in materia di criminalità organizzata e ad
altre gravi fattispecie, il regime cautelare speciale in
esame riduce al minimo i poteri discrezionali del
giudice in sede cautelare nell’ottica del doppio binario
che contraddistingue varie norme codicistiche provocando
notevoli frizioni con i principi costituzionali. Lo
schema procedimentale prevede in questi casi una doppia
presunzione che, in presenza del fumus commissi delicti
(i “gravi indizi di colpevolezza” ex art. 273 co. 1
c.p.p.), ingessa l’intervento giurisdizionale, con
sensibili ricadute sull’obbligo di motivazione: il
giudice, difatti, salvo che non sia dimostrata
l’insussistenza di esigenze cautelari (presunzione
relativa), è obbligato in questi casi a disporre la
custodia cautelare in carcere, quant’anche dovesse
essere convinto, in concreto, dell’adeguatezza di una
misura cautelare meno afflittiva.
Infranto il principio del “minore
sacrificio necessario”, posto a base del sistema
cautelare costruito dal codice 1988 secondo lo schema
della “pluralità graduata”, il legislatore, dopo il
parziale ripensamento di stampo garantista che aveva
ridimensionato sensibilmente l’ambito oggetto di
operatività della disciplina, circoscrivendolo al
delitto di cui all’art. 416-bis c.p. e a quelli commessi
avvalendosi delle condizioni previste da detto articolo
o al fine di agevolare l’attività delle associazioni
previste dalla stessa norma (l. 8 agosto 1995, n. 332),
ha proseguito su questa strada ampliando il novero delle
fattispecie cui si applica - con evidenti intenti di
controllo sociale attribuiti all’esercizio della
giurisdizione penale, in una rinnovata logica
emergenziale - il regime differenziato, forse
incoraggiato dal placet ricevuto dalla Corte
costituzionale prima (ordinanza 24 ottobre 1995, n. 450)
e dalla Corte europea dei diritti dell’uomo poi
(sentenza 6 novembre 2003, Pantano c. Italia) che hanno,
rispettivamente, ritenuto possibile legittima la
predeterminazione del quomodo della misura, purché
effettuata dal legislatore nel rispetto della
ragionevolezza e con un corretto bilanciamento dei
contrastanti valori costituzionali in gioco, e conforme
all’art. 5 § 3 CEDU la disciplina de qua (pur
sottolineandone l’eccessiva rigidità) tenuto conto della
peculiare natura del fenomeno della criminalità
organizzata di stampo mafioso e della conseguente
necessità, nella fattispecie, di recidere i legami tra i
destinatari della misura cautelare e il contesto
criminale di provenienza per evitare la persistenza dei
contatti con l’organizzazione criminale e la probabile
reiterazione della condotta criminosa.
La decisione della Consulta,
tuttavia, dimostra che il legislatore - evidentemente
pressato dall’esigenza di dare risposte immediate a
emergenze criminali - ha ecceduto nell’estendere un
regime cautelare eccezionale che, entrando in conflitto
con le garanzie costituzionali, deve essere adoperato
con estrema cautela. La Corte costituzionale, difatti,
ha ribadito che le presunzioni assolute, specialmente
quando limitano un diritto fondamentale della persona,
violano il principio di eguaglianza se sono arbitrarie e
irrazionali, cioè a dire quando non rispondono a dati di
esperienza generalizzati sintetizzabili nella nota
formula dell’id quod plerumque accidit. In particolare,
afferma la Consulta, la presunzione assoluta è da
considerarsi irragionevole qualora risulti agevole
formulare ipotesi di accadimenti reali contrari alla
generalizzazione posta a fondamento di detta presunzione
(cfr. anche Corte cost., sentenza 14 aprile 2010, n.
139; Corte cost., sentenza 21 luglio 2010, n. 265,
cit.). Com’è stato autorevolmente osservato, in tal modo
la Corte costituzionale ha mutuato il principio di
falsificabilità delle ipotesi elaborato dalla concezione
post-positivista della scienza, applicandolo alla
materia cautelare e distinguendo così tra massime
d’esperienza la cui tenuta va valutata in concreto,
massime d’esperienza accettate ma delle quali non è
possibile escludere in astratto la falsificazione
mediante prova contraria (poste a base delle presunzioni
relative) e massime d’esperienza non falsificabili
(poste a fondamento delle presunzioni assolute).Inutile
dire che quest’ultima categoria determina comunque serie
perplessità sotto il profilo gnoseologico, in quanto le
più avanzate teorie della conoscenza scientifica tendono
ad escludere l’esistenza di proposizioni a priori non
suscettibili di smentita.
Resta il fatto che la Consulta ha
comunque rigorosamente ristretto l’ambito di operatività
della presunzione assoluta, criticando ancora una volta
l’incauto “salto di qualità” effettuato dal legislatore
con il pacchetto sicurezza del 2009 che ha esteso la
previsione censurata a una serie di fattispecie penali
tra loro eterogenee quanto a oggetto, struttura e
trattamento sanzionatorio e precisando che la gravità in
astratto del reato, desumibile dalla misura della pena o
dal rango dell’interesse protetto non può costituire un
indice di ragionevolezza, trattandosi di parametro
proprio del giudizio di colpevolezza che non può fungere
da elemento preclusivo in ordine alla verifica della
sussistenza di esigenze cautelari, del loro grado e
della conseguente individuazione della misura più idonea
a soddisfarle. Altrimenti si produce una lesione
dell’art. 27 comma 2 Cost., attribuendo alle misure
cautelari tratti funzionali tipici della pena, e si
legittima l’equiparazione di fatto dello status di
imputato a quello di condannato. Ancora, la Corte ha
stigmatizzato il tentativo di piegare all’esigenza di
contrastare situazioni di (vero o presunto) allarme
sociale, legate alla dichiarata crescita quantitativa di
determinati delitti, la custodia cautelare in carcere,
contraddicendone la natura servente rispetto al processo
assegnatale dalla Carta costituzionale (desumibile
dall’art. 13 Cost.: cfr. Corte cost., sentenza 7 luglio
2005, n. 299) e assegnandole l’impropria funzione -
tipica invece della pena, che presuppone
l’individuazione certa dell’autore della condotta
criminosa - di eliminare o quantomeno di ridurre
l’allarme sociale procurato da gravi
delitti.Nell’esaminare i connotati della fattispecie di
cui all’art. 575 c.p., la Corte costituzionale ha
evidenziato come, nonostante l’innegabile gravità del
fatto, l’omicidio volontario molto spesso è la
conseguenza di una condotta meramente individuale,
magari originata da pulsioni occasionali o passionali. I
fattori emotivi alla base dell’episodio criminoso,
d’altronde, non di rado appaiono legati a situazioni
specifiche e contingenti, quali comportamenti lato sensu
provocatori della vittima, o a particolati contesti
ambientali e di vita (famiglia, lavoro, vita di
relazione, rapporti economici, etc.). Ne consegue che
non si può predeterminare in astratto la misura più
idonea a soddisfare, di volta in volta, le esigenze
cautelari, essendo ampio e variegato il ventaglio delle
possibili situazioni che la pratica giudiziaria può
offrire e non potendosi escludere a priori la
possibilità che una misura diversa dalla custodia
cautelare in carcere possa “neutralizzare il ‘fattore
scatenante’” o “impedirne la riproposizione, a
differenza di quanto accade nel caso di reati che
implichino o presuppongano l’esistenza di un vincolo di
appartenenza permanente a un sodalizio criminoso
radicato sul territorio e dotato di forza intimidatrice,
che ad avviso della Corte può essere interrotto soltanto
ricorrendo alla misura più severa, così giustificando la
presunzione assoluta di cui all’art. 275 co. 3, secondo
e terzo periodo c.p.p.
Agli antipodi di siffatta tipologia
è il reato di omicidio volontario, caratterizzato da
processi volitivi e modalità esecutive insuscettibili di
reductio ad unum, che non possono non riverberarsi sulla
scelta della misura cautelare da adottare in concreto e
quindi impongono il rispetto di quei meccanismi
individualizzanti di selezione del trattamento cautelare
che il principio del “minore sacrificio necessario”
implica in ossequio all’esigenza di contenere la
limitazione della libertà personale prima della condanna
definitiva entro i limiti essenziali a soddisfare le
istanze cautelari: si pensi alla sussistenza del dolo
d’impeto, piuttosto che all’omicidio premeditato. Non è
un caso, del resto, che l’art. 575 c.p. facesse parte
del pacchetto di reati per i quali la l. 12 luglio 1991,
n. 203, aveva introdotto il regime differenziato, per
poi escluderlo con l’intervento correttivo operato dalla
l. 332/1995. Ma il legislatore, si sa, è spesso ondivago
e dimentico dei suoi stessi passi.
Sulla scia di quanto
precedentemente affermato (Corte cost., sentenza 21
luglio 2010, n. 265, cit.) la Consulta ha pertanto
dichiarato l’illegittimità dell’art. 275 co., secondo e
terzo periodo c.p.p., ritenendo in contrasto con gli
artt. 3 (”per l’ingiustificata parificazione dei
procedimenti relativi ai delitti considerati a quelli
concernenti i delitti di mafia, nonché per l’irrazionale
assoggettamento ad un medesimo regime cautelare delle
diverse ipotesi concrete riconducibili ai relativi
paradigmi punitivi”), 13 co. 1 (”quale referente
fondamentale del regime ordinario delle misure cautelari
privative della libertà personale”) e 27 co. 2 Cost.
(”"in quanto attribuiva alla coercizione processuale
tratti funzionali tipici della pena”) la previsione di
una presunzione assoluta in punto di adeguatezza della
custodia cautelare in carcere in assenza di “un dato di
esperienza generalizzato, ricollegabile alla ‘struttura
stessa’ e alle ‘connotazioni criminologiche’ della
figura criminosa” e declassandola a presunzione
relativa, come tale superabile nel caso “in cui siano
acquisiti elementi specifici, in relazione al caso
concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari
possano essere soddisfatte con altre misure”.
Restano sul tappeto le ulteriori
questioni di compatibilità con il regime eccezionale
delle altre fattispecie di reato cui la novella del 2009
ha esteso il trattamento differenziato, rispetto alle
quali - come si è avuto già modo di evidenziare in
passato - non è difficile prevedere nuovi interventi
della Corte costituzionale, opportunamente sollecitata.
Si pensi all’art. 74 T.U.L.Stup. (Associazione
finalizzata al traffico illecito di sostanze
stupefacenti o psicotrope), rispetto al quale è stata
proposta analoga questione di legittimità. E il pensiero
corre, in particolare, a quelle fattispecie in materia
di violenza sessuale, prostituzione e pornografia
minorile non toccate dalla prima declaratoria
d’illegittimità, rispetto alle quali è facile ipotizzare
ulteriori pronunce di accoglimento delle future
(eventuali) questioni di legittimità in considerazione
della loro costruzione normativa e delle caratteristiche
soggettive degli ipotetici autori dei relativi reati,
rispetto ai quali è frequente la natura individuale
(art. 600-ter c.p.) o occasionale (art. 609-octies c.p.)
e la realizzazione nell’ambito di specifici contesti
(art. 609-quinquies c.p.) che suggeriscono e rendono
adeguate misure cautelari, diverse dalla custodia
cautelare in carcere, che si traducano
nell’allontanamento dai luoghi frequentati dalla persona
offesa o dal contesto criminogeno (artt. 282-ter e 283
c.p.p.) o negli arresti domiciliari ‘monitorati’ (artt.
275-bis e 284 c.p.p.). Anche in questi ultimi casi,
evidentemente, la presunzione assoluta di adeguatezza
della misura cautelare più gravosa appare irragionevole
- nonostante l’odiosità e la riprovevolezza dei delitti
che rileverà però soltanto in sede di determinazione
della pena - e non rispondente a un dato esperenziale
generalizzato, in grado di fornire un’adeguata base
statistica che legittimi lo scardinamento della
disciplina ordinaria in materia cautelare ispirata, come
detto, al principio del “minor sacrificio necessario”
della libertà personale e al suo corollario consistente
nella “pluralità graduata”, cui il sistema cautelare
costruito dal codice 1988 ha dato espressione normativa. |