Klaus Füßer, Avvocato specializzato
in diritto amministrativo, Leipzig (DE)
Emanuele Barbarossa, studente
Laurea Specialistica in Giurisprudenza, Trento (IT)
INDICE
LA GESTIONE DEI RIFIUTI URBANI IN
ITALIA E IN EUROPA.. 1
Working Paper 1
INDICE.. 3
I. Il problema dei rifiuti
dalla storia ad oggi 6
II. Definizione e
classificazione di “rifiuto” 7
III. L’Europa e i rifiuti 9
1. La produzione dei Rifiuti
Urbani in Europa. 9
2. Le scelte gestionali dei
Paesi Membri 11
IV. Il quadro istituzionale
italiano: ruoli e competenze della P.A. 12
1. I poteri dello Stato. 12
2. I poteri delle Regioni 13
3. Le Province e i Comuni 14
4. Gli Ambiti Territoriali
Ottimali 14
5. Le Autorità d’ambito. 16
6. L’osservatorio Nazionale sui
Rifiuti 17
V. La legislazione sui rifiuti:
dall’Europa all’Italia. 17
1. Politica e strategie dell’UE
in materia di rifiuti 17
1.1 La gerarchia dei rifiuti
18
1.2 I principi comunitari in
materia di rifiuti 20
1.2.1 Spunti per una
riflessione critica. 22
1.3 Gli obiettivi inerenti al
trattamento dei rifiuti 24
1.4 La strategia tematica per
la prevenzione e il riciclaggio. 25
2. La gestione integrata dei
rifiuti in Italia. 27
3. La raccolta dei rifiuti
urbani 29
3.1 Le modalità di raccolta.
29
3.2 La raccolta differenziata
dei rifiuti urbani 31
3.3 La differenziazione come
compromesso. 32
3.4 L’importanza del dialogo.
32
4. La rendicontazione e il
trasporto. 33
4.1 Il Catasto dei rifiuti 33
4.2 I registri di carico e
scarico. 34
4.3 Il trasporto dei rifiuti
35
4.3.1 Le spedizioni
transfrontaliere di rifiuti 35
4.3.2 Il traffico illecito di
rifiuti 36
5. Il trattamento dei rifiuti
37
5.1 Il recupero. 37
5.1.1 Le cifre del recupero. 39
5.2 Lo smaltimento. 40
5.2.1 La distruzione. 41
5.2.2 Il confinamento. 43
5.2.3 L’effetto “Lock-in” 46
6. I costi per la gestione dei
rifiuti urbani: la composizione della tariffa. 47
7. Obblighi, divieti e sanzioni
49
7.1 L’obbligo di
autorizzazione. 49
7.1.1 L’ iscrizione all’Albo
Nazionale dei Gestori Ambientali 50
7.2 La responsabilità del
detentore di rifiuti 51
7.3 Il divieto di abbandono,
deposito incontrollato ed immissione. 52
7.3.1. Rimozione e ripristino
dei luoghi 52
PARTE SECONDA – I sistemi regionali
53
VI. Produzione e raccolta
dei rifiuti urbani nelle regioni italiane. 53
VII. Nord e Sud: tre sistemi
regionali a confronto. 54
1. Un modello per la raccolta
differenziata: il Veneto. 54
1.1 I piani provinciali di
gestione dei rifiuti urbani 55
1.2 Il piano regionale. 56
2. La Lombardia: terra degli
inceneritori 60
2.1 La Legge Regionale n°
26/2003. 61
2.1.1. Il Fondo regionale per
l’energia. 62
2.2 Gli indicatori di qualità
del sistema rifiuti 63
3. Una Sicilia tra autonomia e
contraddizioni 63
3.1 Dall’emergenza rifiuti al
Piano di gestione del 2002. 63
3.2 Gli aggiornamenti tecnici
e la revisione del Piano di gestione. 64
3.3 La Legge Regionale 8
aprile 2010, n° 9. 66
VIII. Conclusioni 67
1. In sintesi 67
2. Prevenzione e riciclaggio.
68
3. Smaltimento e recupero di
energia. 69
4. Dall’informazione ambientale
all’Educazione Ambientale. 70
PARTE PRIMA – Il sistema nazionale
di gestione dei rifiuti
I. Il problema dei rifiuti
dalla storia ad oggi
In un interessante racconto di
Calvino degli anni ’60 si legge: “L’uomo è ciò che non
butta via”. Una frase suggestiva ed alquanto eloquente,
a significare che l’evoluzione dell’individuo muove
dalla sua stessa capacità di abbandonare definitivamente
una parte di sé. Ed effettivamente si potrebbe sostenere
che la spazzatura che ogni giorno ci lasciamo alle
spalle in qualche modo c’identifica, racconta qualcosa
di noi e del nostro stile di vita.
Ogni italiano produce in media 1,5
kg di rifiuti urbani al giorno, i quali vanno
naturalmente sommati ai ben più numerosi scarti del
ciclo produttivo.
Se in tempi di boom economico in
essi si poteva intravedere il lato oscuro di un
progresso tuttavia assai luminoso, oggi si tende sempre
meno ad accettare la loro presenza in maniera passiva.
Lungi dall’evocare un quotidiano benessere materiale, i
rifiuti sono ormai diventati sinonimo di inquinamento,
distruzione dell’ambiente ed insulto al decoro urbano.
Si rende perciò necessario intervenire per trovare una
soluzione che non faccia semplicemente eco al motto out
of sight, out of mind come un tempo, ma che si riveli
efficiente soprattutto sotto gli aspetti economici ed
ambientali.
Prima della Rivoluzione
Industriale, i rifiuti prodotti erano per lo più
biodegradabili e venivano quindi riassorbiti senza
fatica nel ciclo naturale del pianeta: a quei tempi ci
si poteva accontentare di allontanare le deiezioni dai
centri urbani per evitare la contaminazione dell’acqua e
scongiurare così le epidemie.
Nel corso degli ultimi due secoli
si è invece assistito ad un rapido sviluppo indu-striale
che, se da una parte ha consentito un netto
miglioramento delle condizioni di vita, dall’altra ha
moltiplicato quantità e qualità dei rifiuti in una
società sempre meno capace di smaltirli.
Negli ultimi decenni è arrivato il
colpo di grazia con il famigerato “usa e getta”,
risultato di un progressivo abbassamento dei costi di
produzione, in grado di ridurre dra-sticamente la durata
dei beni di consumo ed aumentare ahimè il loro accumulo
sotto forma di rifiuti.
Attualmente ci misuriamo col
fenomeno sempre più tangibile della globalizzazione, che
evidenzia come il “problema rifiuti” sia destinato ad
assumere dimensioni mon-diali. In passato ogni comunità
umana costituiva un sistema relativamente chiuso; oggi
al contrario, un bene prodotto in Cina può essere
consumato in Germania e successivamente smaltito in
Africa come rifiuto: diviene così impresa assai ardua
individuare i soggetti responsabili dell’inquinamento e
si rende a tale scopo necessario far ricadere il peso
dei rifiuti su chi maggiormente ne produce. Da cui uno
dei principi comunitari fondamentali in materia: “Chi
inquina paga”, ossia un mezzo con cui caricare i costi
delle c.d. esternalità negative (inquinamento, ingombro,
conseguenze nocive per la salute, etc.) sui prodotti ad
alto impatto ambientale, favorendo in tal modo il
riciclo e la produzione di beni a lunga durata. Sulla
stessa lunghezza d’onda si mostrano le altre linee guida
dell’UE tra cui: massimo recupero, responsabilità estesa
del produttore, riduzione della produzione di rifiuti –
con l’obiettivo finale “rifiuti zero”, ossia una
prevenzione totale che consenta di recuperare il 100%
degli scarti prodotti[1]. Al fine di perseguire con
successo tale obiettivo, si rende necessaria una
profonda rivoluzione culturale e di mercato, peraltro in
parte già in corso.
In definitiva, l’orientamento
assunto ai vertici prende coscienza di quanto il nostro
attuale stile di vita sia divenuto insostenibile per il
pianeta e, conseguentemente, il singolo e l’intera
società odierna devono modificare il proprio
comportamento in senso ambientalmente compatibile, anche
attraverso una gestione sostenibile dei rifiuti. In
altre parole, si deve ristabilire un equilibrio di lungo
periodo tra i materiali sottratti e quelli restituiti
all’ambiente, salvaguardandolo per noi stessi e per le
generazioni future.
Ci si potrà così rendere conto che
assecondare la natura è, oltre che giusto, anche
vantaggioso per l’uomo, come si evince dalle sagge
parole di Dickens:
<<Lega un albero di fico nel modo
in cui dovrebbe crescere, e quando sarai vecchio potrai
sederti alla sua ombra>>.
II. Definizione e
classificazione di “rifiuto”
L’Art. 3 della Direttiva 2008/98/CE
fornisce la seguente definizione di rifiuto:
<<qualsiasi sostanza od oggetto di
cui il detentore si disfi o abbia l’intenzione o
l’obbligo di disfarsi>>.
In aggiunta a tale requisito, un
rifiuto, per essere considerato tale, deve rientrare a
far parte di una delle sedici categorie riportate
dall’Allegato A della Direttiva 91/156/CE (es. sostanze
contaminate, inadatte all’impiego o scadute, prodotti
consumati o il cui utilizzo risulta vietato per legge).
In Italia, a partire dal D.lgs
152/2006, i rifiuti sono classificati in:
Urbani – domestici, non pericolosi,
rifiuti vegetali, provenienti dallo spazzamento delle
strade e da attività cimiteriale;
Speciali – da attività agricole ed
agro-industriali, demolizione e costruzione, lavorazioni
artigianali, attività commerciali, di servizio etc.…;
Pericolosi – tassativamente
elencati nell’Allegato D del T.u..
Nella prima categoria rientrano
anche i rifiuti della raccolta differenziata (in
particolare carta, cartone, vetro, rifiuti
biodegradabili, abbigliamento, vernici, inchiostri,
adesivi, medicinali, batterie, plastica, metallo, legno,
terra e roccia).
Di notevole importanza è inoltre la
distinzione tra rifiuto vero e proprio e
sottoprodotto[2], in quanto quest’ultimo risulta escluso
dall’applicazione delle norme sui rifiuti.
Con esso s’identifica:
<<una sostanza od oggetto derivante
da un processo di produzione il cui scopo primario non è
la produzione di tale articolo…>>
e che soddisfa alcune condizioni
specifiche:
– l’utilizzo futuro della
sostanza è certo;
– non si rende necessario
alcun trattamento ulteriore prima dell’utilizzo;
– la sostanza è prodotta come
parte integrante di un processo di produzione;
– l’ulteriore utilizzo
rispetta la salute e l’ambiente.
L’art. 5, 2° comma, prevede che gli
Stati Membri possano adottare misure – puramente
integrative rispetto agli elementi fissati nella
Direttiva – tali da considerare determinate sostanze od
oggetti quali sottoprodotti anziché rifiuti.
Essendo i rifiuti urbani
rappresentati in buona parte da scarti domestici, appare
sempre più opportuno alle istituzioni investire in
campagne d’informazione e sensibi-lizzazione della
cittadinanza, a favore di una maggiore consapevolezza e
responsabilità nella selezione dei rifiuti tra le mura
domestiche.
Un’interessante prospettiva secondo
cui guardare al rifiuto è quella che lo descrive quale
“bene di valore negativo”. Un prodotto o servizio viene
solitamente qualificato in base all’utilità che ne
deriva: il suo “valore positivo” è così commisurato alle
opportunità di sfruttamento che il consumatore o
l’utente finale vi intravede.
Il rifiuto al contrario, in quanto
ex bene di consumo, subisce nella quotidianità una
connotazione negativa che lo inquadra come qualcosa
divenuto ormai inutile, indesiderato ed antiestetico. Il
suo valore negativo, dunque, è legato al costo che esso
rappresenta per chi lo detiene e vuole o deve
disfarsene.
Tuttavia, se ci si sofferma
sull’utilità potenziale del bene in questione, anziché
soltanto sulla sua presenza fisica, il discorso cambia:
una bottiglia vuota, ad esempio, rappresenta un bene già
consumato e la plastica di cui si compone è destinata a
diventare rifiuto (comportando un costo per il suo
possessore).
Se però qualcuno decide di
sfruttare nuovamente la bottiglia come contenitore,
attribuisce al bene una nuova utilità, evitando inoltre
i costi dello smaltimento. Si può così considerare il
seguente assunto alla stregua di un principio:
<<un bene ha tanto più valore
quanta più utilità potenziale vi è racchiusa>>[3]
In breve, un bene usato può
riacquistare valore positivo, purché si abbia interesse
ad investire su di esso per recuperarlo.
Nella Direttiva viene dedicato un
articolo apposito alla “Cessazione della qualifica di
rifiuto”[4], nel quale sono elencate con precisione le
condizioni necessarie per il recupero del rifiuto:
– l’utilizzo dell’oggetto per
scopi specifici;
– l’esistenza di un mercato
pronto ad accogliere l’oggetto;
– la soddisfazione dei
requisiti tecnici per gli scopi selezionati e il
rispetto degli standard previsti per il prodotto;
– assenza di “impatti
complessivi negativi sull’ambiente o sulla salute
umana”.
Qualora non fosse necessario alcun
intervento di recupero finalizzato ad un nuovo utilizzo
del rifiuto, come si evince dall’art. 5, 1° comma, lett.
b), si ridefinisce automaticamente quest’ultimo come
sottoprodotto.
III. L’Europa e i rifiuti
1. La produzione dei Rifiuti
Urbani in Europa
Eurostat stima che, nel 2004, la
neonata Europa a 27 abbia prodotto circa 2,8 miliardi di
tonnellate di rifiuti, il 14% dei quali classificabili
come urbani. Se si retrocede di circa un decennio, si
può notare come la produzione di rifiuti subisca ogni
anno un incremento leggero ma costante, segno di un
aumento della ricchezza pro capite e del conseguente
maggior utilizzo di sostanze naturali.
La disomogeneità tra Stati emerge
non appena si osserva che la produzione totale di
rifiuti urbani nel 2007 si assesta attorno ai 260
milioni di tonnellate, con un contributo da parte dei
nuovi Stati Membri (entrati nel 2004) del solo 14,7%;
Germania, Regno Unito, Francia, Italia e Spagna sono
infatti responsabili per ben il 67,5%. Il valore di
produzione minimo registrato finora è quello della
Repubblica Ceca, con soli 294 kg per abitante l’anno,
ben lontano dagli 801 kg del danese medio, al primo
posto nella classifica.
In alcuni Paesi di modeste
dimensioni si riscontrano valori inaspettatamente
superiori alla media: è il caso delle isole di Malta e
Cipro. Il fenomeno potrebbe comunque essere ricondotto
alla concentrazione di flussi turistici in determinati
periodi dell’anno.
Nella maggior parte degli altri
Stati europei si registra invece una produzione di
rifiuti urbani compresa tra i 400 e i 500 kg/ab. l’anno.
Grafici alla mano, nel triennio
2004 - 2007 si constata inoltre un rapido aumento nella
produzione dei rifiuti d’imballaggio, che arriva a
sfiorare gli 82 milioni di tonnellate, pari a un terzo
della totalità dei rifiuti urbani.
Se si considera che soltanto un
quarto degli Stati Membri vanta una stabilizzazione
della produzione di rifiuti d’imballaggio, si può ben
comprendere come questi siano divenuti oggetto di
specifici obiettivi di riciclaggio e recupero
all’interno dell’Unione.
La frazione merceologica più
rilevante nei 27 Stati è costituita da imballaggi
cellulosici (40%), seguita nell’ordine da vetro,
plastica, legno e metallo.
A ben vedere, il trend attuale non
rappresenta un fenomeno propriamente recente: l’ultimo
trentennio può dirsi interamente interessato da una
costante crescita degli imballaggi. Ciò riflette
certamente un progressivo mutamento di abitudini e stili
di vita: la metà dei rifiuti urbani prodotti negli anni
’60 era rappresentata da materiale organico
putrescibile, mentre oggi tale frazione si assesta
attorno al 20%, a fronte di un altro 15% corrispondente
a materiale plastico.
In buona sostanza, se un tempo si
era soliti cucinare a casa, oggi per praticità o
semplice mancanza di tempo si prediligono cibi pronti a
lunga conservazione, allo scopo opportunamente
imballati. Se da una parte è ragionevole sensibilizzare
il consumatore invitandolo a scegliere accuratamente i
prodotti, d’altro canto è pur vero che le responsabilità
maggiori si concentrano nel comparto produttivo.
Ad ogni modo, negli ultimi tempi
sembra potersi registrare una certa presa di coscienza,
essendo scomparsi dal mercato per lo meno gli imballaggi
pa-lesemente inutili (pochi forse sentiranno la mancanza
delle scatolette di cartone atte a contenere i tubetti
di dentifricio, già di per sé confezione).
Infine, confrontando i dati
riguardanti la produzione dei rifiuti urbani, è
possibile delineare un interessante profilo
socio-economico dell’Europa odierna, potendo risalire ai
consumi e calcolare così con buona approssimazione
ricchezza e qualità della vita in ciascun Paese: negli
Stati dell’Europa occidentale, maggiormente
industrializzati e con un PIL più elevato, si
evidenziano naturalmente consumi più elevati,
giustificando una produzione di rifiuti generalmente più
ingente rispetto all’Est europeo.
2. Le scelte gestionali dei
Paesi Membri
Nel 2007, in Europa, il 42% dei
rifiuti urbani è stato smaltito in discarica, il 38%
riciclato e il 20% avviato ad incenerimento.
Basta una rapida analisi dei dati
statistici per constatare quanto le modalità di gestione
appaiano eterogenee: Paesi quali Olanda, Germania,
Svizzera e Danimarca si mostrano sostanzialmente in
linea con la Direttiva Quadro 2008/98, avendo ridotto
drasticamente il conferimento in discarica (<10%) a
favore dell’incenerimento (che nel caso della Svizzera
sfiora addirittura il 100%) e di una generale
diminuzione della produzione di rifiuti.
Per converso, i nuovi Stati Membri
fanno un ricorso ancora massiccio allo smaltimento in
discarica (>80%), a fronte di basse quantità di rifiuti
avviate a riciclaggio: questo spiega il brusco
rallentamento del trend positivo registratosi
antecedentemente al maxi-allargamento dell’Unione nel
2004. Anche in occidente si riscontrano in realtà
esempi, quali Gran Bretagna ed Italia, che svelano
risultati globali ancora lontani dall’eccellenza; i due
Stati si stanno ad ogni modo dotando di nuovi impianti
di incenerimento.
In senso assoluto, sempre nel 2007,
si registra inoltre un tasso di recupero piuttosto
soddisfacente: dal 67,7% di metallo e legno immessi al
consumo, al 63,5% del vetro, al 56,8% della carta.
Una nota del tutto positiva è che
ben 14 Stati, tra cui l’Italia, hanno saputo rispettare
gli obiettivi di recupero e riciclaggio degli imballaggi
fissati per il 2008 (rispettivamente il 60% e il 55% in
peso).
IV. Il quadro istituzionale
italiano: ruoli e competenze della P.A.
In materia di rifiuti la
regolamentazione può dirsi alquanto minuziosa: a partire
dagli anni ’70 la fonte principale di norme e principi è
quella comunitaria, attraverso la quale gli Stati Membri
recepiscono in primo luogo un apparato definitorio
uniforme, seguito da una classificazione precisa delle
varie attività di gestione ed infine i criteri da
rispettarsi per le diverse tipologie di materiale.
All’interno di ciascuna realtà
nazionale, la legge individua come proprio destinatario
la figura del detentore, ossia colui che ha generato o
comunque possiede qualcosa di cui deve o intende
disfarsi. Egli è tenuto a provvedere alla gestione del
rifiuto a proprie spese o in proprio, qualora sia
legittimato a farlo.
Inoltre al detentore spetta
comunicare all’amministrazione competente la quantità di
rifiuti prodotta nonché la modalità di gestione
prescelta, mostrando di impiegare le migliori tecnologie
disponibili[5].
Le Pubbliche Amministrazioni hanno
di regola un forte potere discrezionale nella selezione
dei soggetti idonei a gestire gli impianti per il
trattamento, il recupero e lo smaltimento dei rifiuti.
1. I poteri dello Stato
A livello europeo vengono impartiti
i limiti, i principi di base e le definizioni ge-nerali
che ciascuno Stato Membro è chiamato a fare propri. A
livello nazionale si concentrano invece le funzioni di
indirizzo e coordinamento della materia, unitamente ad
una più generale tutela dell’ambiente sul territorio ed
ai relativi controlli.
Ai sensi del D. lgs. 152/2006[6]
l’Italia inoltre deve:
– stabilire i criteri
generali e le metodologie per la gestione integrata[7];
– individuare le misure per
limitare la produzione dei rifiuti e ridurne la
pericolosità;
– incoraggiare la
razionalizzazione della raccolta e del riciclaggio
nonché scegliere le iniziative economiche più adatte a
favorirli;
– individuare (d’intesa con
la Conferenza Stato-Regioni) obiettivi di qualità e
linee guida tali da accompagnare efficacemente
l’elaborazione dei Piani Regionali[8] e promuovere la
collaborazione fra gli enti locali;
– indicare i criteri per la
raccolta differenziata e per localizzazione degli
impianti di smaltimento.
2. I poteri delle Regioni
Le Regioni (sentite le Province, i
Comuni e le Autorità d’Ambito) sono tenute a redigere i
Piani Regionali con cui regolamentare le attività di
gestione dei rifiuti, compresa la raccolta
differenziata. Ciascuna Regione o Provincia autonoma,
per mezzo del Piano, garantisce:
– l’approvazione dei progetti
di nuovi impianti, l’autorizzazione alle modifiche di
quelli esistenti e all’esercizio delle operazioni di
smaltimento e di recupero;
– la delimitazione degli
Ambiti Territoriali Ottimali[9] nel rispetto delle linee
guida generali di cui all’art. 195, 1° comma, lett. m);
– il raggiungimento dell’
<<obiettivo di assicurare la gestione dei rifiuti urbani
non pericolosi all'interno degli ambiti territoriali
ottimali di cui all'articolo 200>>[10];
– la promozione della
gestione integrata “dei rifiuti per ambiti territoriali
ottimali attraverso un’adeguata disciplina delle
incentivazioni, prevedendo per gli ambiti più
meritevoli, tenuto conto delle risorse disponibili a
legi-slazione vigente, una maggiorazione di contributi;
a tal fine le regioni possono costituire nei propri
bilanci un apposito fondo”[11];
– l’assicurazione della
copertura, da parte di enti e società pubbliche, del
proprio fabbisogno di beni attraverso una quota di
prodotti riciclati non inferiore al 30%.
3. Le Province e i Comuni
Le Province si occupano della
programmazione ed organizzazione del recupero e dello
smaltimento dei rifiuti. Inoltre, esse:
– effettuano controlli
periodici sulle attività di gestione ed intermediazione
dei rifiuti;
– verificano e monitorano gli
interventi di bonifica;
– individuano in accordo con
gli enti locali le zone idonee ad ospitare gli impianti
di smaltimento.
I Comuni sono tenuti a:
– stabilire le misure
necessarie per assicurare igiene e salute;
– determinare le modalità di
raccolta, trasporto e conferimento dei rifiuti urbani,
promuovendone il recupero;
– coadiuvare le attività
svolte a livello di Ambito Territoriale Ottimale;
– rispondere puntualmente
alle richieste di informazione ed aggiornamento sulla
gestione da parte di Province e Regioni.
4. Gli Ambiti Territoriali
Ottimali
L’Ambito Territoriale Ottimale
(ATO) rappresenta, ai sensi dell’art. 200 T.u., l’unità
territoriale minima creata ai fini di una gestione dei
rifiuti urbani che avvenga secondo i criteri di:
– gestione integrata – in
un’ottica di economicità ed efficienza viene indetta
all’interno di ciascun ATO una gara d’appalto per
l’affidamento della gestione dei rifiuti ad un unico
operatore, allo scopo di ovviare all’inefficiente
frammentazione delle varie operazioni di gestione;
– studio delle dimensioni
territoriali più adatte a ciascun ATO, in base alle
peculiarità morfologiche, demografiche e
politico-amministrative dell’area – di norma la
perimetrazione degli ATO segue per lo più criteri di
aggregazione ammi-nistrativi, arrivando a ricalcare
nella maggior parte dei casi i confini provinciali. Il
Piano Regionale del Veneto ad es. istituisce 9 ATO, di
cui 6 corrispondenti ad altrettante Pro-vince, mentre i
restanti 3 vanno eccezionalmente a suddividere il
territorio veronese.
È opportuno prestare attenzione a
non confondere l’ATO rifiuti con l’omonima unità
territoriale che viene utilizzata nel settore idrico per
designare il singolo “bacino idrografico”: la mappatura
territoriale costruita a partire da quest’ultimo è
infatti sensibilmente differente;
– ottimizzazione dei
trasporti all’interno dell’area.
Per migliorare l’organizzazione
delle comunità che presentano dimensioni superiori a
quelle medie di un singolo Ambito, può essere operato un
frazionamento del territorio nel rispetto dei criteri di
cui sopra; nel caso in cui un ATO sia ricompreso nel
territorio di due o più Regioni spetterà a queste
ultime, d’intesa, la delimitazione della sua area.
Dal settimo comma dell’art. 200
T.u. traspare l’elevato grado di autonomia posto in mano
alle Regioni: nonostante l’ATO costituisca il principale
modello di riferimento per la gestione dei rifiuti, ad
esse viene infatti lasciata l’opportunità di adottare
sistemi di organizzazione territoriale alternativi,
purché questi si conformino ai criteri e alle linee
guida statali, nonché ai principi comunitari di
autosufficienza e prossimità.
Con riferimento a questi ultimi,
l’art. 182 T.u. prevede che lo smaltimento dei rifiuti
debba avvalersi di una rete adeguata di impianti al fine
di <<realizzare l’autosufficienza nello smaltimento dei
rifiuti urbani non pericolosi in ambiti territoriali
ottimali>>; in aggiunta, detti impianti devono essere
collocati in modo tale da consentire che lo smaltimento
avvenga il più vicino possibile ai luoghi di produzione
o raccolta, al fine di ridurre la movimentazione dei
rifiuti.
La portata dei principi di
autosufficienza e prossimità viene quindi trasposta nel
dettato dell’art. 201, 5° comma T.u., in cui si legge:
In ogni ambito:
a) è raggiunta, nell'arco di
cinque anni dalla sua costituzione, l'autosufficienza di
smaltimento anche, ove opportuno, attraverso forme di
cooperazione e collegamento con altri soggetti pubblici
e privati;
b) è garantita la presenza di
almeno un impianto di trattamento a tecnologia
complessa, compresa una discarica di servizio.
Lo smaltimento dei rifiuti fuori
dall’ATO in cui sono stati prodotti e raccolti
rappresenta un’ipotesi del tutto eccezionale: una
conferma in tal senso deriva dalla necessità di
un’autorizzazione apposita rilasciata dall’autorità
territorialmente competente (Regione o Stato)[12].
Ogni ATO si avvale della
partecipazione obbligatoria di tutti i Comuni presenti
all’interno dell’area, ai quali spetta la scelta di
operare in forma di consorzio piuttosto che di
convenzione fra enti coordinata dalla Provincia.
5. Le Autorità d’ambito
Ai sensi dell’art. 201, 2° comma,
T.u. <<l'Autorità d'ambito è una struttura dotata di
personalità giuridica costituita in ciascun ambito
territoriale ottimale delimitato dalla competente
regione, alla quale gli enti locali partecipano
obbligatoriamente ed alla quale è trasferito l'esercizio
delle loro competenze in materia di gestione integrata
dei rifiuti>>.
Se il Piano regionale fissa
l’impiantistica di riferimento e gli obiettivi da
raggiungere, la parte operativa ricade invece
interamente sull’Autorità d’Ambito, la quale aggiudica
il servizio di gestione integrata tramite gara
pubblica[13] mantenendo costantemente su di essa il
controllo generale e rappresenta la domanda collettiva
del servizio, regolando la sua erogazione all’utenza.
All’Autorità d’ambito inoltre
spettano:
– la ricognizione delle opere
ed impianti esistenti e la trasmissione alla Regione dei
relativi dati;
– la redazione di un Piano
d’Ambito che stabilisca le modalità organizzative del
servizio di raccolta secondo criteri di efficienza,
efficacia, economicità e trasparenza (in conformità al
Piano provinciale e regionale); tale piano deve inoltre
includere un programma degli interventi necessari,
accompagnato da un piano finanziario che riporti i
proventi derivanti dall’applicazione della tariffa, le
risorse disponibili e quelle da reperire;
– la scelta dei criteri per
la determinazione della tariffa relativa al servizio di
raccolta;
– l’individuazione degli
obiettivi di qualità della raccolta.
La L.R. n° 3/2000 offre in Veneto
una puntuale regolamentazione delle Autorità d’Ambito
locali; essa prevede che le attività riservate
all’Autorità siano esclusivamente organizzative, di
coordinamento e controllo della gestione dei rifiuti
urbani e attribuisce a ciascun’Autorità personalità
giuridica di diritto pubblico. Ne elenca infine gli
organi costitutivi – assemblea, presidente, consiglio di
amministrazione, direttore e, se viene scelta la forma
consortile, collegio dei revisori[14].
6. L’osservatorio Nazionale
sui Rifiuti
Il D.lgs. 2008 n° 4 ha sancito[15],
l’istituzione dell’Osservatorio Nazionale sui Rifiuti
(ONR).
Ai nove esperti di cui si compone è
stato attribuito il compito di elaborare criteri ed
obiettivi specificamente rivolti a ridurre quantità e
pericolosità dei rifiuti, nonché a migliorare
l’efficienza e l’economicità della loro gestione.
L’ONR svolge inoltre funzioni di
controllo e vigilanza sulla qualità dei servizi erogati,
verificandone costantemente i costi; esso racchiude i
dati raccolti assieme alle proprie valutazioni
all’interno di un rapporto annuale, che verrà poi
trasmesso al Ministro dell’Ambiente.
Esistono anche delle sedi regionali
dell’Osservatorio, finalizzate a garantire un controllo
maggiormente capillare sul territorio: in Veneto,
l’Osservatorio Regio-nale sui rifiuti ha sede presso
l’ARPAV (Agenzia Regionale per la Prevenzione e
Protezione Ambientale del Veneto).
V. La legislazione sui
rifiuti: dall’Europa all’Italia
1. Politica e strategie
dell’UE in materia di rifiuti
Si potrebbe asserire che la
politica ambientale europea abbia preso il via proprio
con la politica sui rifiuti. Nel corso degli anni ’70 e
’80 si susseguirono alcuni scandali, per lo più
imputabili ad una cattiva gestione dei rifiuti, che
videro protagonisti diversi Paesi europei[16]. Tali
accadimenti, oltre a scuotere l’opinione pubblica,
sensibilizzarono i responsabili politici dell’epoca,
spingendoli ad adottare misure di sicurezza e facendoli
così approdare alla prima Direttiva Quadro sui rifiuti
urbani.
Analogamente ad essa, i primi
strumenti legislativi erano caratterizzati dalla
compresenza di tre elementi: un apparato definitorio di
base, la salvaguardia dell’ambiente e della salute umana
e condizioni specifiche per la circolazione
transfrontaliera dei rifiuti.
Il passo seguente fu compiuto con
la Convenzione di Basilea del 1989, a favore di una
riduzione della produzione di rifiuti e controlli più
severi sul loro trasporto.
In questa fase difettano ancora i
parametri di emissione relativi alle attività di
trattamento dei rifiuti, introdotti soltanto con le
Direttive 1999/31/CE[17] sulle di-scariche e 2000/76/CE
sull’incenerimento[18].
I. Tra gli obiettivi generali del
primo strumento legislativo citato, come si legge
all’art. 1, vi è quello di ridurre i rischi per la
salute umana risultanti dalle di-scariche di rifiuti
durante il loro intero ciclo di vita.
La Direttiva inoltre classifica le
discariche in tre categorie: rispettivamente per rifiuti
pericolosi, non pericolosi ed inerti, specificando per
ciascuna le tipologie di rifiuti ammesse. Vengono in
seguito stabilite le procedure di autorizzazione per
l’apertura ed il funzionamento della discarica; sono
infine sancite le condizioni per il controllo e la
gestione successivi alla sua chiusura;
II. Lo scopo della Direttiva
2000/76/CE è invece quello di <<evitare o limitare per
quanto praticabile gli effetti negativi
dell’incenerimento e del co-incenerimento dei rifiuti
sull’ambiente, in particolare l’inquinamento dovuto alle
emissioni nell’atmosfera […] nonché i rischi per la
salute umana che ne derivano […], mediante rigorose
condizioni di esercizio e prescrizioni tecniche, nonché
istituendo valori limite di emissione […]>>[19].
Negli anni successivi gli
interventi sono stati per lo più rivolti alla promozione
di riciclaggio, riutilizzo e recupero di energia.
Si riportano di seguito le tappe
fondamentali del percorso legislativo intrapreso.
1.1 La gerarchia dei
rifiuti
In primo luogo, è stata stilata una
gerarchia tra le operazioni di gestione dei rifiuti[20],
la quale stabilisce tra di esse un preciso ordine di
priorità:
Prevenzione dei rifiuti
Punto focale della legislazione
europea attuale, essa consiste nella riduzione
programmata di quantità, pericolosità e impatto negativo
dei rifiuti su ambiente e salute.
L’Allegato IV della Dir. 2008/98
riporta alcuni esempi di misure di prevenzione:
misure relative alle condizioni
generali di produzione dei rifiuti – es. la
rea-lizzazione di prodotti più “puliti”;
misure incidenti sulla fase di
progettazione – es. ecologica – dei prodotti;
misure connesse alle fasi di
consumo ed utilizzo dei prodotti – es. promozione di
marchi di qualità ecologica.
Entro la fine del 2011 dovrà essere
stilata una relazione intermedia sull’evoluzione della
produzione dei rifiuti e definita una politica di
“progettazione ecologica dei prodotti” che favorisca
tecnologie incentrate su sostenibilità, riciclo e
riutilizzo; inoltre si conta sull’ausilio di incentivi
economici che favoriscano l’utilizzo di prodotti
so-stenibili. Nel medesimo intervallo dovrà essere
formulato un piano d’azione che si mostri in grado di
modificare i modelli di consumo in senso ambientalmente
compatibile.
Dovranno essere definiti[21], entro
il 12 dicembre 2013, dei programmi di prevenzione che
adottino misure atte a “dissociare la crescita economica
dagli impatti ambientali connessi alla produzione di
rifiuti”.
Infine vengono posti obiettivi di
dissociazione entro il 2020 – gli impianti di
dissociazione molecolare, per ora in fase sperimentale,
sarebbero in grado di trattare i rifiuti organici per
consentire il recupero delle frazioni inerti dei
materiali d’ingresso e trasformarle in un gas
combustibile detto “syngas”, ampiamente sfruttabile per
produrre energia elettrica e termica a bassissimo
impatto ambientale.
Al fine di garantire maggiori
probabilità di successo nel raggiungimento
dell’obiettivo finale, si sta diffondendo un indicatore
denominato LCA – life cycle assessment o va-lutazione
del ciclo di vita – in base al quale si ripercorre
l’intero ciclo di vita di un prodotto, evidenziando i
consumi netti di energia in ogni fase. Una prima
conseguenza utile di tale approccio potrebbe essere la
fissazione di una durata minima per i c.d. beni durevoli
– ad es. la garanzia di buon funzionamento di un
frigorifero per almeno 5 anni inclusa nel prezzo di
acquisto;
Preparazione per il
riutilizzo del prodotto
Ossia le operazioni di controllo,
pulizia e riparazione che consentono di reimpiegare
prodotti (o loro componenti) divenuti rifiuti, senza
ricorrere ad altro pretrattamento. Gli Stati Membri
devono predisporre strumenti economici, criteri in
materia di appalti e obiettivi quantitativi atti ad
agevolare tali operazioni;
Riciclaggio
Il ritrattamento dei materiali di
rifiuto finalizzato a ripristinare la funzione
originaria del prodotto o ad attribuirgliene una nuova.
Sono escluse dalla definizione di riciclaggio[22] le
operazioni di recupero di energia, ritrattamento per
l’ottenimento di combustibili e riempimento.
Ai sensi dell’art. 11, 1° comma,
§2, gli Stati Membri devono promuovere quanto più
possibile un riciclaggio di alta qualità, a tal fine
istituendo un regime totale di raccolta differenziata
dei materiali. Qualora entro il 2015 non si riesca a
raccogliere separatamente ogni tipo di materiale, la
differenziata dovrà essere comunque obbligatoriamente
adottata per carta, metalli, plastica e vetro (§3). Il
secondo comma, lett. a) dell’art. 11 prevede inoltre
che, entro il 2020, la preparazione e il riutilizzo dei
suddetti materiali dovrà essere incrementata del 50% in
peso, a fronte di un aumento di ben il 70% per quanto
concerne materiali quali rifiuti di costruzione o
demolizione non pericolosi (lett. b).
Infine l’art. 22 sollecita gli
Stati Membri ad adottare misure che incoraggino la
raccolta separata dei rifiuti organici a fini di
compostaggio: la componente putrescibile, qualora non
opportunamente convogliata nella frazione umida, è
infatti responsabile di una sensibile diminuzione della
combustibilità dei rifiuti.
La normativa italiana ha tradotto
il principio europeo in questione:
vietando il conferimento
indiscriminato di rifiuti in discarica – soluzione
permessa soltanto per il rifiuto ultimo;
fissando tre obiettivi di
raccolta differenziata a livello nazionale (art. 205
T.u.): il 35% entro il 2006, il 45% entro il 2008 e
l’ancora ambizioso raggiungimento del 65% di raccolta
differenziata entro il 2012: si tratta di un valore
molto alto che tuttavia, in caso positivo, permetterebbe
agevolmente di rispettare la percentuale di
riciclo-utilizzo prevista dalla Direttiva;
Altre forme di recupero
(es. energia)
In base all’Allegato II, si
considerano operazioni di recupero quelle che
sottopongono i rifiuti a particolari tipi di trattamento
(chimici, biologici, meccanici etc.) al fine di
ge-nerare solventi, combustibili, oli o altre materie
prime secondarie;
Smaltimento
Gli Stati Membri provvedono
affinché i rifiuti che non possono essere altrimenti
recuperati siano sottoposti ad operazioni di trattamento
sicure, nel rispetto della salute umana e dell’ambiente
– tra le opzioni riportate dall’Allegato I della
Direttiva si posso menzionare il deposito in discarica,
l’immersione, l’incenerimento, il trattamento
fisico-chimico o biologico, il lagunaggio.
Il secondo comma dell’art. 4
precisa inoltre che devono essere incoraggiate le
opzioni che consentono di ottenere il miglior risultato
ambientale complessivo, giustificando allo scopo
eventuali deroghe all’ordine prestabilito: ad esempio è
stato dimostrato che, a livello d’impatto, è preferibile
ricorrere al riciclaggio qualora i rifiuti plastici
siano puliti e separati, mentre in assenza di
differenziazione risulta più efficiente l’incenerimento
con recupero di energia.
1.2 I principi comunitari
in materia di rifiuti
In secondo luogo, negli anni ’90
sono stati riaffermati e rafforzati i principi
comunitari in materia di rifiuti, ciascuno dei quali
mostra ricadute pratiche di rilievo.
In generale i principi comunitari –
seppur quelli di seguito elencati vengono in parte
citati dalla Direttiva – sono per lo più frutto della
consuetudine e traggono sovente origine da un sostrato
di valori comuni alla tradizione giuridica europea.
Con il progressivo aumento delle
materie entrate a far parte dell’area di competenza
comunitaria, si sono moltiplicati anche i principi
giuridici parte dello scenario; essi dettano un
orientamento preciso per la regolamentazione di ciascun
settore, costituendo da un lato un essenziale punto di
riferimento per il legislatore comunitario, dall’altro
guidando gli Stati Membri verso il corretto recepimento
della normativa.
In materia di rifiuti si annoverano
i seguenti principi fondamentali:
“Chi inquina paga”
La prima formulazione politica del
principio appare piuttosto datata, risalendo alla
Raccomandazione del Consiglio 75/436/Euratom. La
Direttiva Quadro 2008/98 riprende tuttavia il principio
al punto 26 delle Disposizioni Preliminari,
conferendogli nuovo vigore. Esso viene definito quale
“principio guida a livello europeo e internazionale”,
secondo il quale il produttore di rifiuti dovrebbe
assicurare una gestione conforme agli standard di
protezione dell’ambiente e della salute umana.
In senso assoluto, la politica
ambientale dovrebbe essere finanziata, anziché dai fondi
pubblici, dagli stessi responsabili dell’inquinamento,
ogniqualvolta questi risultino identificabili.
In base al principio, i produttori
di rifiuti devono sostenere i costi di trattamento,
inclusi quelli indiretti causati dalle esternalità
ambientali; ciò si traduce concretamente
nell’introduzione di tasse ambientali, accanto ad un
sistema di tariffazione proporzionale alle quantità di
rifiuti generati;
Autosufficienza
Ogni comunità deve essere in grado
di smaltire autonomamente i propri rifiuti – ai sensi
dell’art. 16, 2° comma, ogni Paese persegue tale
obiettivo in base alle proprie necessità peculiari ed al
contesto geografico. L’Italia ha fatto sì che ciascun
ATO fosse dotato fin dall’origine di un impianto di
trattamento[23];
Prossimità
L’art. 16, 3° comma, stabilisce, in
linea con il principio di autosufficienza, che il
trattamento dei rifiuti debba avvenire quanto più
possibile vicino al luogo di produzione degli stessi,
riducendo al minimo la loro movimentazione, peraltro già
pesantemente regolamentata[24];
Responsabilità estesa del
produttore
L’art. 8 della Direttiva riporta un
principio articolato e complesso, attraverso il quale un
problema a lungo ingiustamente ricaduto sulla
collettività è stato finalmente ricondotto alla radice.
Per mezzo di incentivi economici, quando non di vere e
proprie sanzioni, l’intero comparto produttivo viene
responsabilizzato in merito al “ciclo di vita” dei
prodotti, il loro destino, nonché le esternalità da essi
causate: in capo a ciascun ope-ratore industriale viene
infatti fissato l’onere di raggiungere determinati
obiettivi di recupero in relazione ai materiali messi in
circolazione, allo scopo di promuovere la
commercializzazione di prodotti tecnicamente durevoli o
riutilizzabili. Ciò può inoltre implicare l’accettazione
di prodotti restituiti o dei residui del loro utilizzo,
previa adeguata informazione in merito ai consumatori –
un’efficiente risposta italiana alla presente richiesta
europea è stata data con la gestione di alcuni tipi di
rifiuto in forma consortile: il consorzio “CONAI”
gestisce il ritiro degli imballaggi in maniera esclusiva
a livello nazionale, obbligando produttori e
distributori ad aderire verso il corrispettivo di una
quota, utilizzata a sua volta per finanziare la raccolta
differenziata nei Comuni. In appena un decennio di vita
del consorzio, il recupero degli imballaggi ha raggiunto
valori prossimi al 60%, dimostrando così l’efficacia del
metodo;
Minimizzazione del danno
Con essa s’intende il rispetto di
standard tecnologici e di emissione da parte di tutti i
soggetti impiegati negli impianti di trattamento dei
rifiuti.
1.2.1 Spunti per una
riflessione critica
S’intende proporre in tal sede una
riflessione critica avente ad oggetto gli effetti di
alcuni principi comunitari.
Come già accennato sopra, la
presenza di principi generali consente di aderire,
all’interno di ogni materia comunitaria, ad un
orientamento specifico che risulterebbe altrimenti
impercettibile in base alle singole disposizioni di
legge.
Tuttavia la stabilità garantita dai
principi è tutt’altro che assoluta, risultando spesso
confinata al singolo settore di riferimento.
La prassi rivela infatti che
l’applicazione di principi comunitari appar-tenenti a
settori differenti crea talora delle problematiche
quanto inte-ressanti situazioni di contrasto, spesso
legate alla necessità di proteggere interessi diversi o
addirittura contrapposti.
A) Autosufficienza e Prossimità
Un primo esempio di
contraddittorietà emerge dal confronto dei principi di
autosufficienza e prossimità, propri del settore
rifiuti, con quelli di libera concorrenza e libera
circolazione delle merci, operanti in ambito economico.
Da una parte, l’imposizione operata dai vincoli di
autosufficienza e prossimità può essere giustificata dal
perseguimento di un importante obiettivo di riduzione
della movimentazione dei rifiuti, correlato
all’apprezzabile conseguenza di un minore impatto
ambientale. Dall’altra però, la localizzazione forzata
delle attività di gestione si traduce in un concreto
ostacolo all’attività di trasporto dei rifiuti, con una
significativa li-mitazione di alcune attività
imprenditoriali che ruotano attorno ad essi.
Un’estremizzazione di tale andamento suggerisce che, in
un futuro prossimo, potrebbero essere messe in
discussione le stesse idee di commercio e mercato, ormai
consolidate da decenni di tradizione comunitaria – non
ci si dimentichi dell’impronta prevalentemente economica
che ha caratterizzato la Comunità fin dal suo inizio,
denominata per l’appunto C.E.E. fino al Trattato di
Maastricht del 1992: quest’ultimo, trascendendo
l’aspetto meramente economico della Comunità, ne ampliò
orizzonti ed obiettivi, trasformandola nella ben più
articolata C.E. in qualità di “primo pilastro”
dell’Unione Europea.
Appare dunque lecito chiedersi
quale categoria di interessi risulti più me-ritevole di
protezione: è giusto lasciar la strada vecchia per la
nuova comprimendo la libertà di mercato a favore di
un’improcrastinabile tutela dell’ambiente? Oppure è più
importante aderire ai valori comunitari più consolidati,
lasciando alla tutela dell’ambiente uno spazio meramente
residuo?
Sebbene nella realtà il contrasto
non sia così netto come descritto, pare tuttavia
opportuno interrogarsi su quale sia l’orientamento da
assumere per affrontare tale problematica: mercato ed
ambiente rappresentano macrointeressi ineluttabilmente
divergenti oppure si prestano in qualche misura ad una
conciliazione?
Se si tralascia per un istante
l’obiettivo di contenimento delle emissioni,
s’intuiscono gli innumerevoli vantaggi economici e
gestionali che deriverebbero dalla presenza di pochi
impianti specializzati ove concentrare la maggior parte
dei trattamenti: anziché costringere ogni singola
comunità ad attrezzarsi per trattare autonomamente la
quasi totalità dei propri rifiuti, si potrebbe
incentivare un’organizzazione del trasporto dei rifiuti
su larga scala, in maniera efficiente e ad impatto
limitato. Scegliendo ad esempio di utilizzare alcune
tratte della rete ferroviaria si arriverebbe a
minimizzare le emissioni, riuscendo nel contempo a
trasportare grandi quantità di materiale e convogliarlo
in centri ampiamente attrezzati per lo smaltimento ed il
recupero di energia. Realizzando tali impianti in zone
di confine, sarebbe inoltre possibile servire vasti
territori di più Paesi, instaurando una coope-razione
multilaterale basata su specializzazione e suddivisione
delle competenze. A supervisione del corretto
funzionamento di questi grandi poli di smaltimento si
potrebbero inoltre istituire delle Commissioni di
vigilanza composte da rappresentanti di più Paesi,
simili a quelle già operanti a livello transnazionale
nel settore idrico in merito alla gestione dei
principali fiumi europei (si pensi ad esempio alla ICPDR
– Commissione Internazionale per la Protezione del Fiume
Danubio).
B) “Chi inquina paga”
Un secondo elemento controverso
emerge da una breve analisi del famigerato principio
“Chi inquina paga”[25], secondo cui è più giusto e utile
addossare i costi dell’impatto ambientale direttamente a
chi genera i rifiuti, evitando di distribuire equamente
la spesa sull’intera società. Nonostante il principio si
mostri di primo acchito perfettamente logico e lineare,
è tuttavia possibile risalire a monte dello stesso,
attraverso un quesito molto semplice: chi è realmente
l’inquinatore? Chi deve cioè fungere da capro espiatorio
e sopportare il peso dell’impatto ambientale
complessivo? Forse colui che innesca il meccanismo di
consumo immettendo il bene sul mercato? O piuttosto il
consumatore stesso, il quale si dovrà disfare del
prodotto dopo l’uso e magari già dell’imballaggio dopo
l’acquisto?
A ben vedere le risposte sono
tutt’altro che scontate.
A livello generale nessun
individuo, cittadino o impresa che sia, può rite-nersi
esente dall’orientare il proprio comportamento a favore
dell’ambiente, essendo, in qualità di detentore dei
propri rifiuti, perso-nalmente responsabile del loro
destino.
Tuttavia si potrebbe pensare che la
Comunità Europea abbia scelto su chi far ricadere gli
oneri più gravosi: accanto alla generale “Responsabilità
della gestione dei rifiuti”[26], infatti, va ricordata
la più specifica “Responsabilità estesa del
produttore”[27] sancita dall’art. 8. Quest’ultima
previsione attribuisce inequivocabilmente un maggiore
rilievo ai protagonisti della filiera produttiva,
ritenuti in grado di determinare condizioni e qualità
dell’offerta e di influenzare così il consumatore
finale, ritratto in un ruolo più passivo rispetto
all’ambiente.
1.3 Gli obiettivi inerenti
al trattamento dei rifiuti
In terzo luogo, la Direttiva
2008/98/CE ha promosso una gestione industriale dei
rifiuti che sia efficace, economicamente efficiente ed
ambientalmente compatibile, nonché fondata sulle
migliori tecnologie disponibili.
Ciò si sostanzia in due
macro-obiettivi:
l’azzeramento dei rifiuti in
discarica, attraverso disincentivi economici di
intensità crescente. Si rende infatti necessario
penalizzare un sistema di smaltimento tanto economico e
pratico quanto nocivo per l’ambiente e per l’uomo
stesso: nonostante le misure di sicurezza rese
disponibili dalle nuove tecnologie, il rischio di
contaminazione delle falde acquifere più prossime resta
di fatto elevato.
Inoltre la presenza di una
discarica diminuisce il valore naturalistico di
un’intera zona, rendendola peraltro inservibile per
diverso tempo anche dopo la sua chiusura;
la complementarità tra diverse
forme di trattamento, che diventano parte del medesimo
ciclo integrato in ossequio a ragioni economiche ed
ambientali.
In particolare, a partire dalla
stesura della gerarchia dei rifiuti[28], viene eliminata
qualunque forma di concorrenza tra riciclaggio ed
incenerimento con recupero energetico (spesso
erroneamente descritti quali soluzioni alternative).
1.4 La strategia tematica
per la prevenzione e il riciclaggio
Il miglioramento della gestione dei
rifiuti viene sempre più accolto come una sfida di
ordine politico ancor prima che tecnologico: a partire
dal Consiglio europeo di Göteborg del 2001, si è preso
coscienza della necessità di modificare la relazione tra
crescita economica, consumo di risorse naturali e
produzione di rifiuti.
Si deve in sostanza puntare ad un
uso sostenibile delle risorse naturali, li-mitando nel
contempo la produzione di rifiuti: un obiettivo in
teoria massimamente condiviso, la cui realizzazione
pratica presenta d’altro canto non pochi problemi.
Sulla scia di tali considerazioni,
nel 2003 la Commissione Europea ha iniziato ad elaborare
una strategia tematica per la prevenzione e il
riciclaggio dei rifiuti, auspicando in particolare:
l’individuazione del potenziale
di prevenzione dei rifiuti;
lo scambio di esperienze e
know-how tra gli Stati Membri;
la determinazione di specifici
obiettivi di riciclo;
la promozione dei sistemi di
tariffazione PAYT (pay-as-you-throw), mantenendo la
responsabilità del riciclo sempre in capo al produttore;
la compatibilità ambientale
delle operazioni di riciclo
Le proficue consultazioni
periodiche tra la Commissione e le numerose parti
interessate di ogni Paese hanno consentito di pervenire
alla redazione definitiva della strategia nell’arco di
un triennio. Essa fonda la politica dei rifiuti su due
presupposti imprescindibili:
la riduzione dell’impatto
ambientale derivante dall’uso delle risorse – sono
almeno tre i tipi d’impatto su cui intervenire:
l’inquinamento atmosferico causato dai processi di
produzione; le emissioni provenienti dagli impianti di
smaltimento dei rifiuti; i rifiuti derivanti
dall’estrazione di materie prime: riciclando i metalli,
per esempio, si evita di generare sottoprodotti
pericolosi legati alla trasformazione dei minerali,
abbattendo tra l’altro gran parte dei rifiuti
dell’attività estrattiva destinati al trasporto (con una
conseguente riduzione delle emissioni di anidride
carbonica);
l’approccio orientato al ciclo
di vita – da adottare nelle campagne d’informazione,
nella promozione dei c.d. “appalti verdi”, attraverso il
principio di responsabilità estesa del produttore e, più
in generale, nell’integrazione delle politiche di
mercato destinate ad incidere sul ciclo di vita dei
prodotti.
Fin dal principio appare quindi
opportuno perseguire un obiettivo di coe-renza globale a
favore della salvaguardia dell’ambiente, investendo al
massimo nella collaborazione sinergica tra governi,
produttori e consumatori.
Se dunque, da una parte, gli
obiettivi di prevenzione non possono prescindere dalle
politiche sui prodotti e sulle risorse, dall’altra essi
devono essere orientati secondo una costante analisi
degli stili di vita, dei modelli di consumo e dei
mutamenti demografici.
Un metodo ormai collaudato in varie
realtà nazionali, anche in materia am-bientale, è
l’utilizzo di strumenti economici finalizzato a
promuovere modificazioni comportamentali in senso
ambientalmente compatibile. Nonostante l’interesse
inizialmente suscitato, l’applicazione di una tassa
uniforme, coordinata a livello europeo, presenta
innumerevoli ostacoli di ordine giuridico: il Trattato
CE ad esempio prevede che le decisioni in materia
fiscale vengano prese all’unanimità, riducendo così
notevolmente le probabilità di successo del sistema.
I tempi non sembrano maturi neanche
per l’approvazione dei “permessi negoziabili” europei
(quote versate periodicamente dagli operatori
industriali e commisurate alle emissioni di gas-serra
prodotte), nonostante si registri già la presenza di
strumenti equivalenti a livello nazionale.
Si può sostenere che la strategia
pianificata dalla Commissione attraverso la
comunicazione intrapresa con gli Stati Membri abbia
aiutato a definire più chiaramente gli obiettivi e le
priorità di prevenzione e di riduzione dell’impatto
ambientale.
Tuttavia le difficoltà da superare
sono a ben vedere ancora molte, in buona parte dovute ad
una perdurante disomogeneità nella regolamentazione
della materia rifiuti, soprattutto da parte degli Stati
entrati più di recente a far parte dell’Unione.
Pare dunque lecito chiedersi se il
cauto approccio della Commissione possa efficacemente
contrastare la frammentarietà delle attività di
prevenzione: è pur vero infatti che la portata generale
dell’azione europea riserva un vantaggio, ossia quello
di conferire a ciascuno Stato la facoltà di assumere le
decisioni più adatte in base alla propria realtà
economico-produttiva ed alla composizione del tessuto
sociale.
D’altro canto però, si avverte
un’esigenza di coordinamento ed indirizzo più stringente
a livello centrale, che sia in grado cioè di creare
un’unitarietà maggiore ed incoraggiare la diffusione
delle pratiche positive di ciascun Paese all’estero.
2. La gestione integrata dei
rifiuti in Italia
All’art. 178 T.u. si legge che <<la
gestione dei rifiuti costituisce attività di pubblico
interesse ed è disciplinata […] al fine di assicurare
un'elevata protezione dell'ambiente e controlli
efficaci, […] nonché al fine di preservare le risorse
naturali>>.
Il terzo comma inoltre precisa:
<<la gestione dei rifiuti è effettuata conformemente ai
principi di precauzione, di prevenzione, di
proporzionalità, di responsabilizzazione e di
cooperazione di tutti i soggetti coinvolti nella
produzione, nella distribuzione, nell'utilizzo e nel
consumo di beni da cui originano i rifiuti, nel rispetto
dei principi dell'ordinamento nazionale e comunitario,
con particolare riferimento al principio comunitario
"chi inquina paga". A tal fine le gestione dei rifiuti è
effettuata secondo criteri di efficacia, efficienza,
economicità e trasparenza>>.
Con gestione integrata[29] viene
indicato il complesso delle attività volte ad
ottimizzare la gestione dei rifiuti, quest’ultima intesa
a sua volta come l’insieme delle operazioni di raccolta,
trasporto, recupero e smaltimento.
Il doveroso controllo sullo
svolgimento di tali operazioni, nonché quello relativo
alle discariche dismesse, viene parimenti incluso nel
concetto di gestione dei rifiuti[30].
La gestione integrata prevede che
le Regioni predispongano dei Piani di ge-stione
assicurando pubblicità e trasparenza.
Tali Piani dovranno tra l’altro:
disciplinare collocazione,
tipologia e caratteristiche tecniche degli impianti di
smaltimento e recupero;
garantire efficacia,
economicità ed autosufficienza nella gestione dei
rifiuti urbani;
stabilire limiti alla
produzione di rifiuti, divieti di inquinamento ed
incentivi economici ove opportuno.
In base al principio di gestione
integrata si deve pervenire ad un’organizzazione
unitaria dell’intero ciclo di raccolta, smaltimento ed
avvio al recupero, il tutto entro ambiti territoriali di
dimensioni adeguate (di norma le Province).
Nel 45% dei casi protagoniste della
gestione sono le imprese pubbliche, nel 34% i privati,
mentre sempre più sporadicamente si parla di gestione in
economia.
Il vantaggio offerto dall’impresa
pubblica è rappresentato soprattutto dalla capacità di
provvedere sia alla raccolta sia allo smaltimento, a
differenza del privato, cui solitamente viene affidato
un servizio specifico.
È lecito pensare che con
l’espressione “organizzazione unitaria” il legislatore
abbia volutamente lasciato spazio a soluzioni
eterogenee: in Lombardia e in Emilia Romagna, ad
esempio, alcune città hanno scelto di contare su
un’unica grande impresa che fosse in grado di trattare
lo smaltimento ed organizzare la raccolta su tutto il
territorio provinciale. Più mediato appare invece il
modello gestionale preferito in Veneto, dove i Comuni
costituiscono imprese investite di responsabilità
gestionale, le quali in un secondo tempo si rivolgono ad
operatori specializzati.
Qualunque sia il modello gestionale
prescelto, si registra in generale un cre-scente
coinvolgimento di soggetti privati nel settore, in
particolare multinazionali ed imprese di grandi
dimensioni, soprattutto all’estero: ne sono un esempio
l’americana Waste Management, la tedesca Remondis, le
francesi Veolia e Suez, nonché Biffa in Gran Bretagna.
La presenza sempre più significativa di tali soggetti
lascia presagire l’apertura a nuovi modelli
organizzativi per il futuro, guidati per lo più da un
mercato dominato dai grandi gruppi industriali.
A livello internazionale sussistono
dunque i presupposti per parlare di una progressiva
privatizzazione del settore. Tale fenomeno può dirsi per
certi aspetti auspicabile, grazie all’inventiva e
all’iniziativa degli imprenditori autonomi (ad essi si
devono una continua ricerca sul campo ed un prezioso
know-how); per contro, un tale scenario implicherebbe
verosimilmente un progressivo allontanamento del
soggetto pubblico, traducendosi in una maggiore
difficoltà di controllo del settore.
In una situazione siffatta
desterebbero preoccupazione gli elevati costi che spesso
l’impresa privata deve sostenere per trattare
correttamente i propri rifiuti: all’imprenditore senza
scrupoli, infatti, paiono sovente appetibili soluzioni
economiche illegali e nocive per l’ambiente, contro le
quali in futuro non ci si potrà permettere di abbassare
la guardia.
3. La raccolta dei rifiuti
urbani
Da anni è ormai evidente come il
legislatore italiano abbia scelto di incentrare la
normativa nazionale in materia di rifiuti sul costante
incremento della raccolta differenziata, fissando
obiettivi percentuali crescenti all’interno del T.u.: a
partire dal 2006 viene infatti promosso un aumento
progressivo della differenziazione dei rifiuti, pari a 5
punti percentuali l’anno in vista del traguardo
finale[31].
Ciò permette di constatare una
differenza di approccio rispetto alla Direttiva
2008/98/CE, che promuove il recupero limitandosi ad
indicare le percentuali di rifiuti da avviare a
riciclaggio.
La Direttiva, all’art. 3 punto 10,
fornisce la seguente definizione generale di raccolta:
<<il prelievo dei rifiuti, compresi
la cernita preliminare e il deposito preliminare, ai
fini del loro trasporto in un impianto di trattamento>>.
3.1 Le modalità di raccolta
Complessivamente, si contano tre
diverse modalità di raccolta:
Raccolta collettiva – basata
sull’utilizzo di contenitori stradali liberamente e
costantemente accessibili alla cittadinanza. Si tratta
del metodo più classico, in passato diffuso quasi
ovunque in Italia; col tempo sarà tuttavia
verosimilmente soppiantato da modalità di raccolta
alternative, nel tentativo di conseguire una percentuale
di differenziazione più elevata.
Si possono considerare tre vantaggi
connessi a questo metodo:
una maggiore libertà da parte
degli utenti, che possono scegliere di conferire i
rifiuti in qualunque giorno ed orario, senza limiti;
una maggiore flessibilità nella
pianificazione dei turni di raccolta. Inoltre non si
rende necessaria alcuna modifica alla viabilità urbana
che quindi conserva in massima parte i propri spazi;
ampie possibilità di
meccanizzazione: il prelievo dei rifiuti viene
effettuato in maniera automatizzata con un mezzo
apposito, riducendo di gran lunga l’attività manuale. I
costi della raccolta sono di conseguenza piuttosto
contenuti.
Per converso, si contano
altrettanti svantaggi che, nel complesso, hanno
recentemente spinto un numero crescente di
amministrazioni comunali ad orientarsi verso altre
soluzioni. La raccolta collettiva infatti comporta:
l’impossibilità di garantire un
qualsivoglia livello di differenziazione dei mate-riali,
essendo la cernita dei rifiuti esclusivamente affidata
al buon senso del singolo. In presenza di obiettivi di
recupero sempre più stringenti, tale metodo è destinato
a diventare perciò obsoleto;
problemi di decoro urbano: il
posizionamento dei contenitori in zone centrali è
indispensabile per incentivare il conferimento regolare
da parte dei residenti, causando tuttavia un
deturpamento del paesaggio e facendo talora registrare
veri e propri casi di degrado ambientale;
un’assenza quasi totale di
controllo sul conferimento, che alimenta il rischio di
episodi di conferimento abusivo. Ciò avviene soprattutto
da parte di commercianti o piccole imprese, intenzionati
a sfruttare i sistemi domestici di raccolta al fine di
risparmiare i costi della gestione in proprio.
Raccolta porta a porta –
adottata sempre più diffusamente per incrementare la
percentuale di differenziazione dei materiali.
Consiste in un prelievo (per lo più
monomateriale) da effettuarsi presso ogni singola
abitazione in modi e tempi prestabiliti.
L’enorme vantaggio connesso a
questo metodo, seppur praticamente l’unico, è quello di
instaurare un rapporto diretto con l’utenza, attraverso
cui poter assicurare un controllo costante e capillare
su quantità e qualità dei rifiuti conferiti.
Tuttavia gli svantaggi non sono
trascurabili. Si rende infatti necessario affrontare:
una forte rigidità
organizzativa: in primo luogo, gli utenti sono costretti
a pianificare il proprio conferimento in maniera
puntuale e precisa, rispettando i giorni e gli orari
previsti per ciascuna tipologia di materiale (che
dev’essere tra l’altro trattenuto fino al momento della
raccolta). Gli operatori della raccolta devono a loro
volta rinunciare a turni di lavoro flessibili;
una maggiore intensità di
lavoro manuale, non essendo possibile ricorrere
massicciamente all’automazione come nella raccolta
collettiva. Questo implica da un lato un significativo
aumento del rischio di infortuni sul lavoro; dall’altro,
un incremento non indifferente dei costi di raccolta,
pur in parte compensato dai finanziamenti elargiti
grazie al raggiungimento di soglie di differenziazione
più elevate.
Conferimento diretto – si
tratta di un metodo di raccolta necessariamente
complementare ad uno dei precedenti, il quale costringe
il detentore di specifiche tipologie di rifiuti (ad es.
ingombranti) al conferimento diretto in appositi luoghi
di raccolta.
È interessante notare come
ciascun’amministrazione goda di un alto livello di
autonomia gestionale: ciò presenta l’indubbio vantaggio
di poter liberamente integrare diverse modalità di
raccolta secondo le esigenze peculiari di ogni comunità,
sviluppando all’occorrenza un sistema misto. Per contro,
tale pratica è suscettibile di creare tanti piccoli
“microcosmi”, causando una disomogeneità a livello
territoriale che disorienta il cittadino anche in caso
di piccoli spostamenti.
3.2 La raccolta
differenziata dei rifiuti urbani
Al punto 11 dell’art. 3 Direttiva,
viene introdotta per la prima volta la definizione di
raccolta differenziata, con cui s’identifica in
dettaglio la separazione tra flussi di rifiuti in base
al tipo ed alla natura degli stessi, allo scopo di
agevolarne il trattamento specifico.
A seguito delle modifiche apportate
dal D.lgs n° 4 del 2008, l’art. 183 lett. f) del T.u.
definisce a sua volta la raccolta differenziata come
<<[…] idonea a raggruppare i
rifiuti urbani in frazioni merceologiche omogenee
compresa la frazione organica umida, destinate al
riutilizzo, al riciclo ed al recupero di materia. La
frazione organica umida è raccolta separatamente o con
contenitori a svuotamento riutilizzabili o con sacchetti
biodegradabili certificati>>.
Per ragioni organizzative e
convenzionali, oltre che per praticità logistica, molte
comunità fanno convergere in un unico flusso materiali
diversi, che saranno poi suddivisi in un secondo tempo
negli impianti di trattamento (l’abbinamento più
frequente è quello tra vetro, metalli e/o plastica): in
un primo stadio la differenziazione sarà perciò soltanto
parziale e si parlerà quindi più propriamente di
raccolta multimateriale.
La percentuale di raccolta
differenziata raggiunta dall’Italia nel 2008 è pari al
30,6% della produzione totale dei rifiuti urbani, un
dato che dista ancora ben 15 punti percentuali
dall’obiettivo fissato dalla normativa per lo stesso
anno, sebbene si sia registrato un lieve incremento
rispetto al 2007.
Si tratta tuttavia di un valore
nazionale medio, che vale la pena di scomporre in quanto
frutto di cifre molto diverse tra loro: al Nord la
raccolta differenziata sale infatti al 45,5% (246 kg/ab.
all’anno), seguita dal 22,9% del Centro (142 kg/ab.) e
dal 14,7% del Sud (73 kg/ab.).
Un aspetto abbastanza rassicurante
è che, nonostante la lontananza dal target, la
percentuale di incremento maggiore si è registrata in
proporzione al Sud (+23,8% rispetto al 2007).
Un altro dato positivo è stato il
significativo aumento della raccolta separata per alcuni
materiali in particolare: la quantità di frazione
organica raccolta (umido + verde) cresce infatti del
14,8%, similmente a vetro e plastica (dei quali circa il
90% è rappresentato da imballaggi).
A livello regionale, le maggiori
percentuali di raccolta differenziata si rilevano in
Trentino-Alto Adige (56,8%) e Veneto (52,9%), seguiti da
Piemonte e Lombardia. Valori abbastanza prossimi si
registrano al Nord anche per Emilia Romagna e Friuli
Venezia Giulia, con la vistosa eccezione della Liguria,
che riporta solamente il 21,8%.
Al Centro la maggior parte dei
valori si attesta tra il 25% ed il 35%, creando un certo
divario rispetto al Lazio, che resta al 12,9% di
differenziazione.
Al Sud il valore più alto è della
Sardegna (34,7%), anche se la crescita più rilevante
appartiene alla Campania, grazie soprattutto alle
province di Avellino e Salerno.
Molise, Sicilia e Basilicata non
raggiungono ancora, nel 2008, il 10% di raccolta
differenziata.
3.3 La differenziazione
come compromesso
La raccolta dei rifiuti rappresenta
l’incipit del processo di gestione, inserendosi
diacronicamente tra la produzione dei rifiuti domestici
e le restanti operazioni di trasporto, recupero e
smaltimento.
In quanto tale, essa costituisce il
primo mezzo con cui poter perseguire l’obiettivo
comunitario di recupero dei rifiuti, finalizzato a
propria volta al contenimento degli impatti ambientali:
la buona riuscita delle successive fasi di trattamento
dipende infatti direttamente dall’efficienza delle
tecniche di prelievo, oltre che naturalmente dal
raggiungimento di un buon livello di differenziazione
dei materiali.
Proprio in merito a quest’ultima
sorge spontaneo il seguente quesito: in base a quale
criterio il grado di differenziazione raggiunto può
considerarsi soddisfacente? Fino a che punto cioè è
opportuno promuovere la separazione dei materiali? È
evidente che, per lo meno in teoria, per ottenere il
massimo recupero si dovrebbe predisporre un numero di
raccolte distinte pari a quanti sono i rifiuti stessi…
ma a quale costo?
La raccolta differenziata ha per
l’appunto come scopo quello di massimizzare il
potenziale di recupero dei rifiuti attraverso una loro
cernita: il problema è che, proporzionalmente
all’accuratezza di quest’ultima, aumentano anche le
complicazioni per la vita di utenti ed operatori. Ecco
perché in un sistema di raccolta reale le scelte
organizzative sono frutto di un compromesso tra
l’esigenza di promozione del recupero, l’indispensabile
praticità logistica ed il contenimento dei costi.
3.4 L’importanza del
dialogo
Un sistema di raccolta, per
funzionare in maniera efficiente, necessita tuttavia di
un ulteriore elemento, ossia un dialogo che consenta
alle istituzioni di instaurare una collaborazione di
lungo periodo con la cittadinanza.
Per quanto un’amministrazione
presenti un’organizzazione efficace, difficilmente essa
sarà in grado di ottenere risultati positivi in assenza
di partecipazione della collettività.
Risalendo più a monte, pare lecito
chiedersi da dove possa nascere questo dialogo. La sua
presenza è forse a sua volta imputabile all’esistenza o
meno di un’educazione collettiva: in altre parole, per
invitare il cittadino a cooperare, è prima necessario
educarlo a tal fine.
Da cui l’importanza di organizzare
campagne di sensibilizzazione ambientale, con
particolare riguardo ad una gestione corretta dei
rifiuti. Soprattutto però, il messaggio dovrebbe essere
diffuso a partire dalla scuola primaria, per formare
generazioni future verosimilmente più consapevoli e
disposte a collaborare.
4. La rendicontazione e il
trasporto
4.1 Il Catasto dei rifiuti
Il Catasto dei rifiuti è stato
istituito, come ricorda l’art. 189 del T.u., dalla Legge
9 novembre 1988, n. 475.
Esso si compone di una Sezione
Nazionale ubicata a Roma presso l’APAT (Istituto
superiore per la protezione e la ricerca ambientale) e
di articolazioni regionali aventi sede presso ciascun
ARPA[32].
Il principale compito del Catasto è
di mantenere costantemente aggiornati i dati relativi
alla gestione dei rifiuti che vengono inviati dagli
operatori del settore. Come si legge infatti al terzo
comma dell’art. 189:
<<Chiunque effettua a titolo
professionale attività di raccolta e trasporto di
rifiuti, […] le imprese e gli enti che effettuano
operazioni di recupero e di smaltimento di rifiuti, i
Consorzi istituiti per il recupero ed il riciclaggio di
particolari tipologie di rifiuti, nonché le imprese e
gli enti produttori iniziali di rifiuti pericolosi […]
comunicano annualmente alle camere di commercio,
industria, artigianato e agricoltura territorialmente
competenti […] le quantità e le caratteristiche
qualitative dei rifiuti oggetto delle predette
attività>>.
La trasmissione dei dati alle
Camere di Commercio deve avvenire tramite un modulo
apposito, denominato Modello Unico di Dichiarazione
(MUD); le Camere inviano i dati ricevuti alla Sezione
provinciale o regionale del Catasto competente, la quale
provvede alla loro elaborazione facendo pervenire il
tutto entro trenta giorni alla Sezione Nazionale.
In caso di omissione, incompletezza
o inesattezza della dichiarazione si applicherà una
severa sanzione amministrativa (fino a 15.600 €).
4.2 I registri di carico e
scarico
Un confronto tra la normativa
italiana e quella europea in tema di registri permette
di valutare a tal merito la scelta legislativa
effettuata dal nostro Paese. Pare infatti che l’Italia
abbia deliberatamente deciso di orientarsi verso una
maggiore rigidità nella rendicontazione dei rifiuti,
innalzando sensibilmente il livello di protezione minimo
garantito dalla Direttiva 2008/98/CE.
Il primo comma dell’art. 35
Direttiva impone la tenuta di un registro per la
rendicontazione dei rifiuti pericolosi, da parte di
qualunque ente o impresa che li produca, ne effettui la
raccolta o il trasporto: tale registro dev’essere
redatto in ordine cronologico, riportando
obbligatoriamente quantità, natura ed origine dei
rifiuti. Soltanto se ritenuto opportuno, potranno poi
essere aggiunte indicazioni riguardanti la destinazione,
la frequenza di raccolta, il mezzo di trasporto e il
metodo di trattamento previsti per i rifiuti.
Per la stesura dell’art. 190 T.u.,
il legislatore italiano sembra essersi avvalso del
dettato di cui al terzo comma dell’art. 35 Direttiva, il
quale conferisce agli Stati Membri l’opportunità di
esigere la tenuta di registri anche da parte dei
produttori di rifiuti non pericolosi.
All’art. 190 si legge quindi che
chiunque effettua a titolo professionale raccolta,
trasporto, recupero o smaltimento di rifiuti (senza
quindi ulteriori specificazioni in merito alla loro
pericolosità) ha
<<l’obbligo di tenere un registro
di carico e scarico su cui […] annotare le informazioni
sulle caratteristiche qualitative e quantitative dei
rifiuti, da utilizzare ai fini della comunicazione
annuale al Catasto>>.
Come si può notare, il legislatore
non lascia spazio ad alcuna discrezionalità a favore dei
soggetti destinatari della norma, imponendo piuttosto un
controllo totale sulla gestione dei rifiuti.
A conferma della rigidità adottata
dalla normativa, si può constatare come un altro
adempimento facoltativo della Direttiva venga reso
obbligatorio dal secondo comma dell’art. 190: per le
imprese che svolgono attività di smaltimento e recupero
viene considerato necessario – e non semplicemente
opportuno (supra) – includere nel registro la
destinazione specifica dei rifiuti, la data del carico e
dello scarico, il mezzo di trasporto utilizzato, nonché
il metodo di trattamento impiegato.
4.3 Il trasporto dei
rifiuti
La disciplina relativa al trasporto
dei rifiuti si rivela piuttosto in linea con la rigidità
adottata per la tenuta dei registri di carico e scarico.
L’art. 193 T.u., infatti, impone
agli enti o imprese che effettuano il trasporto dei
rifiuti a livello nazionale la compilazione di un
certificato di accompagnamento denominato formulario di
identificazione (f.i.r.), dal quale risultino – in base
al primo comma – necessariamente:
a) nome ed indirizzo del produttore
e del detentore;
b) origine, tipologia e quantità
del rifiuto;
c) impianto di destinazione;
d) data e percorso
dell'istradamento;
e) nome ed indirizzo del
destinatario.
In caso di assenza o incompletezza
nella compilazione del formulario per i rifiuti non
pericolosi verrà applicata una sanzione pecuniaria fino
a 9.300€.
Il quarto comma introduce tuttavia
un elemento di flessibilità nella regolamentazione,
prevedendo che le disposizioni del primo comma non si
applichino:
<<al trasporto di rifiuti urbani
effettuato dal soggetto che gestisce il servizio
pubblico né ai trasporti di rifiuti non pericolosi
effettuati dal produttore dei rifiuti stessi, in modo
occasionale e saltuario, che non eccedano la quantità di
trenta chilogrammi o di trenta litri>>
4.3.1 Le spedizioni
transfrontaliere di rifiuti
Il Reg. CE n° 1013/2006 disciplina
le spedizioni transfrontaliere di rifiuti, siano esse
intracomunitarie piuttosto che in uscita o in entrata
dall’Unione Europea.
L’art. 12 del Regolamento,
rubricato “Obiezioni alle spedizioni di rifiuti
destinati al recupero”, consente agli Stati Membri di
dissentire all’esportazione di rifiuti verso Paesi la
cui normativa sul trattamento sia giudicata meno
restrittiva della propria, potendo sollevare delle
obiezioni che siano fondate su uno dei seguenti motivi:
a) la spedizione o il recupero
previsto non è conforme alla direttiva 2006/12/CE e, in
particolare, agli articoli 3, 4, 7 e 10 della
stessa[33]; o
b) la spedizione o il recupero
previsto non è conforme alla legislazione nazionale
relativa alla protezione dell'ambiente, all'ordine
pubblico, alla sicurezza pubblica o alla tutela della
salute pubblica per quanto riguarda le azioni nel paese
che solleva obiezioni; o
c) la spedizione o il recupero
previsto non è conforme alla legislazione nazionale del
paese di spedizione relativa al recupero dei rifiuti,
anche quando la spedizione prevista riguarda rifiuti
destinati al recupero in un impianto avente norme di
trattamento meno severe, per tali particolari rifiuti,
rispetto a quelle stabilite nel paese di spedizione,
tenendo conto dell'esigenza di assicurare il corretto
funzionamento del mercato interno;
Ai motivi riportati seguono
eccezioni di varia natura.
L’aspetto che qui maggiormente
interessa riguarda tuttavia alcuni problemi che, ad una
prima analisi, traggono potenzialmente origine dalla
disposizione:
— restrittività, rigidità e
flessibilità della norma sono anzitutto concetti che non
si prestano ad una definizione univoca: ciò implica un
potenziale rischio di abuso, in grado di sfociare in
controversie o procedimenti giudiziari tra Stati;
— l’art. 12 potrebbe inoltre
promuovere un atteggiamento protezionistico da parte di
Stati che adottano una legislazione sui rifiuti (ancora
prevalentemente) nazionale e quindi verosimilmente non
in linea con i canoni europei, solitamente più
restrittivi. Tali Stati potrebbero decidere di chiudere
le proprie frontiere, permettendo così al concetto di
“restrittività” per il trattamento di incidere sulle
attività economiche dell’UE ben al di là della mera
gestione dei rifiuti.
4.3.2 Il traffico illecito
di rifiuti
All’interno della normativa trova
spazio un reato che punisce qualunque attività
finalizzata alla realizzazione di un traffico illecito
di rifiuti.
L’art. 259 T.u. prevede fino a due
anni di reclusione congiuntamente ad un’ammenda da 1.550
a 26.000€ per le spedizioni di rifiuti costituenti
traffico illecito ai sensi dell’art. 26 del Reg. CEE 1°
febbraio 1993, n. 259[34], ossia in assenza di
notifica/documento di accompagnamento/consenso delle
autorità o comunque in violazione delle norme
comunitarie o internazionali.
Ai sensi dell’art. 260 T.u., viene
invece comminata la pena dell’arresto da uno a sei anni
a chi
<<al fine di conseguire un ingiusto
profitto, con più operazioni e attraverso l'allestimento
di mezzi e attività continuative organizzate, cede,
riceve, trasporta, esporta, importa, o comunque gestisce
abusivamente ingenti quantitativi di rifiuti>>.
Dalla formulazione del dettato è
possibile evincere che l’elemento soggettivo in grado di
configurare il reato è il dolo specifico, essendo
richiesta da parte dell’autore un’intenzione
specificamente rivolta a conseguire un ingiusto
profitto, attraverso un’attività appositamente
organizzata.
La norma appare in sostanza ben
calibrata, mostrando di coniugare alla severità della
pena la certezza del dolo, come inoltre confermato
dall’avverbio “abusivamente” che presume la piena
consapevolezza dell’illecito da parte dell’individuo.
5. Il trattamento dei rifiuti
La fase di trattamento dei rifiuti
si apre al termine dei processi di raccolta e
differenziazione.
L’art. 3 punto 14 della Direttiva
fornisce una definizione di trattamento chiara e
concisa. Con esso s’identificano:
<<[tutte le] operazioni di recupero
o smaltimento, inclusa la preparazione prima del
recupero o dello smaltimento>>.
Quest’ultima specificazione è
dovuta al fatto che spesso, a causa della raccolta
multimateriale o di una differenziazione iniziale di per
sé non ottimale, si rende necessaria un’ulteriore
cernita dei materiali raccolti ai fini di un loro
trattamento specifico.
5.1 Il recupero
L’art. 10 Direttiva assegna agli
Stati Membri il compito di adottare le <<misure
necessarie>> per garantire il funzionamento del
recupero, migliorandone possibilmente l’efficienza
attraverso la raccolta separata dei rifiuti.
Sulla stessa lunghezza d’onda, il
sistema di priorità creato con la gerarchia europea dei
rifiuti[35] impone di privilegiare (tra le operazioni di
trattamento) il recupero ai massimi livelli ed in ogni
sua forma – riutilizzo, riciclaggio, recupero di
energia… etc. – avviando allo smaltimento esclusivamente
ciò che non si presta in alcun modo ad essere
recuperato.
L’orientamento comunitario sembra
essere stato pienamente recepito dal D.lgs 152/2006 che,
all’art. 181, impone alle autorità di favorire la
riduzione dello smaltimento attraverso:
a) il riutilizzo, il riciclo o le
altre forme di recupero;
b) l'adozione di misure economiche
e la determinazione di condizioni di appalto che
prevedano l'impiego dei materiali recuperati dai rifiuti
al fine di favorire il mercato dei materiali medesimi;
c) l'utilizzazione dei rifiuti
come combustibile o come altro mezzo per produrre
energia.
In base alla definizione data dalla
Direttiva[36], con recupero s’intende:
<<qualsiasi operazione il cui
risultato sia di permettere ai rifiuti di svolgere un
ruolo utile sostituendo altri materiali che sarebbero
stati altrimenti utilizzati per assolvere una
particolare funzione o di prepararli ad assolvere tale
funzione […]>>
Recuperare significa quindi far
rientrare il rifiuto nel circuito produttivo a seguito
di un trattamento riqualificante, che consente cioè di
riattribuirgli un valore positivo: riprendendo l’esempio
iniziale[37], il recupero di una bottiglia di vetro
usata potrà consistere nei trattamenti di
sterilizzazione, fusione e rimodellamento del materiale,
il quale potrà essere in seguito reintegrato all’interno
della filiera produttiva.
A titolo esemplificativo e
dichiaratamente senza pretese di esaustività, l’Allegato
II alla Direttiva elenca svariate tipologie di materiali
– metalli, solventi, oli, acidi… etc. – potenzialmente
oggetto di operazioni di recupero, riciclaggio o
rigenerazione.
È altresì opportuno notare che
tutte queste attività di recupero, parimenti a quanto
avviene nel ciclo produttivo, generano degli scarti che
dovranno poi essere smaltiti a loro volta come
rifiuti[38].
Pertanto, la frazione di materiale
ottenuta in un primo tempo con la differenziazione
corrisponde per così dire ad un recupero “lordo”,
essendo quantitativamente superiore al recupero
effettivo, cioè al netto del residuo da smaltire.
In sintesi il recupero:
I. non avviene a costo
zero.
a) In primo luogo vanno prese
in considerazione le operazioni di trattamento
necessarie alla riqualificazione del rifiuto. Si noti
che il loro costo risulterà inversamente proporzionale
alla “purezza” e all’omogeneità del materiale.
b) In secondo luogo, vanno
annotate le spese di trasporto del materiale (ad es.
dagli stabilimenti del recupero a quelli delle
successive lavorazioni).
c) Infine, si devono
conteggiare i costi stessi delle lavorazioni che
avvengono in seguito alla reimmissione del rifiuto
recuperato all’interno della filiera produttiva.
Al termine dell’intero processo un
nuovo prodotto potrà così fare il proprio ingresso nel
mercato.
II. è fonte di un pur
significativo impatto ambientale, a causa dei residui
delle attività di trattamento.
Tuttavia, è talora possibile un
riutilizzo dei residui grazie al c.d. downcycling, ossia
la conversione di materiali di scarto o inutilizzati in
prodotti di qualità inferiore o aventi una funzionalità
ridotta.
Tali prodotti, presentando un
valore di mercato più basso, sono destinati ad avere una
“bassa visibilità” al pubblico, in quanto sottratti al
consumo quotidiano. Sono infatti per lo più impiegati
come materiali per il riempimento o l’insonorizzazione
in campo edile, piuttosto che per bonifiche ambientali.
L’attività di downcycling consente
così di limitare lo spreco di risorse primarie e
scongiurare fenomeni di inquinamento.
5.1.1 Le cifre del
recupero
Nel 2008, a livello nazionale sono
state trattate 3,4 tonnellate di materiale così
composto: 43,2% frazione organica selezionata, 35%
verde, 14,4% fanghi. Rispetto al 2007 si è registrato un
incremento pari al 6,6% nel trattamento di materiale
selezionato.
La maggior parte degli impianti di
compostaggio è localizzata al nord (65,2%), seguita
rispettivamente dal 16,6% del Centro e dal 18,3% del
Sud. Conseguentemente, si rilevano valori percentuali
molto diversi a seconda dell’area geografica
considerata: nonostante l’incremento dei rifiuti avviati
a compostaggio sia proporzionalmente maggiore al Sud,
qui viene trattato solamente il 14% del totale
nazionale, a fronte del 15% al Centro e del 71% al Nord.
Le differenze purtroppo riguardano
anche la percentuale di sfruttamento degli impianti
esistenti: l’utilizzo degli impianti al Nord sfiora il
90% della loro potenzialità, mentre al Centro la
percentuale scende al 36% e al Sud addirittura al 26%
della capacità impiantistica complessiva.
L’andamento attuale mostra comunque
una curva positiva in relazione alle regioni
centro-meridionali, segno di un incremento esponenziale
della quantità di rifiuti trattata in quest’area.
Per il futuro si auspica quindi il
raggiungimento di un maggiore equilibrio a livello
nazionale.
5.2 Lo smaltimento
Se il recupero rappresenta il
percorso ideale del rifiuto, permettendone la
reintegrazione all’interno del circuito produttivo,
l’alternativa che spesso s’impone è quella dello
smaltimento nelle forme di distruzione o confinamento.
Tali forme corrispondono nella pratica rispettivamente
alle operazioni di incenerimento e deposito in discarica
e permettono di disfarsi di ogni materiale che, per
ragioni tecniche o economiche, non può (più) essere
riciclato.
L’art. 3 punto 19) Direttiva
definisce lo smaltimento come:
<<qualsiasi operazione diversa dal
recupero anche quando l’operazione ha come conseguenza
secondaria il recupero di sostanze ed energia>>
A dispetto della premura della
Direttiva nel tracciare il confine tra recupero e
smaltimento, alcune semplici riflessioni sui casi di
downcycling[39] richiamati (recupero di sostanze ed
energia) sembrano sufficienti a sfumare la linea di
demarcazione tra i due concetti:
— l’energia elettrica o
termica che viene ad es. prodotta con la combustione dei
rifiuti consente di risparmiare l’impiego di risorse
primarie maggiormente inquinanti, come il carbone. Si
potrà quindi certamente parlare a tal proposito di
recupero.
— Nel contempo però
l’attività in questione produce, seppur in misura
ridotta, materiali di scarto quali fumi o scorie,
similmente a quanto avviene con lo smaltimento;
— anche i materiali
riutilizzati ad es. per bonifiche ambientali o
riempimento permettono di evitare uno spreco di risorse,
cosa che invita a classificare le operazioni relative
come attività di recupero. A ben vedere però, tali
materiali subiscono un interramento che non è poi tanto
diverso dal deposito in discarica, procurando in fin dei
conti lo stesso tipo di pregiudizio all’ambiente.
Tuttavia, è importante sottolineare
che la distinzione tra recupero e smaltimento gioca un
ruolo fondamentale a livello legislativo, specialmente
in seguito al sistema di priorità creato con la
gerarchia europea dei rifiuti, che impone di
massimizzare il recupero e ridurre lo smaltimento.
L’art. 12 Direttiva, nel richiamare
l’art. 10, ribadisce agli Stati Membri che la priorità
dev’essere accordata al recupero ogniqualvolta possibile
e li obbliga in caso contrario a garantire la sicurezza
delle operazioni di smaltimento, a protezione della
salute umana e dell’ambiente (art. 13).
L’Allegato I, infine, fa da guida
agli Stati Membri offrendo un elenco di alcune delle
operazioni di smaltimento consentite, tra cui:
— il deposito nel suolo, sul
suolo o tramite iniezione in profondità;
— il trattamento biologico e
fisico-chimico;
— l’incenerimento a terra e
in mare.
Il legislatore italiano ha
trasposto la disciplina comunitaria sullo smaltimento
nell’art. 182 T.u., che similmente promuove:
— la sicurezza delle
operazioni per la salute e l’ambiente;
— la riduzione delle
quantità di rifiuti avviate a smaltimento;
— l’utilizzo delle migliori
tecnologie disponibili;
— la valutazione costante
del rapporto costi-benefici.
5.2.1 La distruzione
Come già accennato, la distruzione
rappresenta una forma di smaltimento che consiste
nell’incenerimento dei rifiuti, disciplinato a livello
nazionale dal D.lgs 11 maggio 2005, n° 133 che, a sua
volta, recepisce la Direttiva comunitaria 2000/76/CE.
Quest’ultima[40]:
I. stabilisce le misure volte a
ridurre – e possibilmente prevenire – gli effetti
negativi dell’incenerimento sulla salute e sull’ambiente
e, a tale scopo,
II. fornisce delle
definizioni guida agli Stati Membri, tra cui quella di
“impianto di incenerimento”, inteso come:
<<qualsiasi unità e attrezzatura
fissa o mobile destinata al trattamento termico dei
rifiuti [o mediante ossidazione o plasma] con o senza
recupero del calore prodotto con la combustione>>.
La funzione principale degli
“impianti di co-incenerimento” è invece quella di
produrre energia o altri materiali per mezzo della
combustione dei rifiuti.
III. Un terzo
fondamentale intervento della Direttiva in questione
consiste nel definire, per gli impianti di
(co)incenerimento, i valori limite di emissione
nell’atmosfera, riportati in dettaglio nell’Allegato V.
Inoltre, vengono stabiliti i metodi
di campionamento, analisi e valutazione degli
inquinanti; sono infine elencate le condizioni di
esercizio degli impianti, nonché le loro caratteristiche
costruttive e funzionali.
Le ragioni dell’incenerimento
Oggigiorno, la ragione di un
ricorso così massiccio all’incenerimento (specialmente
in Paesi come la Germania e la Svizzera) va ricercata
nel progressivo mutamento alla base delle abitudini
consumistiche ed alimentari della nostra società[41]:
l’acquisto sempre più frequente di cibi pronti ha
comportato un impiego significativo di imballaggi di
carta e plastica, provocando l’aumento delle componenti
combustibili all’interno dei rifiuti urbani. Nel
contempo, il consumo sempre più sporadico di cibi
freschi spiega la progressiva diminuzione della frazione
putrescibile, agevolando in tal modo l’incenerimento.
Attualmente è perciò più effettivo
ed efficace bruciare gli scarti piuttosto che
interrarli, andando per lo meno a privilegiare la
tecnica di smaltimento di minore impatto: per quanto la
combustione causi infatti emissioni inquinanti
nell’atmosfera, essa consente di ridurre notevolmente il
volume dei rifiuti e allo stesso tempo di recuperare
energia, provocando così un impatto ambientale
nettamente inferiore rispetto al deposito in discarica.
Vi sono peraltro più modi di
procedere ad incenerimento: i rifiuti possono infatti
essere sottoposti direttamente a trattamento termico,
piuttosto che a seguito di un’ulteriore fase di
selezione, volta a ricavare combustibili di qualità
superiore:
I. nel primo caso si sceglie
semplicemente di bruciare il materiale residuo della
raccolta differenziata, affidando la buona riuscita
dell’operazione interamente all’accuratezza della
separazione iniziale dei rifiuti. Tale scelta può essere
giustificata in quanto risultante da un rapporto
qualità-prezzo abbastanza vantaggioso; si avvalgono per
lo più di questa tecnica la Lombardia tra le regioni
italiane e soprattutto Germania e Svizzera tra gli Stati
europei.
II. La seconda strada
percorribile conduce certamente ad un risultato
qualitativamente superiore, a fronte però di costi molto
più elevati. L’ulteriore selezione consente di pervenire
essenzialmente a tre flussi di rifiuti distinti:
un’ulteriore frazione umida –
da trasformarsi poi in materiale organico inerte;
il Cdr (combustibile derivante
da rifiuti) – tramite eventuali lavorazioni successive
di tale materiale è possibile ottenere il Cdr-q, la cui
“qualità” si traduce in un coefficiente di
combustibilità sufficientemente alto da poter sostituire
il carbone (1 kg di Cdr-q per 600 g di carbone);
scarti.
Attualmente, data l’ampia
disponibilità di tecniche di pretrattamento,
l’attenzione maggiore è concentrata tuttavia su
quest’ultimo, che consente di ottenere una
differenziazione qualitativamente superiore in un primo
momento, evitando di dover procedere a costose
lavorazioni in seguito (gli impianti di selezione
vengono infatti per lo più impiegati a livello di
pretrattamento).
5.2.2 Il confinamento
La seconda e meno preferibile forma
di smaltimento è rappresentata dal confinamento dei
rifiuti tramite il loro deposito in discarica, la cui
regolamentazione è tuttora affidata alla Direttiva
comunitaria 1999/31/CE. Essa definisce la discarica come
segue:
<<un’area di smaltimento dei
rifiuti adibita al deposito degli stessi sulla o nella
terra (vale a dire nel sottosuolo), compres[e le zone in
cui i rifiuti vengono generati e interrati e le aree in
cui i rifiuti sostano per più di un anno.
Non rientrano invece nella
definizione]
— gli impianti in cui i
rifiuti sono scaricati al fine di essere preparati per
il successivo trasporto in un impianto di recupero,
trattamento o smaltimento, e
— i depositi di rifiuti in
attesa di recupero o trattamento per un periodo
inferiore a tre anni come norma generale, o
— i depositi di rifiuti in
attesa di smaltimento per un periodo inferiore ad un
anno.>>
Obiettivo generale della Direttiva
in esame è di
<<ridurre il più possibile le
ripercussioni negative sull’ambiente, in particolare
l’inquinamento delle acque superficiali [e sotterranee],
del suolo e dell’atmosfera, […] nonché i rischi per la
salute umana risultanti dalle discariche di rifiuti,
durante [il loro] intero ciclo di vita […]>>,
attraverso l’introduzione di
stringenti requisiti tecnici, aventi ad oggetto sia le
caratteristiche delle aree di deposito, sia i rifiuti
stessi.
L’art. 4 classifica le discariche
in tre categorie, a seconda del tipo di materiale
depositabile:
— per rifiuti
pericolosi[42];
— per rifiuti non
pericolosi;
— per rifiuti inerti, ossia
“che non subiscono alcuna trasformazione fisica, chimica
o biologica significativa”[43].
Il terzo comma dell’art. 5 elenca
le tipologie di rifiuti che non sono in via generale
ammesse all’interno di una discarica:
a) rifiuti liquidi;
b) rifiuti che, nelle
condizioni esistenti in discarica, sono esplosivi,
corrosivi, ossidanti, altamente infiammabili […];
c) rifiuti provenienti da
cliniche, ospedali o istituti veterinari, qualora siano
infettivi […];
d) gomme usate dopo due
anni[44].
Ai sensi dell’art. 6, sempre in via
generale, possono essere introdotti in discarica
solamente rifiuti previamente trattati. L’articolo
sancisce inoltre che, mentre i rifiuti urbani possono
essere accolti nelle discariche per rifiuti non
pericolosi, all’interno delle discariche per rifiuti
inerti trovano posto esclusivamente rifiuti inerti.
Al fine di poter conferire i
rifiuti in discarica sono previsti degli adempimenti a
carico del detentore: egli deve esibire anticipatamente
l’autorizzazione necessaria al conferimento, nonché una
documentazione atta a dimostrare l’ammissibilità dei
propri rifiuti in discarica, in base ai criteri
dell’Allegato II[45]. Quest’ultimo prevede infatti che,
prima di un eventuale conferimento, debbano essere
necessariamente compiute delle valutazioni in merito
alla composizione dei materiali in entrata, alla loro
biodegradabilità e alla potenziale pericolosità di
eventuali sostanze presenti al loro interno.
Inoltre, è stata stilata una
gerarchia tra le “Procedure generali per la verifica e
l’ammissione dei rifiuti”[46]:
I. in primo luogo si rende
necessario osservare il comportamento del “colaticcio”
nel breve e lungo periodo;
II. segue una fase di controllo
sulla conformità dei rifiuti a condizioni inerenti
all’autorizzazione e ad altri eventuali criteri
specifici;
III. infine viene verificata in
loco la corrispondenza tra i rifiuti conferiti e quelli
oggetto di controllo, tenendo come riferimento i dati
riportati nella documentazione relativa.
A sua volta, il gestore
dell’impianto è tenuto a:
— controllare la
documentazione del detentore;
— ispezionare il carico dei
rifiuti in entrata e verificarne la conformità;
— iscrivere quantità e
qualità dei rifiuti conferiti in un apposito
registro[47].
Il prezzo pagato dal
detentore/gestore per il deposito di qualunque tipo di
rifiuti dev’essere tale da garantire la copertura totale
dei costi di gestione della discarica[48].
I problemi del conferimento in
discarica
La forte disincentivazione operata
dal diritto comunitario contro il deposito in discarica
si è resa necessaria soprattutto a causa di costi di
smaltimento tutto sommato ancora contenuti, nonostante i
continui rialzi a partire dall’inizio degli anni ’90. La
Direttiva 2008/98/CE ha perciò provveduto a trasformare
questa forma di smaltimento in un’“ultima spiaggia”,
relegandola in fondo alla gerarchia dei rifiuti.
Tuttavia, sebbene si tenda
oggigiorno a demonizzare le tecniche di confinamento in
quanto caratterizzate da un elevato potenziale
inquinante, è pur vero che l’idea di discarica quale
luogo di abbandono incontrollato rappresenta ormai un
retaggio del passato.
Oggi le discariche sono infatti
gestite in maniera efficiente e controllata, al fine di
scongiurare la contaminazione delle falde acquifere
sottostanti e ridurre al massimo l’impatto ambientale
complessivo.
Il problema maggiore è causato
dall’interramento dei rifiuti per lunghi periodi: ciò
facilita la decomposizione del materiale organico
presente, da cui si generano gas e liquidi che inquinano
l’atmosfera e il suolo.
Sono state quindi adottate delle
precauzioni volte a limitare le esternalità negative del
deposito in discarica:
I. la rinuncia alle comodità di
uno scarico pratico e rapido dei rifiuti ha consentito
la realizzazione di discariche in aree quanto più
possibile distanti dai centri abitati, allontanando così
il rischio di contaminazione del suolo;
II. sempre a fini di sicurezza,
viene inoltre ordinariamente effettuata
l’impermeabilizzazione del fondo della discarica – si
tratta di un’operazione utile a ridurre sensibilmente il
rischio di contatto dei rifiuti con l’acqua piovana che,
a lungo andare, innesca un pericoloso processo di
liquefazione da cui si genera il c.d. “percolato”.
A dispetto delle cautele descritte,
un livello sufficientemente elevato di sicurezza può
essere in realtà raggiunto soltanto con un severo
controllo preventivo al conferimento dei rifiuti, che
permetta di evitare l’ingresso di liquidi e materiale
organico nella discarica.
5.2.3 L’effetto “Lock-in”
Oggi, il mondo del lavoro e ancor
più il settore dell’intrattenimento sono interessati da
una presenza sempre più significativa della tecnologia,
a partire da quella informatica.
Complice la rapidità delle
comunicazioni, l’innovazione subisce un accelerazione
esponenziale che consente di toccare con mano un numero
di tecnologie sempre più ampio, in un intervallo sempre
più ridotto.
Un andamento di questo tipo può
rendere talora difficile scegliere a quale tecnologia
affidarsi ed in quale momento, nella continua attesa che
un prodotto più all’avanguardia si affacci sul mercato.
A ben vedere però, un tale
atteggiamento è destinato a rivelarsi controproducente e
per certi versi addirittura pericoloso.
In materia di rifiuti, sono diverse
le soluzioni tecnologiche quotidianamente in
competizione per migliorare il funzionamento degli
impianti di trattamento: la dissociazione molecolare e
la pirolisi-gassificazione sono soltanto alcuni esempi
delle applicazioni correntemente disponibili sul mercato
finalizzate all’ottenimento di combustibili più puliti
ed efficienti.
Come quasi sempre accade, il
problema dominante è di ordine economico: la scelta di
adottare un sistema di smaltimento piuttosto che un
altro implica la necessità di investire ingenti somme di
denaro che dovranno poi essere ammortizzate grazie ad un
risultato finale promettente. Si consideri inoltre che,
dovendo affrontare in un primo tempo costi fissi elevati
per l’implementazione della nuova tecnologia, non si
sarà verosimilmente disposti a mobilitare dell’altro
capitale in un futuro prossimo.
Tuttavia, in un mondo in cui
l’offerta tecnologica diventa sempre più sterminata, che
direzione è consigliabile prendere? Può essere infatti
arduo decidere in favore di una soluzione o un’altra
quando si è già a conoscenza di nuove tecnologie in
arrivo sul mercato, potenzialmente in grado di colmare
le lacune di quelle precedenti.
Anche in questo frangente viene
dunque spontaneo chiedersi: conviene lasciare la strada
vecchia per la nuova attendendo di investire in sistemi
più sofisticati e costosi, oppure è più saggio sfruttare
una tecnologia tradizionale e meno dispendiosa,
accontentandosi del risultato?
L’effetto “Lock-in” descrive
proprio questo dilemma tra vecchio e nuovo, tra impulso
ed attesa. In altre parole, tale concetto esprime il
timore di rimanere intrappolati nella scelta di una
tecnologia qualitativamente inferiore rispetto a quanto
il mercato già offre od offrirà a breve.
A volte aspettare può rivelarsi
vitale, specialmente in periodi di indecisione del
mercato; altre volte può essere al contrario deleterio,
qualora la novità si riveli magari una bufala
amplificata dai media.
In conclusione, è sicuramente
opportuno che le amministrazioni si mostrino flessibili
al cambiamento, restando al passo coi tempi; d’altro
canto, è altrettanto bene guardarsi dall’eccessivo
dubitare ed effettuare la scelta più ponderata per il
periodo, se non si vuole assistere nel frattempo al
declino del sistema rifiuti.
6. I costi per la gestione dei
rifiuti urbani: la composizione della tariffa
Il primo comma dell’art. 238 T.u.
descrive la tariffa come
<<[…] il corrispettivo per lo
svolgimento del servizio di raccolta, recupero e
smaltimento dei rifiuti solidi urbani […]>>,
che dev’essere versato al comune di
appartenenza in base al possesso di qualsiasi locale o
area in cui si producano rifiuti.
L’ammontare della tariffa è
<<commisurato alle quantità e
qualità medie ordinarie di rifiuti prodotti per unità di
superficie, in relazione agli usi e alla tipologia di
attività svolte […]>>[49].
La tariffa viene determinata dalle
Autorità d’Ambito e dev’essere tale da garantire la
copertura integrale dei costi di esercizio ed
investimento sostenuti dall’affidatario della gestione,
cui vengono demandate l’applicazione e la riscossione
della quota. Quest’ultima deve pertanto riflettere la
qualità del servizio fornito, lo stanziamento di
capitali per la costruzione di opere, nonché i relativi
ammortamenti[50].
La quantità dei rifiuti conferiti
da ciascun utente incide in realtà solo in via residuale
sulla quota finale, per lo più rappresentata da costi
fissi.
Degno di nota è l’apporto dato alla
disposizione dal comma settimo, ai sensi del quale i
costi non vanno per forza spalmati in maniera uniforme,
potendo bensì essere previste delle
<<agevolazioni per le utenze
domestiche e per quelle adibite ad uso stagionale o non
continuativo […] che tengano anche conto di indici
reddituali articolati per fasce di utenza e
territoriali>>.
E’ infine possibile che nella
tariffa vengano fatti rientrare anche costi accessori,
quali ad es. le spese per lo spazzamento delle
strade[51].
Se negli anni ’80 i costi da
coprire erano quasi totalmente riconducibili alla
raccolta, oggi quest’ultima rappresenta appena un terzo
di quello che paghiamo. Lo stesso vale per le operazioni
di trattamento e smaltimento, le cui spese incidono per
il 27% sul totale.
La gestione dei rifiuti costa ad
ogni italiano 90€ l’anno: si tratta tuttavia di una
media costruita a partire da valori regionali molto
diversi, compresi tra i 60€ del Trentino e i ben 110€
riscossi annualmente in Toscana.
I costi della raccolta
differenziata rappresentano soltanto l’11% della spesa
complessiva e sono sostenuti per ¾ dall’utenza, mentre
la parte rimanente viene finanziata da consorzi – ad es.
il Conai – grazie al riciclo dei materiali restituiti.
Un problema tuttora attuale è
quello relativo al finanziamento delle spese di gestione
come da normativa. Alcune municipalità del Meridione non
riscuotono infatti una somma sufficiente ad assicurare
la copertura integrale dei costi: se a livello nazionale
la collettività sostiene in media il 90% del costo
totale, con punte che raggiungono il 97% in Friuli, in
Puglia si registrano picchi di copertura pari al 70%.
7. Obblighi, divieti e
sanzioni
7.1 L’obbligo di
autorizzazione
Coloro che intendono realizzare
nuovi impianti di trattamento dei rifiuti o che
subentrano nella gestione di impianti già esistenti
devono munirsi di un’autorizzazione unica rilasciata
dalla Regione[52] competente su presentazione di una
domanda che contenga:
— il progetto definitivo
dell’impianto;
— una documentazione tecnica
che rispetti la normativa in ambito urbanistico,
ambientale ed igienico-sanitario;
— (se del caso) la
comunicazione alle autorità competenti per la
sottoposizione dell’impianto a Valutazione di Impatto
Ambientale.
Il procedimento finalizzato al
rilascio dell’autorizzazione si conclude entro cinque
mesi dalla presentazione della domanda[53]; in caso di
esito positivo l’autorizzazione ha una validità di dieci
anni ed è rinnovabile[54]. Nel rispetto delle finalità
di cui all’art. 178, detta autorizzazione contiene
almeno i seguenti elementi[55]:
a) i tipi ed i quantitativi di
rifiuti da smaltire o da recuperare;
b) i requisiti tecnici con
particolare riferimento alla compatibilità del sito,
alle attrezzature utilizzate, ai tipi ed ai quantitativi
massimi di rifiuti ed alla confor-mità dell'impianto al
progetto approvato;
c) le precauzioni da prendere in
materia di sicurezza ed igiene ambientale;
d) la localizzazione dell'impianto
da autorizzare;
e) il metodo di trattamento e di
recupero;
f) le prescrizioni per le
operazioni di messa in sicurezza, chiusura
dell'im-pianto e ripristino del sito;
g) le garanzie finanziarie
richieste, che devono essere prestate solo al momento
dell'avvio effettivo dell'esercizio dell'impianto; a tal
fine, le garanzie finanziarie per la gestione della
discarica, anche per la fase successiva alla sua
chiusura, dovranno essere prestate conformemente a
quanto disposto dall'articolo 14 del decreto legislativo
13 gennaio 2003, n° 36;
h) la data di scadenza
dell'autorizzazione, in conformità con quanto previsto
al comma 12;
i) i limiti di emissione in
atmosfera per i processi di trattamento termico dei
rifiuti, anche accompagnati da recupero energetico.
L’inosservanza delle prescrizioni
viene punita proporzionalmente alla gravità
dell’infrazione[56] tramite una diffida semplice o
sommata alla sospensione temporanea dell’autorizzazione,
fino ad arrivare alla revoca di quest’ultima.
7.1.1 L’ iscrizione
all’Albo Nazionale dei Gestori Ambientali
L’art. 212, 1° comma, istituisce
l’Albo Nazionale dei Gestori Ambientali, con sede presso
il Ministero dell’Ambiente e composto da un Comitato
Nazionale accanto a svariate Sezioni Regionali e
Provinciali.
Ai sensi del quinto comma
dell’articolo citato, è richiesta l’iscrizione all’Albo
per lo svolgimento di:
— attività di raccolta e
trasporto di rifiuti pericolosi (oltre i 30 kg/l al
giorno) e non pericolosi (a meno che non si tratti di
rifiuti propri);
— bonifica dei siti e di
beni contenenti amianto;
— commercio ed
intermediazione dei rifiuti senza detenzione dei rifiuti
stessi;
— gestione di impianti di
smaltimento e di recupero di titolarità di terzi.
Il sesto comma prevede inoltre il
rinnovo obbligatorio dell’iscrizione ogni cinque anni.
Seguono alcuni degli elementi che,
nella comunicazione finalizzata all’atto di iscrizione,
l’interessato attesta sotto la propria
responsabilità[57]:
a) la sede dell'impresa,
l'attività o le attività dai quali sono prodotti i
rifiuti;
b) le caratteristiche, la natura
dei rifiuti prodotti;
c) gli estremi identificativi e
l'idoneità tecnica dei mezzi utilizzati per il trasporto
dei rifiuti, tenuto anche conto delle modalità di
effettuazione del trasporto medesimo.
7.2 La responsabilità del
detentore di rifiuti
L’art. 188 T.u. postula in capo a
produttori/detentori l’onere di consegnare i propri
rifiuti al raccoglitore autorizzato o a chi provvederà
al loro smaltimento.
Il secondo comma dell’articolo
prevede inoltre che l’assolvimento degli obblighi debba
avvenire secondo il seguente ordine di priorità:
a) autosmaltimento dei rifiuti;
b) conferimento dei rifiuti a
terzi autorizzati ai sensi delle disposizioni vigenti;
c) conferimento dei rifiuti ai
soggetti che gestiscono il servizio pubblico di raccolta
dei rifiuti urbani, con i quali sia stata stipulata
apposita convenzione;
d) utilizzazione del trasporto
ferroviario di rifiuti pericolosi per distanze superiori
a trecentocinquanta chilometri e quantità eccedenti le
venticinque tonnellate;
e) esportazione dei rifiuti con le
modalità previste dall'articolo 194.
Dalla lett. b) si evince che il
detentore/produttore è investito anche di un onere di
controllo in merito alla regolarità della consegna dei
rifiuti ed alla loro successiva destinazione.
Tra le “disposizioni vigenti”,
infatti, l’art. 193[58] stabilisce l’obbligo del
trasportatore di compilare scrupolosamente il formulario
di identificazione e rilasciarne copia entro tre mesi al
detentore, al quale spetta pertanto una verifica
incrociata sul percorso effettuato dai rifiuti.
Il mancato ricevimento della copia
obbliga il detentore a darne comunicazione alla
Provincia.
La Cassazione Penale, Sez. III,
nella Sent. n° 18038 dell’11 maggio 2007 ha giudicato
colpevoli trasportatore e committente (detentore) di
“concorso del reato di gestione di rifiuti in assenza di
autorizzazione”, richiamando l’art. 256 T.u.; se ne
ricava, pertanto, l’obbligo del detentore di controllare
il possesso dell’autorizzazione necessaria da parte
dello smaltitore, del trasportatore o di chi comunque
prende in carico i rifiuti consegnati.
La responsabilità del detentore si
estende anche all’effettiva corrispondenza dei rifiuti
consegnati al relativo codice CER, che deve risultare
compreso nell’autorizzazione del trasportatore.
7.3 Il divieto di
abbandono, deposito incontrollato ed immissione
L’art. 192 T.u. impone un triplice
divieto di:
— abbandono di rifiuti sul
suolo e nel suolo – con ciò si designa un evento
occasionale di deposito di materiale, solitamente di
provenienza domestica, in aree di uso pubblico;
— deposito incontrollato di
rifiuti – si tratta di un’ipotesi di violazione più
rilevante dell’abbandono in quanto connotata da una
sistematicità dell’azione, che causa nel tempo un
accumulo di materiale nel medesimo sito;
— <<immissione di rifiuti di
qualsiasi genere, allo stato solido o liquido, nelle
acque superficiali e sotterranee>>[59].
In caso di generale inosservanza
dei divieti, si applica la sanzione pecuniaria di cui
all’art. 255 T.u..
Tuttavia, qualora il soggetto
responsabile sia titolare di un’impresa o a capo di un
ente, il reato viene perseguito ai sensi dell’art. 256,
2° comma:
a) con la pena dell'arresto da tre
mesi a un anno o con l'ammenda da duemilaseicento euro a
ventiseimila euro se si tratta di rifiuti non
pericolosi;
b) con la pena dell'arresto
da sei mesi a due anni e con l'ammenda da
duemilaseicento euro a ventiseimila euro se si tratta di
rifiuti pericolosi.
7.3.1. Rimozione e
ripristino dei luoghi
Il terzo comma dell’art. 192
sancisce inoltre l’obbligo di rimuovere i rifiuti
depositati avviandoli a recupero o smaltimento e di
ripristinare lo stato del luogo, eventualmente in solido
con il proprietario giudicato colpevole.
Al fine di comminare la sanzione
ripristinatoria, è previsto che le autorità verifichino
in contraddittorio l’imputabilità dei soggetti
interessati, al seguito degli accertamenti del caso.
Gli adempimenti di ripristino
devono essere assolti entro il termine indicato
dall’ordinanza emanata dal sindaco, pena l’esecuzione in
danno dei soggetti obbligati con recupero delle somme
anticipate.
PARTE SECONDA – I sistemi regionali
VI. Produzione e raccolta dei
rifiuti urbani nelle regioni italiane
Nel 2008, la produzione più elevata
di rifiuti urbani è stata registrata in Toscana, con ben
686 kg/ab. l’anno, seguita in ordine decrescente ma con
valori prossimi da Emilia Romagna, Umbria, Liguria e
Valle d’Aosta (quest’ultima con 606 kg/ab.); per contro,
il valore di produzione più basso corrisponde ai soli
386 kg della Basilicata.
La maggior parte delle restanti
regioni mostra valori inferiori ai 500 kg/ab. l’anno; al
Nord, dove pure è maggiore il consumo di prodotti
industriali, restano sotto la soglia indicata Veneto,
Trentino-Alto Adige e Friuli Venezia Giulia.
È bene osservare che i dati di
produzione riportati sono intesi in senso assoluto e
perciò non tengono conto dei flussi turistici
stagionali, in grado talora di incidere pesantemente sui
valori medi annuali. Inoltre è opportuno segnalare che,
nonostante alcuni valori siano ancora piuttosto alti, in
ogni regione si registra un calo di produzione diffuso
rispetto al 2006.
L’andamento regionale trova un
riscontro piuttosto fedele nei valori rilevati a livello
provinciale: 68 province su 107 riportano meno di 550 kg
di rifiuti per abitante. Per contro, le città toscane
assieme ad alcune province dell’Emilia si caratterizzano
per valori che superano i 650 kg pro capite.
Il record di produzione spetta
tuttavia alle province di Olbia-Tempio e Rimini, con
valori annuali che sfiorano i nove quintali di rifiuti
urbani per abitante: a tal proposito, si tengano
comunque presenti le osservazioni di cui sopra.
Con oltre il 50% di raccolta
differenziata, Trentino-Alto Adige e Veneto si collocano
ai primi posti in Italia, potendo verosimilmente
raggiungere il target del 60% previsto per il 2011;
seguono Piemonte e Lombardia con valori superiori al
45%. Il divario aumenta procedendo verso le regioni
centro-meridionali, i cui valori scendono talora sotto
il 20%; tuttavia proprio in quest’area si registrano
generalmente le percentuali di incremento più elevate di
raccolta differenziata[60].
VII. Nord e Sud: tre sistemi
regionali a confronto
1. Un modello per la raccolta
differenziata: il Veneto
Il Veneto produce oltre 2 milioni
di tonnellate di rifiuti urbani l’anno.
Tale cifra è stata raggiunta in
seguito ad un incremento della produzione nell’ultimo
decennio, riconducibile da un lato al costante aumento
dei consumi, dall’altro al diverso sistema di conteggio
degli assimilati.
Per mezzo della L.R. n° 3/2000
intitolata “Nuove norme in materia di gestione dei
rifiuti”, la Regione Veneto ha recepito la normativa
nazionale effettuandone peraltro – contestualmente
all’adeguamento legislativo – un riordino complessivo al
fine di ricavarne sinteticamente i propri compiti.
Alla Regione spetta dunque
disciplinare[61]:
a) l’esercizio delle funzioni
regionali in materia di organizzazione e gestione dei
rifiuti anche mediante la delega alle province di
specifiche attribuzioni;
b) le procedure per l’adozione e
l’aggiornamento dei piani di gestione dei rifiuti;
c) le procedure per l’approvazione
dei progetti di impianti di recupero e di smaltimento
dei rifiuti;
d) le procedure per il rilascio ed
il rinnovo delle autorizzazioni all’esercizio delle
operazioni di smaltimento e recupero dei rifiuti.
La normativa nazionale racchiude a
sua volta i principi comunitari attorno ai quali si
sviluppa l’orientamento politico europeo in materia.
Sulla scia del nuovo assetto di
priorità costituito in base ad essi[62], sono state
approntate dalla Regione delle strategie rivolte a
conseguire obiettivi di:
– prevenzione dei rifiuti e
riduzione della loro pericolosità;
– massimizzazione del
recupero e del riutilizzo dei materiali;
– incentivazione del recupero
energetico tramite combustione dei rifiuti;
– efficientamento,
autosufficienza e riduzione dell’impatto ambientale
delle tecniche di smaltimento a livello regionale;
– riduzione delle discariche
e del conferimento di rifiuti in discarica fino al-l’
“azzeramento”;
– coinvolgimento degli enti
locali nell’adozione e nell’aggiornamento dei Piani
regionali di gestione.
Dette strategie rappresentano
quindi lo strumento concreto con cui raggiungere gli
obiettivi prefissati. In base ad esse, per quanto
concerne i rifiuti urbani, i Comuni si devono attrezzare
per dar vita ad un articolato sistema di raccolte
differenziate relative a[63]:
– frazione umida (distinta in
verde + frazione organica putrescibile);
– frazione secca
recuperabile;
– parte solida rimanente – la
cui differenziazione è in primo luogo rimessa al
cittadino, poi effettuata meccanicamente a seguito della
raccolta, per agevolare il trattamento all’interno
dell’impianto.
Qualora all’interno del comune di
appartenenza non sia ancora stato raggiunto il 35% di
raccolta differenziata, l’art. 2, 3° comma obbliga gli
utenti a cominciare la raccolta separata della frazione
organica putrescibile a partire dal 01 gennaio 2003.
L’ultimo comma dello stesso articolo prevede
l’effettuazione di verifiche da parte dell’Osservatorio
regionale sui rifiuti finalizzate a constatare il
raggiungimento della soglia minima di differenziazione.
Spetta alle Autorità d’Ambito
infine stabilire
<<gli obiettivi di raccolta
differenziata di ogni singolo comune al fine del
raggiungimento per l’intero ambito delle percentuali
previste all’articolo 2>>[64].
1.1 I piani provinciali di
gestione dei rifiuti urbani
In relazione alla gestione dei
rifiuti, ogni ATO corrisponde al territorio
provinciale[65]; invece, per quanto concerne le
operazioni di incenerimento e recupero di energia[66],
esso coincide con l’intera regione. La Provincia detiene
inoltre la facoltà di tracciare confini ancora diversi
attraverso il piano provinciale[67], potendo costituire
ATO di livello sub-provinciale[68], qualora ciò risponda
ad esigenze territoriali od organizzative.
Le Province sono incaricate di
redigere[69] ed adottare[70] i piani provinciali di
gestione dei rifiuti urbani in relazione al proprio
territorio, provvedendo inoltre a:
— individuare le iniziative
di prevenzione più idonee;
— promuovere il recupero
attraverso una gestione oculata degli impianti
esistenti;
— regolare i rapporti tra
l’Autorità d’Ambito e gli affidatari della ge-stione;
— selezionare le aree più
adatte ad ospitare impianti e discariche.
Il piano dev’essere infine
approvato dal Consiglio regionale[71].
1.2 Il piano regionale
L’art. 10 della L.R. n° 3/2000
disciplina il “Piano regionale di gestione dei rifiuti
urbani”; il primo comma stabilisce che esso debba:
a) promuovere la riduzione della
quantità, dei volumi e della pericolosità dei rifiuti;
b) individuare le iniziative
dirette a limitare la quantità dei rifiuti e a favorire
il riutilizzo, il riciclaggio e il recupero dei rifiuti,
nonché le iniziative dirette a favorire il recupero di
materie dai rifiuti;
c) dettare i criteri per
l’individuazione, da parte delle province, delle aree
non idonee alla localizzazione degli impianti di
smaltimento dei rifiuti, nonché per l’individuazione dei
luoghi e impianti adatti allo smaltimento;
d) stabilire le condizioni e i
criteri tecnici in base ai quali gli impianti per la
ge-stione dei rifiuti, ad eccezione delle discariche,
possono essere localizzati in aree destinate ad
insediamenti produttivi;
e) definire le misure atte ad
assicurare la regionalizzazione della raccolta, della
cernita e dello smaltimento dei rifiuti urbani;
f) stabilire la tipologia ed il
complesso degli impianti per la gestione dei rifiuti
urbani da realizzare nella Regione tenendo conto
dell’obiettivo di assicurare la gestione dei rifiuti
urbani all’interno degli ambiti territoriali ottimali
nonché dell’offerta di smaltimento e di recupero da
parte del sistema produttivo;
g) stabilire la tipologia e la
quantità degli impianti per l’incenerimento, con
recupero energetico, dei rifiuti urbani e per
l’utilizzazione principale degli stessi come
combustibile o altro mezzo per produrre energia, da
realizzare nella Regione, tenendo conto che in tal caso
l’ambito territoriale ottimale per la gestione di tali
rifiuti è l’intero territorio regionale;
h) stimare i costi delle
operazioni di recupero e di smaltimento.
Ai sensi del secondo comma, il
piano si compone necessariamente di:
— una relazione sullo stato
di attuazione delle previsioni;
— una serie di criteri per
la prevenzione e lo smaltimento
dei rifiuti urbani
il recupero, anche di tipo
energetico
la gestione della raccolta
la localizzazione degli
impianti.
In ossequio all’art. 10 della L.R.,
l’art. 2 del piano regionale del Veneto, prevede quali
obiettivi:
— l’adozione di misure di
prevenzione e riduzione della pericolosità dei rifiuti
urbani;
— l’individuazione di
criteri per la definizione della tipologia e quantità
degli impianti, nonché la loro localizzazione;
— il raggiungimento
dell’autosufficienza di ogni ATO.
Il piano, approvato alla fine del
2004, è suddiviso in sei Elaborati (A-F) che integrano
gli elementi obbligatori di cui sopra[72].
L’Elaborato A rivela uno stato di
attuazione delle previsioni già piuttosto avanzato al
momento della stesura del piano, come emerge dal
confronto con le difficoltà di raccolta riscontrate
qualche anno prima, quasi tutte positivamente superate –
secondo l’analisi riportata, ad ostacolare la
differenziata in un primo momento aveva contribuito
l’insuccesso nel promuovere soluzioni inizialmente
considerate “troppo innovative”. Un ruolo altrettanto
importante è stato giocato dalla scarsa presenza di
impianti di recupero funzionanti.
I progressi fatti sono quindi
parzialmente riconducibili all’avvio di diversi impianti
sul territorio, cosa che ha consentito di velocizzare i
processi di trattamento. Va tuttavia segnalata, in
qualità di fattore determinante, la costituzione di
consorzi di filiera affiliati al CONAI, che ha agevolato
la separazione a valle dei materiali, permettendo di
conseguire un notevole incremento della percentuale di
raccolta differenziata a livello regionale (nel 2008
prossima al 53%). I principali consorzi creati sono:
— CO.RE.VE per il vetro
— CO.RE.PLA per la plastica
— CO.MIECO per la carta
— RILEGNO per il legno
— CIAL per l’alluminio
— CNA per l’acciaio
Tra le sette province venete sono
in realtà soltanto tre quelle la cui forza trainante ha
consentito di superare il 50% di differenziata: Treviso,
Padova e Vicenza; le altre città hanno per lo più
cercato di imitare il trend positivo, con valori
comunque prossimi al 30%.
È tuttora atteso un certo
incremento nelle percentuali mostrate da diversi Comuni
sparsi sul territorio che, nel frattempo, si sono
attrezzati per operare un miglioramento delle tecniche
gestionali e di raccolta, adottando per esempio il
metodo del “porta a porta”[73].
Negli ultimi tempi, il Veneto ha
inoltre rivolto grande attenzione alle tecniche di
recupero della frazione organica, realizzando nuovi
impianti di compostaggio ed apportando significative
migliorie a quelli già esistenti. Ciò ha consentito di
ottenere un incremento del 20% nella raccolta separata
dell’umido rispetto alla frazione secca, aumentando così
nel contempo la combustibilità di quest’ultima.
Infine, si stanno valutando quasi
ovunque le misure più idonee ad assicurare nel più breve
tempo possibile l’autosufficienza di smaltimento a
livello di ATO: si registra già, rispetto agli anni
passati, una sensibile diminuzione del fenomeno di
conferimento dei rifiuti urbani in territori
extra-provinciali.
Per quanto riguarda il recupero di
materia, due sono le priorità:
— l’ottimizzazione della
quota di raccolta di secco e umido;
— l’avvio al recupero
energetico della frazione residua.
L’Elaborato C individua i Criteri
per la riduzione della produzione di rifiuti, partendo
dal presupposto che, per quanto il risultato finale
dipenda concretamente dalla sommatoria degli stili di
vita personali dei cittadini, è comunque possibile
adottare degli “atteggiamenti ecologicamente
responsabili”, in grado di incidere sui quantitativi
prodotti. Viene quindi stilato un elenco generale degli
strumenti ritenuti maggiormente funzionali a tale scopo:
I. Campagne informative,
formative ed educative – la scelta di educare soggetti
giovani ad uno stile di vita ambientalmente compatibile
si prefigura come l’alternativa ideale alla repressione
di comportamenti scorretti in età adulta. A tal fine è
opportuno incentivare concorsi, incontri, visite guidate
e seminari che coinvolgano attivamente insegnanti ed
alunni delle scuole elementari e medie (campagne
educative).
Viene inoltre promossa ogni forma
organizzata di divulgazione della conoscenza che si
mostri atta a sensibilizzare le varie componenti del
tessuto sociale (campagne formative) o che punti ad
informare più specificamente la cittadinanza in merito
ad obiettivi, risorse e piani d’azione che vedono
coinvolte le amministrazioni locali (campagne
informative).
II. Incentivazione del
compostaggio domestico – è fondamentale che la
cittadinanza separi ciascuna frazione in maniera
consapevole, prestando soprattutto attenzione al binomio
secco/umido. La qualità della differenziazione domestica
“a monte” decreta infatti il successo delle operazioni
di raccolta e trattamento “a valle”.
III. Riduzione della
produzione dei rifiuti negli uffici – principalmente
attraverso un utilizzo accorto e proficuo della carta,
in un’ottica di massimo riciclo.
È inoltre importante che ogni
contesto lavorativo abbia a disposizione prodotti di
cancelleria ricaricabili, nonché macchinari (es.
fotocopiatori) che limitino gli sprechi.
IV. Indizione di concorsi
a premio – ossia il riconoscimento di una ricompensa
all’utente che si sia distinto in base ad un
comportamento positivo attivo negli ambiti di
prevenzione, recupero o smaltimento.
V. Promozione ed
incentivazione del non utilizzo di stoviglie monouso – a
tale scopo si rende necessaria la stipulazione di
accordi specifici tra le autorità amministrative,
favorendo la partecipazione di associazioni
ambientaliste e di consumatori, nonché di ogni altro
ente che possa svolgere un ruolo di rilievo. L’obiettivo
finale è quello di impartire direttive specifiche ai
soggetti più frequentemente coinvolti
nell’organizzazione di eventi e manifestazioni in cui,
per ragioni di igiene, si fa abbondante ricorso a
prodotti in plastica.
2. La Lombardia: terra degli
inceneritori
Nel considerare il rilevante
patrimonio di imprenditorialità che caratterizza la
Lombardia, nel cui territorio si registra infatti la più
elevata concentrazione di grande e media impresa a
livello nazionale, non stupisce che la regione occupi il
primo posto anche nella produzione di rifiuti. In base
alle rilevazioni del 2004, quasi la metà della
produzione regionale di rifiuti è attribuibile all’area
milanese, seguita dal 13,9% di Brescia e provincia.
Cremona e Sondrio, complice la bassa densità
demografica, occupano invece gli ultimi posti.
Nello stesso periodo, la produzione
totale si attesta oltre i 4 milioni e mezzo di
tonnellate di rifiuti l’anno (500 kg/ab.), con una
proiezione al 2011 di 5.800.000 e quindi più di 600 kg
pro capite.
La raccolta delle principali
frazioni avviene in maniera pressoché uniforme in tutto
il territorio regionale: la modalità più diffusa per
l’indifferenziato e l’organico è il “porta a porta”
(rispettivamente 54% e 88%), seguito dall’utilizzo dei
cassonetti stradali. La quasi totalità dei Comuni
predilige invece questi ultimi per raccogliere il vetro,
mostrando una preferenza in tal senso anche per carta e
plastica (48% e 73%)[74].
Nonostante il primato nella
produzione di rifiuti, la Regione ha compiuto notevoli
sforzi volti a coniugare lo sviluppo economico con
esigenze di tutela ambientale sempre più stringenti, che
hanno costretto le imprese ad adottare nel tempo un
orientamento ambientalmente compatibile: sulla scia del
principio comunitario di “responsabilità estesa del
produttore” è stata ad esempio incentivata la produzione
di beni a lunga durata; inoltre, oggi la Lombardia
investe più consapevolmente nella sostenibilità dello
sfruttamento delle risorse e nelle nuove tecnologie.
L’obiettivo comune è quello di
creare una “industria dell’ambiente” in grado di:
– provocare il minor impatto
ambientale possibile;
– sviluppare il mercato delle
materie recuperate;
– autoalimentarsi grazie
all’energia ricavata dai rifiuti.
Dal censimento del 2003, dei 46
impianti di smaltimento presenti sul territorio
nazionale ben 12 risultavano collocati in Lombardia.
All’epoca prese il via anche la costruzione di impianti
di termovalorizzazione ad alta tecnologia e furono
apportati i necessari ammodernamenti agli impianti già
esistenti, riuscendo così ad ottenere quantità crescenti
di Cdr. L’innalzamento del potenziale di incenerimento
arrivò sempre più a scoraggiare il conferimento in
discarica, che oggi è il più basso d’Italia (3% della
produzione regionale).
Specialmente a partire dal luglio
2005, con l’entrata in vigore del divieto di
conferimento in discarica dei rifiuti con potere
calorifico[75], la Lombardia si è confermata quale
eccellenza nella termovalorizzazione, arrivando a
trattare la metà dell’indifferenziato incenerito in
Italia (la sola Milano concorre per oltre il 20%
all’intera potenzialità della regione): l’energia
ricavata dalla combustione della frazione secca va così
ad integrare il fabbisogno energetico nazionale, con
l’auspicio di ridurre in futuro le importazioni di
energia dall’estero. Oltre a fornire energia elettrica
alle aree industriali, gli impianti di Cdr sono
attualmente sfruttati anche per la produzione di calore
finalizzata al teleriscaldamento. Questa ingegnosa
seconda funzione presenta peraltro l’inconveniente di
dover collocare gli impianti in zone limitrofe ai centri
abitati, frequente motivo di attrito sociale.
Grazie al progresso tecnologico è
stato inoltre possibile adottare speciali filtri che
garantiscono una profonda depurazione dei fumi di
scarico.
Sul territorio lombardo vi è una
significativa presenza anche di altri tipi di impianto:
nel 2004 erano ben 56 ad esempio quelli di compostaggio,
in grado di trattare quantità molto maggiori di quelle
ricevute, le quali già allora si mostravano in lieve ma
costante diminuzione, segno di un buon funzionamento
della differenziazione a monte.
Si registrano infine forme di
gestione diverse a seconda della tipologia di impianto:
mentre la selezione e il compostaggio sono per lo più
affidate ai privati, la gestione pubblica predomina nel
caso della termovalorizzazione.
2.1 La Legge Regionale n°
26/2003
Con la L.R. n° 26/2003, la
Lombardia ha definito un quadro normativo unitario che
controlla l’intero sistema dei servizi pubblici ed
impronta la gestione dei rifiuti su standard qualitativi
e di efficienza al passo con l’evoluzione in materia.
L’orizzonte temporale considerato dalla normativa è
piuttosto ampio (2004-2011): il lungimirante studio
condotto per la realizzazione del Piano pare essersi
rivelato efficace, data la sola presenza di qualche
aggiornamento durante l’intero periodo. Nell’arco di un
biennio si renderà tuttavia verosimilmente necessaria
una revisione di maggiore portata per la fissazione di
nuovi obiettivi.
La legge citata risulta chiaramente
ispirata dai principi comunitari e si incardina sui
seguenti punti chiave:
— la presenza di incentivi e
penalizzazioni finalizzate a garantire il raggiungimento
di standard minimi obbligatori;
— continuità, accessibilità,
economicità e qualità del servizio erogato;
— evidenza pubblica delle
procedure di affidamento del servizio a terzi;
— promozione di campagne
d’informazione.
A questi punti si sommano gli
obiettivi politici di:
— realizzazione di un parco
impiantistico in linea con la forte industrializzazione
dell’area;
— riduzione della produzione
di rifiuti e sviluppo del recupero – in base al Piano
ciascuna Provincia è chiamata entro quest’anno a
recuperare complessivamente il 60% in peso dei rifiuti
prodotti e dei residui di termovalorizzazione;
— minimizzazione del
conferimento in discarica.
Successivamente all’entrata in
vigore della legge regionale è stata effettuata la
scelta di decentrare l’attuazione della normativa a
livello provinciale. L’autonomia così ottenuta ha
stimolato le Province ad operare in maniera sempre più
divergente le une dalle altre, provocando una
frammentazione delle politiche di gestione; tale
situazione ha costretto la Regione ad assumere un ruolo
di coordinamento e raccordo tra i Piani provinciali, al
fine di recuperare la necessaria unitarietà della
pianificazione sul territorio.
Nel 2009 sono state fissate le
“Linee guida per la revisione dei piani provinciali di
gestione dei rifiuti urbani e speciali e per la
localizzazione degli impianti”, con conseguente
sostituzione del Capitolo 8 del Piano originario: pur
nel rispetto sostanziale dei principi ispiratori del
D.lgs 152/2006, la Regione Lombardia, attraverso la L.R.
n° 26/2003, sceglie formalmente di avvalersi di un
modello organizzativo alternativo a quello fondato su
Ambiti Territoriali Ottimali ed Autorità d’Ambito. Per
converso, in ossequio al Testo Unico, la Regione
mantiene funzioni di indirizzo e coordinamento nei
confronti della programmazione provinciale, che si
sviluppa secondo logiche di autosufficienza territoriale
in relazione a smaltimento e recupero.
2.1.1. Il Fondo regionale
per l’energia
L’art. 24/3 della L.R. 26/2003 ha
dato vita al Fondo per lo sviluppo di azioni in campo
ambientale ed energetico: si tratta di uno strumento di
grande efficacia, che svolge un ruolo centrale
nell’utilizzo delle fonti rinnovabili e nella
termovalorizzazione della frazione organica dei rifiuti.
Esso è volto alla promozione di iniziative il cui costo
di investimento possa essere ripagato, oltre che da
nuove produzioni energetiche, anche dal “costo evitato”
di altre forme di smaltimento. Il Fondo provvede quindi
a monitorare costantemente l’offerta di energia e lo
stato degli accordi energetico-ambientali, impegnandosi
nel contempo a sviluppare nuove forme di finanziamento
delle fonti rinnovabili.
2.2 Gli indicatori di
qualità del sistema rifiuti
Allo scopo di valutare in maniera
oggettiva la qualità del sistema di gestione dei
rifiuti, sono state approntate delle categorie di
indicatori che rilevano il livello di funzionalità del
servizio anche in base al grado di soddisfazione
dell’utenza (customer satisfaction). Si tratta di uno
strumento di indubbia originalità, che denota un elevato
potenziale organizzativo.
Esso si struttura come segue:
gli indicatori di efficacia
hanno ad oggetto la quantità e la tipologia di raccolta,
il rapporto tra la popolazione e il numero di addetti al
servizio;
gli indicatori di efficienza
riportano la frequenza del servizio, la produttività
degli operatori e la distanza delle attrezzature
dall’utenza;
gli indicatori di economicità
conteggiano i costi di raccolta, trasporto e
smaltimento;
gli indicatori di soddisfazione
sondano l’opinione dell’utenza ed informano sulla
risposta della popolazione alla raccolta differenziata.
3. Una Sicilia tra autonomia e
contraddizioni
3.1 Dall’emergenza rifiuti
al Piano di gestione del 2002
Dopo anni di inerzia e
malfunzionamenti, nel gennaio del 1999 veniva dichiarato
lo stato di emergenza in merito alla gestione dei
rifiuti nella regione Sicilia, i cui poteri furono
affidati cinque mesi più tardi ad un Commissario
speciale: questi fu incaricato di stilare immediatamente
un Piano di emergenza, cui sarebbe seguita la stesura
del Piano regionale di gestione dei rifiuti.
Due anni più tardi il territorio
regionale veniva suddiviso in 25 ATO, per consentire
l’avvio di una gestione locale basata ancora
principalmente sulla differenziazione di secco e umido;
in concomitanza con l’adozione del Piano di gestione
alla fine del 2002, a capo degli ATO furono poste 25
Società d’Ambito, cui se ne aggiunsero in seguito altre
due per soddisfare le esigenze di alcune zone insulari.
Il Piano era stato redatto in tre
fasi:
— la prima fu interamente
dedicata alla raccolta e all’analisi di dati, al fine di
studiare la situazione relativa a ciascun territorio.
— In secondo luogo, mediante
l’ausilio di mappe tematiche prese il via un’analisi
comparata delle diverse realtà riscontrate.
— Infine, si poté procedere
alle operazioni di coordinamento e programmazione, che
ottennero successivamente la piena approvazione della
Commissione Europea.
Il Piano varato fissava le
percentuali minime di raccolta differenziata per il
biennio successivo (15% entro il 2003 e 25% entro la
fine del 2005). Tuttavia, tali obiettivi non furono mai
raggiunti e i dati raccolti qualche anno dopo lasciarono
verosimilmente intuire che molte delle indicazioni
contenute nel Piano erano state trascurate: la quantità
di raccolta differenziata registrata nel 2007 era
infatti pari ad appena il 6,6%. Inoltre la capacità di
molte discariche appariva in via di esaurimento e si
registrava una forte carenza di impianti di trattamento
e pretrattamento.
A dispetto di un trend così
negativo, va peraltro segnalata la corretta applicazione
delle previsioni del Piano da parte di alcuni Comuni
isolati, dove furono rilevate percentuali di
differenziazione prossime a quelle delle aree di
“eccellenza” nel resto del Paese. Tali episodi servirono
a testimoniare le ottime possibilità di efficientamento
del sistema di raccolta anche nel territorio siciliano.
Accanto agli ordinari aggiornamenti
tecnici, si cominciò pertanto a riflettere
sull’opportunità di operare una revisione massiccia del
Piano, nell’intento di obbligare in maniera più
stringente gli Enti attuatori a rispettarne le
linee-guida.
3.2 Gli aggiornamenti
tecnici e la revisione del Piano di gestione
Nel 2004 si rese necessario un
primo intervento di aggiornamento sul Piano, al fine di
adeguarlo ai cambiamenti di maggior rilievo, tra cui:
— il Programma di riduzione
dei rifiuti urbani biodegradabili in discarica;
— il D.lgs 36/2003 che
recepiva la normativa comunitaria in tema di discariche;
— la localizzazione degli
impianti di termovalorizzazione.
A distanza di due anni il Piano fu
integrato con i nuovi obiettivi di raccolta
differenziata e prevenzione.
Nel biennio 2008/2009 si dovette
nuovamente intervenire per modificare le percentuali
minime di differenziata ed operare una riduzione degli
ATO esistenti ai sensi della L.R. 2/07.
Si presentò così l’occasione adatta
per effettuare il rinnovo generale pensato qualche anno
prima: su proposta del Presidente della Regione,
nell’ottobre 2009 venne nominata una Commissione
incaricata di elaborare un articolato progetto di
revisione, dal quale traspariva il bisogno di dare vita
ad un sistema di raccolta suscettibile di controllo
costante. Al fine di evitare l’ennesimo divario tra
forma e sostanza (cioè tra prescrizione e adempimento),
si decise dunque di seguire l’implementazione del
progetto passo per passo, attraverso:
— l’individuazione delle
aree su cui intervenire per innalzare i livelli di
raccolta differenziata;
— un’attività informativa
constante a favore degli Enti Locali sulle iniziative
adottate;
— l’individuazione dei
materiali residui non recuperabili e loro
classificazione.
Il sistema ideato si componeva di
una serie di misure specifiche, pensate per incrementare
i livelli regionali di prevenzione e recupero, ad
esempio:
— l’adozione del metodo di
raccolta “porta a porta”. La raccolta domiciliare
integrata venne da ultimo riconosciuta quale unico
sistema in grado di assicurare il raggiungimento degli
obiettivi della differenziata (originariamente il Piano
non includeva previsioni specifiche a riguardo e si
limitava ad insistere sulla separazione della frazione
umida dal secco);
— l’utilizzo di strumenti
economici volti ad incentivare l’assunzione di
comportamenti ambientalmente compatibili da parte delle
imprese (eco-fiscalità);
— il varo di progetti per la
promozione dei beni di lunga durata e per il recupero
dei materiali usati;
— l’incentivazione alla
vendita di prodotti sfusi (es. la distribuzione di
liquidi per mezzo di dispenser);
— l’istituzione di eco
piazze.
Il progetto di revisione predispone
inoltre delle specifiche azioni di prevenzione tra le
quali vanno citate, in ordine di priorità:
— la promozione del
compostaggio domestico;
— l’adozione di regolamenti
per assicurare la gestione sostenibile di sagre,
manifestazioni ed eventi collettivi (limitando il più
possibile l’utilizzo di prodotti di plastica “usa e
getta”);
— la stipulazione di accordi
con la grande distribuzione per l’uso di prodotti di
cancelleria ricaricabili (a partire dagli enti
pubblici);
— il riutilizzo di prodotti
igienici e sanitari onde evitare sprechi di materiale
primario (in particolare è ormai noto l’elevato
potenziale inquinante dei pannolini, che potrebbero
essere reinventati come prodotto lavabile e di lunga
durata).
3.3 La Legge
Regionale 8 aprile 2010, n° 9
Negli ultimi mesi la disciplina
della gestione integrata dei rifiuti è stata affidata
alla L.R. 8 aprile 2010, n° 9, naturalmente all’unisono
con il Testo Unico del 2006, la normativa comunitaria in
materia e le rispettive integrazioni. Tra le finalità
della legge di cui al primo comma dell’art. 1 meritano
di essere segnalate, accanto a quelle già più volte
ribadite:
— la responsabilizzazione
del comparto produttivo, al fine di immettere sul
mercato prodotti dai quali si generino meno scarti;
— il coinvolgimento della
cittadinanza attraverso attività di informazione mirata,
con particolare attenzione alle scuole;
— la previsione di
premialità economiche pubbliche e private, che
ricompensino enti, imprese e cittadini virtuosi.
L’art. 5 della nuova legge, in
risposta alle esigenze di efficacia, efficienza ed
economicità[76], prevede che la gestione integrata dei
rifiuti debba avvalersi della presenza di dieci Ambiti
Territoriali Ottimali, di cui nove per le comunità
principali e il restante al servizio delle isole minori.
L’adeguatezza della nuova delimitazione territoriale
potrà essere in un secondo momento valutata in relazione
al Piano di gestione dei rifiuti. Il primo e
fondamentale compito spettante a quest’ultimo è quello
di:
<< defini[re] le modalità per il
raggiungimento degli obiettivi di raccolta differenziata
e di recupero di materia, al netto degli scarti dei
processi di riciclaggio, per ognuno degli ambiti
territoriali ottimali, attraverso l'elaborazione di un
documento di indirizzo denominato "Linee-guida operative
sulla raccolta differenziata" in grado di supportare e
guidare gli enti attuatori nella progettazione di
dettaglio ed ottimizzazione dei sistemi di raccolta
differenziata, privilegiando la raccolta domiciliare
integrata, per il raggiungimento dei livelli minimi così
fissati:
1) anno 2010: Rd. 20 per cento,
recupero di materia 15 per cento;
2) anno 2012: Rd. 40 per cento,
recupero materia 30 per cento;
3) anno 2015: Rd. 65 per cento,
recupero materia 50 per cento>>[77].
Ai sensi dell’art. 11, la Regione è
invitata a sostenere il programma ope-rativo del Fondo
europeo per lo sviluppo regionale (FESR 2007-2013)
attraverso attività di prevenzione e riduzione della
pericolosità dei rifiuti, promosse da efficaci campagne
informative e di sensibilizzazione; sempre nell’ottica
di ridurre gli scarti ed evitare lo spreco di materie
prime, la Regione è tenuta ad incentivare la diffusione
degli acquisti verdi.
Infine, la nuova legge obbliga la
Sicilia a predisporre delle azioni volte a favorire un
incremento percentuale di raccolta differenziata e
recupero.
L’attenzione è concentrata
soprattutto sulla Pubblica Amministrazione, da cui deve
partire l’esempio di una gestione dei consumi efficiente
e rispettosa dell’ambiente: a tal fine, trovano
applicazione a livello regionale le misure di cui al
“Piano nazionale di azione per la sostenibilità
ambientale dei consumi nel settore della P.A.”[78]; gli
enti pubblici devono inoltre essere in grado di
soddisfare almeno il 30% del proprio fabbisogno annuale
di beni grazie al riutilizzo e al riciclo dei materiali
adoperati[79].
VIII. Conclusioni
1. In sintesi
In queste pagine ho cercato di
ripercorrere le fasi principali in cui si articola la
materia dei rifiuti in Italia e in Europa. Ne è emerso
un sistema complesso e plurisfaccettato, il cui
funzionamento necessita imprescindibilmente della
cooperazione di una molteplicità di settori e categorie
professionali, chiamate a perseguire obiettivi comuni ed
operare in costante sinergia tra loro.
La dimensione europea che vede
protagonisti l’Italia e gli altri Stati Membri
indubbiamente agevola l’unitarietà delle politiche
ambientali, mediante la fissazione di criteri e linee
guida comuni; tuttavia, le attività di gestione dei
rifiuti risultano ancora in buona parte governate da
leggi statali, che non sempre si rivelano in grado di
garantire l’efficienza dei sistemi di raccolta, recupero
e smaltimento.
Nonostante la mobilitazione di
molte amministrazioni regionali e locali nel tentativo
di raggiungere celermente gli obiettivi comunitari,
l’Italia si mostra ancora interessata da una forte
disomogeneità sul proprio territorio, facendo registrare
a livello regionale un sensibile divario tra le
percentuali di differenziazione e recupero: la ragione
di ciò va spesso ricondotta ad una gestione frammentaria
del servizio rifiuti e ad uno sfruttamento poco
sostenibile delle risorse locali.
2. Prevenzione e riciclaggio
Partendo dal presupposto che il
nostro stile di vita attuale si sta rivelando sempre più
insostenibile e deleterio per il nostro pianeta, si
rende più che mai necessaria un’autentica svolta, in
parte fortunatamente già in atto.
All’antropocentrismo che ha
dominato negli ultimi decenni deve sostituirsi
inequivocabilmente un’attenzione incondizionata a favore
dell’ambiente, specificamente incentrata sull’analisi
dell’impatto causato dalle nostre attività.
Il primo concetto chiave è quello
della prevenzione, ossia una riduzione della produzione
dei rifiuti opportunamente pianificata dalle
amministrazioni di ogni livello. Lungi dal voler
congelare le filiere produttive e bloccare così lo
sviluppo economico, le misure di prevenzione impongono,
a partire dal livello comunitario, una serie di
modificazioni comportamentali a carico soprattutto dei
soggetti “a monte”:
ü innanzitutto, il produttore è
invitato a “risparmiare” sull’imballaggio dei beni,
evitando così di immettere sul mercato grandi quantità
di materiale destinate a trasformarsi in rifiuto in un
tempo brevissimo;
ü in secondo luogo, al
produttore viene chiesto di operare un’estensione del
ciclo di vita dei propri beni, assicurandone una più
lunga permanenza sul mercato e presso il consumatore,
facilitandone infine lo smaltimento da parte di
quest’ultimo;
ü infine, dev’essere limitato
l’utilizzo di sostanze pericolose in materiali e
prodotti, allo scopo di ridurre quanto più possibile un
impatto negativo sulla salute umana e sull’ambiente.
Non è tuttavia pensabile poter
ridurre oltre una certa misura l’ingente quantità di
rifiuti prodotta da una società come quella odierna,
fondata su un consumismo per lo più “usa e getta”. È
pertanto indispensabile intervenire anche in altro modo,
ossia attribuendo un nuovo valore al rifiuto. Grazie al
riciclaggio, i materiali di rifiuto vengono ritrattati
per ottenere sostanze o prodotti che preservano le
proprie funzioni originarie o ne assumono di nuove.
In associazione con il principio di
prevenzione, il riciclo consente di abbattere buona
parte degli impatti negativi sull’ambiente, allo stesso
tempo rendendo il mercato più efficiente ed accorto.
È evidente che, allo stadio
attuale, sono già state ampiamente delineate le
direttive lungo le quali muoversi; è pertanto
fondamentale che l’intera comunità continui a seguire,
senza interruzioni, la rotta tracciata.
Uno strumento di incentivazione al
riciclo rivelatosi estremamente efficace e per questo
diffuso in molti Paesi dell’UE è quello del deposito
cauzionale: sull’acquisto di un qualsiasi prodotto
racchiuso in un contenitore di vetro o plastica viene
applicato un sovrapprezzo che sarà poi recuperato dal
consumatore nel momento della restituzione del “vuoto”.
In centro e nord Europa questa strategia viene adottata
sia nella grande distribuzione sia al dettaglio, nonché
in buona parte della ristorazione. Pare senz’altro
lecito domandarsi perché l’Italia non sia interessata a
questo strumento.
3. Smaltimento e recupero di
energia
Neppure la combinazione di
prevenzione e riciclaggio è di per sé in grado di
assicurare il raggiungimento degli obiettivi comunitari
prefissati. In altre parole, nel medio e forse lungo
termine, vi saranno sempre dei rifiuti da smaltire. Di
conseguenza, conviene eliminare del tutto il
conferimento di rifiuti in discarica e trarre ogni
vantaggio possibile dalla loro combustione.
A partire da un’accurata
differenziazione dei rifiuti a livello domestico,
unitamente ad un sapiente trattamento “a valle”, è
possibile separare in massima parte la frazione umida da
quella secca: la combustione di quest’ultima in impianti
appositi consente di ottenere prodotti quali Cdr e
Cdr-q, in grado di sostituirsi a combustibili fossili
molto più inquinanti. In sostanza, è possibile
recuperare grandi quantità di energia, da sfruttare
sotto forma di elettricità o di calore.
Ed è proprio la produzione di
calore a partire dalle biomasse, dagli scarti
dell’agricoltura e dai rifiuti urbani, a rappresentare
verosimilmente la principale fonte di energia
rinnovabile del futuro. Questo in realtà a dispetto di
altre blasonate fonti energetiche, quali quella
idraulica, eolica e fotovoltaica che, sebbene capaci di
apportare un contributo significativo al raggiungimento
degli obiettivi comunitari, non si profilano tuttavia
quali settori determinanti (Furfari 2010).
Nell’ambito della
termovalorizzazione, tra le regioni italiane la
Lombardia ha il merito di aver intrapreso il giusto
cammino da tempo: l’auspicio è che possa fungere da
esempio per le molte realtà limitrofe che, ancora oggi,
non sembrano pronte a raccogliere la sfida di creare un
mondo più pulito.
4. Dall’informazione
ambientale all’Educazione Ambientale
La legge richiama sempre più spesso
l’attenzione della Pubblica Amministrazione e di un gran
numero di istituzioni sul tema ambiente, chiedendo di
sviluppare campagne di formazione e sensibilizzazione
ambientale a favore delle comunità ed insistendo
sull’opportunità di rivolgersi ai giovani in maniera
diretta.
In materia ambientale e in
particolare nell’ambito dei rifiuti, i primi destinatari
di ogni apparato normativo sono, da una parte, le
amministrazioni incaricate di far funzionare con
successo il sistema e garantire una gestione efficiente
dei servizi, dall’altra i soggetti che operano alla base
del mercato, in particolare i responsabili delle filiere
produttive. Il problema è che, per una semplice
questione di proporzioni, a fare la vera differenza è il
comportamento del cittadino, che può ed anzi deve
affidarsi alla guida delle istituzioni, ma è a sua volta
tenuto ad assumere una condotta in linea con gli
obiettivi di salvaguardia. Il singolo ha pertanto il
diritto e il dovere di essere informato sul proprio
“ruolo ambientale”, per contribuire così al
raggiungimento dei livelli di differenziazione e
recupero prefissati.
L’organizzazione di campagne
informative rappresenta senz’altro una tappa
fondamentale per lo sviluppo di un’interazione tra le
istituzioni e il cittadino e, a tal fine, è essenziale
studiare tecniche di comunicazione che facilitino il
recepimento dei concetti primari da parte di ciascuna
fascia di popolazione.
L’opinione di chi scrive è che
tutto ciò non sia sufficiente. Pur non dubitando della
qualità e dell’effettività delle singole azioni
informative, con l’avanzare del tempo queste si vedranno
esposte, in maniera crescente, ad un rischio di
frammentazione e dispersione che ne decreterà il
fallimento.
Per continuare un domani la corsa
verso la salvaguardia dell’ambiente e della salute umana
è indispensabile assicurare la corretta formazione
ambientale delle generazioni future a partire da oggi. A
tale scopo, bisogna a mio avviso puntare su uno
strumento che sia frutto di uno sforzo congiunto e si
mostri solido e durevole nel tempo: l’introduzione
dell’Educazione Ambientale come materia scolastica nella
scuola primaria consentirebbe di gettare le basi per un
corretto comportamento ambientale fin dall’infanzia ed
introdurre una sapiente “gestione personale dei rifiuti”
da parte delle nuove generazioni, dando loro
l’opportunità di vivere in un mondo migliore.
Bibliografia
Furfari S., Il Futuro della
Politica per l’Energia, in Interventi, nell’ambito della
Summer School in Istituzioni e Politiche dell’Unione
Europea, Regione Veneto 2010
ISPRA, Rapporto Rifiuti Urbani,
Edizione 2009
Massarutto A., I rifiuti. Come e
perché sono diventati un problema, Il Mulino 2009
Montalto M., con contributi di
Pecoraro Scanio A. e Zanotelli A., La guerra dei rifiuti
– da Korogocho a Napoli, Edizioni Alegre 2007
Noè G., a cura di Manzelli S., La
nuova disciplina dei rifiuti – Trasporto, stoccaggio e
smaltimento, Experta 2008
Sitografia[80]
Regione Veneto – Piani e Programmi:
http://www.regione.veneto.it/Ambiente+e+Territorio/Ambiente/Rifiuti+e+bonifica+siti+inquinati/Rifiuti/Piani+e+Programmi.htm
Regione Lombardia – Piano Regionale
Gestione Rifiuti:
http://www.ors.regione.lombardia.it/cm/pagina.jhtml?param1_1=N1201923917296892970
Regione Sicilia – Revisione del
Piano di gestione 2010:
http://www.regioni.it/upload/Revisione_Piano_di_gestione_14.10.2010%5B1%5D%5B1%5D.pdf
Normativa
Normativa comunitaria
Direttiva 2008/98/CE del 19
novembre 2008, relativa ai rifiuti e che abroga le
direttive
75/439/CEE, 91/689/CEE e
2006/12/CE;
Direttiva 2000/76/CE del 4 dicembre
2000, sull’incenerimento dei rifiuti;
Direttiva 1999/31/CE del 26 aprile
1999, relative alle discariche di rifiuti;
Direttiva 1996/61/CE del 24
settembre 1996, sulla prevenzione e la riduzione
integrate dell'inquinamento;
Direttiva 1991/156/CEE del 18 marzo
1991, che modifica la direttiva 75/442/CEE relativa ai
rifiuti.
Normativa nazionale
D.lgs 16 gennaio 2008, n° 4;
D.lgs 3 aprile 2006, n° 152;
Legge 9 novembre 1988, n. 475.
Normativa regionale
Veneto – Legge Regionale 21 gennaio
2000, n° 3;
Lombardia – Legge Regionale 12
dicembre 2003, n° 26;
Sicilia – Legge Regionale 8 aprile
2010, n° 9.
[1] Infra Cap. V §1.1a.
[2] Art. 5, 1° comma, Direttiva
2008/98/CE.
[3] Massarutto A., I rifiuti. Come
e perché sono diventati un problema, Il Mulino 2009,
pag. 10.
[4] Art. 6, 1° comma.
[5] Art. 2, §11 Direttiva 96/61/CE.
[6] A seguito delle correzioni
apportate dal D.lgs 16 gennaio 2008, n° 4.
[7] Infra Cap. V
§2.
[8] Art. 199.
[9] Infra §4.
[10] Art. 199,
3° comma, lett. b).
[11] Lett. e).
[12] Art. 4, 1°
comma, lett. h) L.R. 3/2000.
[13] Art. 202
T.u.
[14] Art. 7.
[15] Con l’introduzione dell’art.
206-bis.
[16] Si pensi ai 41 fusti contenti
diossina dei quali si erano perse le tracce dopo il
disastro di Seveso del ‘76, ritrovati in Francia otto
mesi più tardi.
[17] Infra §5.2.2.
[18] Infra §5.2.1.
[19] Di cui in dettaglio
all’Allegato V alla Direttiva per i gas di scarico.
[20] Attualmente riportata
dall’art. 4 della Direttiva 2008/98/CE.
[21] Ai sensi dell’art. 29 della
Direttiva 2008/98/CE.
[22] Di cui all’art. 3, 17).
[23] Infra § 1.2.1.
[24] Infra § 1.2.1.
[25] Supra §1.2.
[26] Di cui all’art. 15 della
Direttiva 2008/98/CE.
[27] Supra §1.1.
[28] Supra §1.1.
[29] Già a partire dal D.lgs.
22/97.
[30] Art. 183
lett. ‘d’ e ‘bb’ D.lgs. 152/2006.
[31] 65% entro il 2012, supra.
[32] v. Cap. IV §6.
[33] Abrogata con effetto dal 12
dicembre 2010.
[34] relativo alla sorveglianza e
al controllo delle spedizioni di rifiuti all'interno
della Comunità europea, nonché in entrata e in uscita
dal suo territorio.
[35] Art. 4 Direttiva – supra,
§1.1.
[36] Art. 3 punto 15.
[37] Supra Cap. II.
[38] I residui delle attività di
recupero e smaltimento vengono infatti classificati
dall’art. 184, 3° comma, lett. g) del T.u., come rifiuti
speciali.
[39] Supra §5.1.
[40] Supra §1.
[41] Cap. III §1.
[42] Allegato III Direttiva
2008/98/CE.
[43] Art. 2. lett. e) Direttiva
1999/31/CE.
[44] Dal giorno della pubblicazione
nella Gazzetta ufficiale delle Comunità Europee.
[45] Art. 11, 1° comma, lett. a).
[46] Punto 3. dell’Allegato II.
[47] art. 11, 1°
comma, lett. b).
[48] art. 10.
[49] Comma 2.
[50] Comma 4.
[51] Comma 3.
[52] Ai sensi dell’art. 208 T.u.
così modificato dall'art. 2, comma 29-ter, d.lgs. n. 4
del 2008.
[53] Comma 8.
[54] Comma 12.
[55] Comma 11.
[56] Comma 13.
[57] Comma 8.
[58] Supra §4.3.
[59] Comma 2.
[60] Cfr. Cap. V §3.2.
[61] Art. 1, 2°
comma L.R.
[62] Supra Cap.
V §1.1.
[63] Ai sensi dell’art. 2, 2°
comma.
[64] Art. 15, 1°
comma, lett. g).
[65] Supra Cap.
IV §4.
[66] Art. 10, 1°
comma, lett. g).
[67] Art. 8.
[68] Comma 3,
lett. c).
[69] Art. 8, 2°
comma.
[70] Art. 9, 2°
comma.
[71] Art. 9, 7°
comma.
[72] Art. 10, 2°
comma L.R.
[73] Supra Cap. V §3.1.
[74] Dati del 2003.
[75] Come sancito dalla Direttiva
31/03/CE.
[76] Art. 200,
1° comma, lett. f) T.u.
[77] Art. 9, 4° comma, lett. a).
[78] Approvato con decreto del
Ministero dell’Ambiente in data 11/04/2008.
[79] Art. 12 L.R.
[80] Siti consultati il 25/10/2010. |