Autore : Avv.
Massimiliano Gallone
In tema di videosorveglianza dei
lavoratori, con riferimento al valore probatorio di
registrazioni audiovisive legittime (in quanto volte a
realizzare controlli difensivi da parte del datore di
lavoro), la S.C. ha precisato che il disconoscimento
delle riproduzioni meccaniche di cui all'art. 2712 cod.
civ., che fa perdere alle stesse la loro qualità di
prova, pur non essendo soggetto ai limiti e alle
modalità di cui all'art. 214 cod. proc. civ., deve
essere, oltre che tempestivo, chiaro, circostanziato ed
esplicito, dovendo concretizzarsi nell'allegazione di
elementi attestanti la non corrispondenza tra realtà
fattuale e realtà riprodotta.
Nel caso specifico da cui ha preso
le mosse la suindicata pronuncia della S.C., la Corte di
Appello di Torino, confermando in parte la sentenza di
primo grado, rigettava il capo della domanda proposto
dai lavoratori in epigrafe nei confronti della società
P. servizi avente ad oggetto l'impugnativa del
licenziamento loro intimato in data 16 dicembre 2003,
per essersi introdotti, durante il turno di servizio
quali sorveglianti, all'interno degli uffici del
personale della T. senza autorizzazione o necessità di
forza maggiore e/o esigenza d'interventi urgenti, ed
accoglieva quello, come ridotto in appello, relativo al
risarcimento dei danni conseguenti all'irregolare
concessione dei riposi settimanali e giornalieri, nonchè
del computo delle maggiorazioni corrisposte per il
lavoro domenicale, festivo e a turni nelle ferie, 13^ e
14^ mensilità di retribuzione.
La Corte territoriale,
relativamente alla impugnativa del licenziamento, poneva
a base del decisum, il rilievo che le riprese effettuate
con la videocamera posta nell'ufficio della T. non
confliggeva con la disposizione di cui alla L. n. 300
del 1970, art. 4, in quanto la videocamera era stata
installata da un soggetto, non datore i lavoro, a cui
tale ufficio era riservato per evidenti finalità di
tutela dei propri effetti personali e della
documentazione aziendale ivi esistente, e la
considerazione che il disconoscimento dei filmati era
avvenuto in modo del tutto generico non idoneo come tale
a produrre gli effetti di cui all'art. 2712 c.c..
La Corte del merito non mancava di
sottolineare che, pur a voler ritenere un intervenuto
idoneo disconoscimento dei filmati, questi comunque
sarebbero suscettibili di valutazione unitaria con altri
elementi di prova operata dal giudice di primo grado e
non affatto contestata dai lavoratori.
Relativamente alle vantate
differenze retributive, così come limitate nell'atto di
appello, e cioè al periodo successivo all'8 aprile 2003,
la Corte torinese, premessa l'applicabilità del D.Lgs.
n. 66 del 2003, art. 7, rilevava che, dalla
documentazione prodotta e dalle allegazioni non
contestate aventi ad oggetto le turnazioni osservate,
risultava che in occasione del passaggio settimanale
effettuato dal terzo al primo turno i lavoratori avevano
usufruito in tutto di ventiquattro ore di riposo e,
dunque, ne mancavano undici corrispondenti all'intero
riposo giornaliero ed in occasione del passaggio dal
terzo al secondo turno avendo usufruito in tutto di
trentadue ore di riposo ne avevano perso tre.
Non avendo poi, secondo la predetta
Corte, la società contestato lo svolgimento di attività
lavorativa su turni avvicendati nelle giornate
domenicali e festive, assumendo tale attività carattere
costante e continuativo i relativi compensi dovevano
essere compresi nella base di computo dei vari istituti
retributivi indiretti.
Avverso questa sentenza i
lavoratori ricorrono, in cassazione sulla base di
quattro censure, illustrate da memoria.
Resisteva con controricorso la
società che, a sua volta, propone ricorso incidentale
assistito da due motivi.
I ricorsi venivano preliminarmente
riuniti riguardando la impugnazione della stessa
sentenza.
Con il primo motivo del ricorso
principale i lavoratori deducevano vizio di motivazione
ed in particolare di contraddittorietà per aver la Corte
del merito prima ritenuta l'accessibilità per ragioni di
sorveglianza nei locali della T. e, poi, escluso
qualsiasi intento di vigilanza sul comportamento degli
addetti al servizio di sorveglianza. Nè è vero, allegano
i ricorrenti, che essi non hanno mai contestato che
presso i locali di cui trattasi non si svolgessero
riunioni del personale. Tanto del resto è confermato,
assumono i lavoratori, dalla deposizione del teste M..
Con la seconda censura i ricorrenti
principali,denunciando violazione della L. 20 maggio
1970, n. 300, art. 4, pongono, ex art. 366 bis c.p.c.,
il seguente quesito di diritto: "se si sia verificata
violazione delle disposizioni contenute nella L. 20
maggio 1970, n. 300, art. 4, quando non si è considerato
necessario un preventivo accordo con le rappresentanze
sindacali aziendali per l'installazione di impianti
audiovisivi finalizzati a controllare a distanza anche
l'attività dei lavoratori, sia nel caso che il controllo
riguardi il lavoro di dipendenti diretti dell'azienda
sia che il controllo riguardi il lavoro, svolto in
favore della azienda nei locali della stessa, da
dipendenti di una società terza in esecuzione di
un'attività appaltata alla stessa. Con la conseguente
dichiarazione di illiceità dell'installazione e la
totale mancanza di valore probatorio del materiale
conseguito con tale violazione".
Le due censure che in quanto
strettamente connesse sotto il profilo logico-giuridico,
vanno trattate unitariamente, sono infondate.
Ai fini di cui trattasi è
necessario, preliminarmente, precisare che la ripresa
audiovisiva è avvenuta, come accertato nella sentenza
impugnata, non nei locali aziendali di pertinenza del
datore di lavoro degli attuali ricorrenti, bensì presso
un ufficio interno di una diversa società presso la
quale veniva svolto dai ricorrenti un servizio di
sorveglianza.
Inoltre, è utile rimarcare che la
Corte di Appello accerta che l'impianto audiovisivo di
cui trattasi è stato posto in essere da un soggetto non
datore di lavoro degli attuali ricorrenti e del tutto
estraneo al personale dipendente della società attuale
resistente e per finalità essenzialmente "difensive" del
proprio ufficio e della documentazione ivi custodita.
Ora proprio in ragione di tali
circostanze, cioè del soggetto che ha effettuato
l'installazione dell'impianto di ripresa e delle
finalità di tale installazione, la Corte del merito ha
escluso la ipotizzabilità di una finalità di controllo a
distanza dell'operato degli attuali ricorrenti e,
quindi, di una violazione del denunciato della L. n. 300
del 1970, art. 4.
Nè per la Corte del merito, il
rilievo che gli attuali ricorrenti potevano accedere
durante il servizio di sorveglianza a detto locale in
specifiche situazioni di necessità (porta aperta e luce
accesa) comportava, in considerazione delle predette
circostanze, la configurabilità di un controllo a
distanza.
Ritiene questo Collegio che a
fronte dell'accertata, e non censurata, ricostruzione
delle circostanze di fatto che hanno caratterizzato la
vicenda in esame, è cioè l'installazione - per esclusive
finalità difensive - ad opera di un soggetto terzo,
rispetto alla società resistente datore di lavoro dei
ricorrenti, e dipendente da altra società, all’interno
di un ufficio non facente parte della struttura
organizzativa di detto datore di lavoro e nel quale i
sorveglianti potevano accedere solo in caso di
necessità, non è configurabile una violazione del
richiamato della L. n. 300 del 1970, art. 4.
Nè rileva in questa sede se in tale
ufficio si svolgessero o meno riunioni con il personale,
in quanto si tratterebbe comunque di riunioni
concernenti non il personale della società resistente
datore di lavoro dei ricorrenti, bensì di quello di
altra società e cioè la T.. Neppure vi è la denunciata
contraddittorietà della sentenza impugnata atteso che
l'esclusione, per le menzionate ragioni, della
ipotizabbilità di una violazione della citata L. n. 300
del 1970, art. 4, non è esclusa dalla affermata
accessibilità, in caso di necessità,nel locale
videosorvegliato. Si tratta, infatti, di impianto, come
rimarcato, installato da terzo non dipendente dal datore
di lavoro dei ricorrenti a tutela difensiva di un locale
facente parte della struttura organizzativa di diverso
datore di lavoro e dove i ricorrenti non vi potevano
accedere se non in casi eccezionali e tanto esclude
qualsiasi funzione di controllo dell'impianto in parola
sull'attività lavorativa dei sorveglianti.
Con il terzo motivo i ricorrenti
principali prospettano vizio di motivazione in punto di
mancata compiuta analisi della portata della
dichiarazione di disconoscimento del difensore e delle
parti stesse ai sensi dell'art. 2712 c.c., ed in
particolare in ordine alla rilevanza data alla
affermazione di un presunto non riconoscimento non
esistente all'interno della formula del disconoscimento.
Con la quarta censura i ricorrenti
principali, allegando violazione dell'art. 2712 c.c.,
formulano, ex art. 366 bis c.p.c., il seguente quesito
di diritto: "se l'art. 2712 c.c., disponga la non
utilizzazione, come piena prova, delle riproduzioni
effettuate mediante strumenti audiovisivi quando i fatti
e le cose rappresentate vengano formalmente
disconosciute come realmente accadute da coloro contro i
quali sono prodotte. In tale ipotesi le circostanze
delle quali s'intendeva dare la dimostrazione che si
fossero verificate, devono risultare da elementi di
prova indipendenti dalle riproduzioni meccaniche con
totale onere a carico della parte che sostiene siano
avvenute. La contestazione inoltre preclude la verifica
a mezzo di consulenza tecnica a differenza di quanto
accade per le scritture private".
I motivi, da trattare unitariamente
per la loro connessione logico- giuridica, sono
infondati.
E' principio di questa Corte,
condiviso dal Collegio, che l'efficacia probatoria delle
riproduzioni meccaniche di cui all'art. 2712 c.c. è
subordinata - in ragione della loro formazione al di
fuori del processo e senza le garanzie dello stesso -
all'esclusiva volontà della parte contro la quale esse
sono prodotte in giudizio, concretantesi nella non
contestazione che i fatti, che tali riproduzioni tendono
a provare siano realmente accaduti con le modalità
risultanti dalle stesse. Il relativo "disconoscimento" -
che fa perdere alle riproduzioni stesse la loro qualità
di prova e che va distinto dal "mancato riconoscimento",
diretto o indiretto, il quale, invece, non esclude che
il giudice possa liberamente apprezzare le riproduzioni
legittimamente acquisite - pur non essendo soggetto ai
limiti e alle modalità di cui all'art. 214 c.p.c., deve
tuttavia essere chiaro, circostanziato ed esplicito
dovendo concretizzarsi nell'allegazione di elementi
attestanti la non corrispondenza tra realtà fattuale e
realtà riprodotta e deve avvenire nella prima udienza o
nella prima risposta successiva alla rituale
acquisizione delle suddette riproduzioni, venendosi in
caso di disconoscimento tardivo ad alterare l'iter
procedimentale in base al quale il legislatore ha inteso
cadenzare il processo in riferimento al contraddittorio
(Cass. 3 luglio 2001 n. 8998 e Cass. 22 aprile 2010 n.
9526).
E', quindi, corretta in diritto la
sentenza impugnata la quale ha ritenuto non
configurabile il disconoscimento di cui trattasi se non
accompagnato dall'allegazione di elementi attestanti la
non corrispondenza tra realtà fattuale e realtà
riprodotta.
Circa, poi, la portata della
formula di disconoscimento è assorbente il rilievo che i
ricorrenti pur denunciando al riguardo un vizio di
motivazione non deducono di aver allegato elementi
dimostrativi della non corrispondenza tra la situazione
riprodotta e quella fattuale.
Rimanendo intangibile, per i
suddetti motivi, la decisione impugnata sotto il profilo
del difetto di un idoneo disconoscimento è del tutto
ultroneo verificare la correttezza dell'altra
alternativa e diversa ratio deciderteli secondo la quale
"quandanche si potesse sostenere un intervenuto idoneo
disconoscimento i filmati verebbero privati della
capacità di formare una piena prova in punto d'immagini
riprodotte, ma non certo eliminati perchè inutilizzabili
nella loro interezza: pertanto gli stessi sarebbero
comunque suscettibili, sia di approfondimenti (per
esempio una CTU) sia di una valutazione unitaria con gli
altri elementi probatori eventualmente emersi".
Con il primo motivo del ricorso
incidentale la società deduce vizio di motivazione.
Allega che la Corte del merito è incorsa nella
violazione dell'art. 360 c.p.c., n. 5 laddove ha
recepito i dati economici prospettati dai ricorrenti
senza nemmeno indicare quante compressioni dei riposi
risultano liquidate e laddove non indica nemmeno gli
elementi su cui ha fondato il convincimento, presupposto
dalla richiesta economica, riguardo alle giornate
domenicali e festive lavorate.
Con il secondo motivo la ricorrente
incidentale, denunciando violazione dell'art. 2697 c.c.,
pone, ex art. 366 bis c.p.c., il seguente quesito: "se a
fronte della mera allegazione svolta dalla parte attrice
in relazione agli elementi di fatto presupposti alla sua
domanda ovvero ai criteri di liquidazione del danno e
delle differenze retributive, l'art. 2697 c.c., dispone
l'inversione dell'onere probatorio a carico della parte
convenuta, che deve conseguentemente provare i fatti su
cui la sua eccezione di non debenza e quantificazione si
fonda. In tale ipotesi: a) se il risarcimento del danno
conseguente alla parziale compromissione dei riposi
settimanali e giornalieri debba costituire l'oggetto di
prova da parte dei richiedenti, almeno mediante
presunzioni; b) se le differenze retributive vantate in
relazione alla pretesa mancata considerazione delle
maggiorazioni contrattuali nel calcolo degli istituti
retributivi indiretti debba costituire l'oggetto di
prova da parte dei richiedenti, quanto alla loro debenza
e al concreto ammontare, almeno mediante il deposito di
conteggi analitici con comparazione delle somme
asseritamente dovute e quelle percepite".
Le censure, anche queste da
trattare unitariamente per la loro stretta
interdipendenza logico-giuridica, sono infondate.
La Corte di appello, relativamente
alle reclamate differenze retributive, pone a base della
propria decisione il rilievo fondante che le domande di
cui trattasi vengono accolte "sulla base delle deduzioni
contenute nel ricorso introduttivo, non confutate da
controparte aventi ad oggetto le modalità di svolgimento
del lavoro su turni espletato dagli attuali appellanti e
della documentazione prodotta (doc 10 e 11 Antoni + 3
primo grado e buste paga; doc 22, 23 e 24 P. primo
grado)".
In particolare la Corte del merito,
per quanto attiene il capo della domanda concernente il
risarcimento dei danni per compressione dei riposi
giornalieri e settimanali, afferma che la prova della
compressione è fornita dalla documentazione prodotta e
dalle allegazioni non contestate contenute nel ricorso
aventi ad oggetto le turnazioni osservate dai
lavoratori. Relativamente all'altro capo della domanda,
e cioè alla incidenza sulla 13^ e 14^ mensilità di
retribuzione delle maggiorazioni corrisposte per lavoro
festivo, domenicale e su turni, la Corte torinese, sul
rilevo che in primo grado la società si era limitata a
negare in linea di diritto detta incidenza senza
sollevare alcuna contestazione in ordine alle modalità
di svolgimento dell'attività lavorativa indicata in
ricorso, ritiene provato - in quanto non contestato -
che gli -allora - appellanti hanno lavorato su turni
avvicendati svolgendo attività lavorativa normale anche
nelle giornate domenicali e festive, in particolare
lavorando per sei domeniche ogni otto settimane e in sei
festività infrasettimanali all'anno.
Circa il quantum la Corte
territoriale riconosce quello richiesto sul presupposto
che la P. non ha mai contestato in modo specifico la
congruità delle somme richieste dalle controparti per i
titoli indicati.
A fronte di tale motivazione la
società ricorrente incidentale fa riferimento per
contrastare la non ritenuta contestazione, a quanto
rilevato in sede di memoria difensiva in appello ovvero
a documentazione allegata.
Tuttavia la censura, per come
articolata, non è idonea allo scopo.
Infatti il richiamo alla memoria
difensiva di appello è inidoneo atteso che la Corte del
merito fa riferimento, correttamente, alla posizione
assunta dalla società in primo grado.
Quanto ai documenti invocati per
suffragare l'avvenuta contestazione, la società non
trascrive nel ricorso,in violazione del principio di
autosufficienza, il relativo testo impedendo in tal modo
qualsiasi sindacato al riguardo.
Non è, pertanto, censurabile sotto
il profilo motivazionale la sentenza impugnata che in
base al principio della non contestazione ha recepito i
dati economici e fattuali indicati dai lavoratori
confermati dalla documentazione richiamata.
Acclarata l'adeguatezza, anche
sotto il profilo giuridico, sul punto in questione della
motivazione della sentenza impugnata non è conferente il
quesito di cui alla seconda censura del ricorso
incidentale che muove dall'errato presupposto che la
Corte del merito avrebbe deciso sulla base della mera
allegazione di elementi di fatto indicati dai
lavoratori.
In conclusione il ricorso
principale e quello incidentale vanno rigettati.
Le spese del giudizio di
legittimità in considerazione della reciproca
soccombenza vanno compensate.
P.Q.M.
La Corte riuniti i ricorsi li
rigetta e compensa le spese del giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, nella Camera
di consiglio, il 20 dicembre 2010.
Depositato in Cancelleria il 28
gennaio 2011 |