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Ancora un no della Consulta alla presunzione assoluta di adeguatezza della custodia cautelare in carcere. Cronaca di una sentenza annunciata di Sergio Lorusso-Postilla.it

 

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carcere1 237x300 Ancora un no della Consulta alla presunzione assoluta di adeguatezza della custodia cautelare in carcere. Cronaca di una sentenza annunciataCon la sentenza 12 maggio 2011, n. 164, la Consulta è tornata a pronunciarsi sul “pacchetto sicurezza” del 2009 dichiarando costituzionalmente illegittimo l’art. 275 co. 3, secondo e terzo periodo c.p.p., come modificato dal d.l. 23 febbraio 2009, n. 11, convertito con modificazioni nella l. 23 aprile 2009, n. 38, nella parte in cui non prevede che, qualora sussistano gravi indizi di colpevolezza in ordine al delitto di omicidio volontario (art. 575 c.p.) e sempre che non siano acquisiti elementi dai quali risulti l’insussistenza di esigenze cautelari, possa essere applicata una misura cautelare diversa dalla custodia cautelare in carcere qualora siano stati “acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure”. Nonostante lo sconcerto manifestato a caldo da alcuni autorevoli esponenti della maggioranza, che tale norma hanno ispirato, si tratta di una sentenza largamente annunciata, il cui percorso motivazionale ricalca quello della sentenza 21 luglio 2010, n. 265, e rappresenta il naturale sviluppo delle basi teoriche e delle implicazioni concettuali manifestate in quella sede.

 

Punto nodale della pronuncia in esame è la presunzione assoluta di adeguatezza della custodia cautelare in carcere, che l’art. 275 co. 3 c.p.p. enuncia rispetto ad un ampio catalogo di reati. La storia è nota, e riflette le scelte di politica criminale che hanno scandito alcuni interventi operati sul codice di rito nell’ultimo ventennio.

 

Introdotto nel 1991 con riferimento ai reati in materia di criminalità organizzata e ad altre gravi fattispecie, il regime cautelare speciale in esame riduce al minimo i poteri discrezionali del giudice in sede cautelare nell’ottica del doppio binario che contraddistingue varie norme codicistiche provocando notevoli frizioni con i principi costituzionali. Lo schema procedimentale prevede in questi casi una doppia presunzione che, in presenza del fumus commissi delicti (i “gravi indizi di colpevolezza” ex art. 273 co. 1 c.p.p.), ingessa l’intervento giurisdizionale, con sensibili ricadute sull’obbligo di motivazione: il giudice, difatti, salvo che non sia dimostrata l’insussistenza di esigenze cautelari (presunzione relativa), è obbligato in questi casi a disporre la custodia cautelare in carcere, quant’anche dovesse essere convinto, in concreto, dell’adeguatezza di una misura cautelare meno afflittiva.

 

Infranto il principio del “minore sacrificio necessario”, posto a base del sistema cautelare costruito dal codice 1988 secondo lo schema della “pluralità graduata”, il legislatore, dopo il parziale ripensamento di stampo garantista che aveva ridimensionato sensibilmente l’ambito oggetto di operatività della disciplina, circoscrivendolo al delitto di cui all’art. 416-bis c.p. e a quelli commessi avvalendosi delle condizioni previste da detto articolo o al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dalla stessa norma (l. 8 agosto 1995, n. 332), ha proseguito su questa strada ampliando il novero delle fattispecie cui si applica - con evidenti intenti di controllo sociale attribuiti all’esercizio della giurisdizione penale, in una rinnovata logica emergenziale - il regime differenziato, forse incoraggiato dal placet ricevuto dalla Corte costituzionale prima (ordinanza 24 ottobre 1995, n. 450) e dalla Corte europea dei diritti dell’uomo poi (sentenza 6 novembre 2003, Pantano c. Italia) che hanno, rispettivamente, ritenuto possibile legittima la predeterminazione del quomodo della misura, purché effettuata dal legislatore nel rispetto della ragionevolezza e con un corretto bilanciamento dei contrastanti valori costituzionali in gioco, e conforme all’art. 5 § 3 CEDU la disciplina de qua (pur sottolineandone l’eccessiva rigidità) tenuto conto della peculiare natura del fenomeno della criminalità organizzata di stampo mafioso e della conseguente necessità, nella fattispecie, di recidere i legami tra i destinatari della misura cautelare e il contesto criminale di provenienza per evitare la persistenza dei contatti con l’organizzazione criminale e la probabile reiterazione della condotta criminosa.

 

La decisione della Consulta, tuttavia, dimostra che il legislatore - evidentemente pressato dall’esigenza di dare risposte immediate a emergenze criminali - ha ecceduto nell’estendere un regime cautelare eccezionale che, entrando in conflitto con le garanzie costituzionali, deve essere adoperato con estrema cautela. La Corte costituzionale, difatti, ha ribadito che le presunzioni assolute, specialmente quando limitano un diritto fondamentale della persona, violano il principio di eguaglianza se sono arbitrarie e irrazionali, cioè a dire quando non rispondono a dati di esperienza generalizzati sintetizzabili nella nota formula dell’id quod plerumque accidit. In particolare, afferma la Consulta, la presunzione assoluta è da considerarsi irragionevole qualora risulti agevole formulare ipotesi di accadimenti reali contrari alla generalizzazione posta a fondamento di detta presunzione (cfr. anche Corte cost., sentenza 14 aprile 2010, n. 139; Corte cost., sentenza 21 luglio 2010, n. 265, cit.). Com’è stato autorevolmente osservato, in tal modo la Corte costituzionale ha mutuato il principio di falsificabilità delle ipotesi elaborato dalla concezione post-positivista della scienza, applicandolo alla materia cautelare e distinguendo così tra massime d’esperienza la cui tenuta va valutata in concreto, massime d’esperienza accettate ma delle quali non è possibile escludere in astratto la falsificazione mediante prova contraria (poste a base delle presunzioni relative) e massime d’esperienza non falsificabili (poste a fondamento delle presunzioni assolute).Inutile dire che quest’ultima categoria determina comunque serie perplessità sotto il profilo gnoseologico, in quanto le più avanzate teorie della conoscenza scientifica tendono ad escludere l’esistenza di proposizioni a priori non suscettibili di smentita.

 

Resta il fatto che la Consulta ha comunque rigorosamente ristretto l’ambito di operatività della presunzione assoluta, criticando ancora una volta l’incauto “salto di qualità” effettuato dal legislatore con il pacchetto sicurezza del 2009 che ha esteso la previsione censurata a una serie di fattispecie penali tra loro eterogenee quanto a oggetto, struttura e trattamento sanzionatorio e precisando che la gravità in astratto del reato, desumibile dalla misura della pena o dal rango dell’interesse protetto non può costituire un indice di ragionevolezza, trattandosi di parametro proprio del giudizio di colpevolezza che non può fungere da elemento preclusivo in ordine alla verifica della sussistenza di esigenze cautelari, del loro grado e della conseguente individuazione della misura più idonea a soddisfarle. Altrimenti si produce una lesione dell’art. 27 comma 2 Cost., attribuendo alle misure cautelari tratti funzionali tipici della pena, e si legittima l’equiparazione di fatto dello status di imputato a quello di condannato. Ancora, la Corte ha stigmatizzato il tentativo di piegare all’esigenza di contrastare situazioni di (vero o presunto) allarme sociale, legate alla dichiarata crescita quantitativa di determinati delitti, la custodia cautelare in carcere, contraddicendone la natura servente rispetto al processo assegnatale dalla Carta costituzionale (desumibile dall’art. 13 Cost.: cfr. Corte cost., sentenza 7 luglio 2005, n. 299) e assegnandole l’impropria funzione - tipica invece della pena, che presuppone l’individuazione certa dell’autore della condotta criminosa - di eliminare o quantomeno di ridurre l’allarme sociale procurato da gravi delitti.Nell’esaminare i connotati della fattispecie di cui all’art. 575 c.p., la Corte costituzionale ha evidenziato come, nonostante l’innegabile gravità del fatto, l’omicidio volontario molto spesso è la conseguenza di una condotta meramente individuale, magari originata da pulsioni occasionali o passionali. I fattori emotivi alla base dell’episodio criminoso, d’altronde, non di rado appaiono legati a situazioni specifiche e contingenti, quali comportamenti lato sensu provocatori della vittima, o a particolati contesti ambientali e di vita (famiglia, lavoro, vita di relazione, rapporti economici, etc.). Ne consegue che non si può predeterminare in astratto la misura più idonea a soddisfare, di volta in volta, le esigenze cautelari, essendo ampio e variegato il ventaglio delle possibili situazioni che la pratica giudiziaria può offrire e non potendosi escludere a priori la possibilità che una misura diversa dalla custodia cautelare in carcere possa “neutralizzare il ‘fattore scatenante’” o “impedirne la riproposizione, a differenza di quanto accade nel caso di reati che implichino o presuppongano l’esistenza di un vincolo di appartenenza permanente a un sodalizio criminoso radicato sul territorio e dotato di forza intimidatrice, che ad avviso della Corte può essere interrotto soltanto ricorrendo alla misura più severa, così giustificando la presunzione assoluta di cui all’art. 275 co. 3, secondo e terzo periodo c.p.p.

 

Agli antipodi di siffatta tipologia è il reato di omicidio volontario, caratterizzato da processi volitivi e modalità esecutive insuscettibili di reductio ad unum, che non possono non riverberarsi sulla scelta della misura cautelare da adottare in concreto e quindi impongono il rispetto di quei meccanismi individualizzanti di selezione del trattamento cautelare che il principio del “minore sacrificio necessario” implica in ossequio all’esigenza di contenere la limitazione della libertà personale prima della condanna definitiva entro i limiti essenziali a soddisfare le istanze cautelari: si pensi alla sussistenza del dolo d’impeto, piuttosto che all’omicidio premeditato. Non è un caso, del resto, che l’art. 575 c.p. facesse parte del pacchetto di reati per i quali la l. 12 luglio 1991, n. 203, aveva introdotto il regime differenziato, per poi escluderlo con l’intervento correttivo operato dalla l. 332/1995. Ma il legislatore, si sa, è spesso ondivago e dimentico dei suoi stessi passi.

 

Sulla scia di quanto precedentemente affermato (Corte cost., sentenza 21 luglio 2010, n. 265, cit.) la Consulta ha pertanto dichiarato l’illegittimità dell’art. 275 co., secondo e terzo periodo c.p.p., ritenendo in contrasto con gli artt. 3 (”per l’ingiustificata parificazione dei procedimenti relativi ai delitti considerati a quelli concernenti i delitti di mafia, nonché per l’irrazionale assoggettamento ad un medesimo regime cautelare delle diverse ipotesi concrete riconducibili ai relativi paradigmi punitivi”), 13 co. 1 (”quale referente fondamentale del regime ordinario delle misure cautelari privative della libertà personale”) e 27 co. 2 Cost. (”"in quanto attribuiva alla coercizione processuale tratti funzionali tipici della pena”) la previsione di una presunzione assoluta in punto di adeguatezza della custodia cautelare in carcere in assenza di “un dato di esperienza generalizzato, ricollegabile alla ‘struttura stessa’ e alle ‘connotazioni criminologiche’ della figura criminosa” e declassandola a presunzione relativa, come tale superabile nel caso “in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possano essere soddisfatte con altre misure”.

 

Restano sul tappeto le ulteriori questioni di compatibilità con il regime eccezionale delle altre fattispecie di reato cui la novella del 2009 ha esteso il trattamento differenziato, rispetto alle quali - come si è avuto già modo di evidenziare in passato - non è difficile prevedere nuovi interventi della Corte costituzionale, opportunamente sollecitata. Si pensi all’art. 74 T.U.L.Stup. (Associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope), rispetto al quale è stata proposta analoga questione di legittimità. E il pensiero corre, in particolare, a quelle fattispecie in materia di violenza sessuale, prostituzione e pornografia minorile non toccate dalla prima declaratoria d’illegittimità, rispetto alle quali è facile ipotizzare ulteriori pronunce di accoglimento delle future (eventuali) questioni di legittimità in considerazione della loro costruzione normativa e delle caratteristiche soggettive degli ipotetici autori dei relativi reati, rispetto ai quali è frequente la natura individuale (art. 600-ter c.p.) o occasionale (art. 609-octies c.p.) e la realizzazione nell’ambito di specifici contesti (art. 609-quinquies c.p.) che suggeriscono e rendono adeguate misure cautelari, diverse dalla custodia cautelare in carcere, che si traducano nell’allontanamento dai luoghi frequentati dalla persona offesa o dal contesto criminogeno (artt. 282-ter e 283 c.p.p.) o negli arresti domiciliari ‘monitorati’ (artt. 275-bis e 284 c.p.p.). Anche in questi ultimi casi, evidentemente, la presunzione assoluta di adeguatezza della misura cautelare più gravosa appare irragionevole - nonostante l’odiosità e la riprovevolezza dei delitti che rileverà però soltanto in sede di determinazione della pena - e non rispondente a un dato esperenziale generalizzato, in grado di fornire un’adeguata base statistica che legittimi lo scardinamento della disciplina ordinaria in materia cautelare ispirata, come detto, al principio del “minor sacrificio necessario” della libertà personale e al suo corollario consistente nella “pluralità graduata”, cui il sistema cautelare costruito dal codice 1988 ha dato espressione normativa.

 

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