Dal Rapporto annuale Istat per il
2010 emerge come la condizione delle donne italiane nel
mercato del lavoro sia ulteriormente peggiorata
nell'ultimo triennio. Scende il tasso di attività
femminile, già prima bassissimo. Lo svantaggio aumenta
ancora per le madri, che spesso lasciano il lavoro alla
nascita del primo figlio e non sempre per libera scelta.
L'altra faccia della scarsa partecipazione delle donne
al mercato del lavoro è il sovraccarico di lavoro
familiare. Pochi i servizi offerti dalle strutture
pubbliche, la famiglia è tutt'oggi una irrinunciabile
fonte di aiuto.
I dati riportati dal Rapporto
annuale Istat relativo alla situazione del paese nel
2010 mostrano come la condizione delle donne italiane
nel mercato del lavoro sia ulteriormente peggiorata
nell’ultimo triennio, invece di migliorare. (1) Nel
triennio 2008-2010, il tasso di attività femminile
(misurato dai 15 ai 64 anni) è passato dal già
bassissimo 47 per cento del 2008 al 46,1 per cento del
2010. Si è tornati indietro, sui livelli di dieci anni
fa, sempre più lontani da quegli obiettivi di Lisbona
che chiedevano (per rendere l'Unione Europea “più
competitiva e dinamica nell’economia della conoscenza”)
entro il 2010 un tasso di attività femminile del 60 per
cento. Èovviamente l’effetto della crisi economica, ma
ad esempio in Francia il tasso di attività femminile non
è diminuito, è restato intorno al 60 per cento, mentre
in Germania nello stesso triennio è aumentato dal 65 al
66 per cento. La distanza dei livelli italiani con
quelli medi dell'Unione Europea supera ora i 12 punti
percentuali.
LO SVANTAGGIO AUMENTA PER LE MADRI
Lo svantaggio delle donne italiane,
già presente rispetto alla media europea anche per le
donne senza figli, aumenta quando consideriamo le madri
e il loro numero di figli (si veda la figura 1). Il
crollo dei tassi di attività al crescere del numero di
figli porta a essere occupate neanche un terzo di madri
italiane con tre o più figli.
Figura 1: Tasso di occupazione
femminile per numero dei figli (con meno di 15 anni)
Fonte: OECD, Family database
(www.oecd.org/els/social/family/database), dati al 2008.
Tra le nuove generazioni la
situazione non migliora: tra le madri che lavorano,
secondo i dati dell’Indagine 2009 dell’Istat su
“Famiglie e soggetti sociali”, il 15 per cento dichiara
di aver smesso di lavorare a causa della nascita di un
figlio. La percentuale è cambiata di solo un punto
rispetto alle generazioni precedenti: dal 15,4 per cento
delle generazioni di donne nate tra il 1944 e il 1953 al
14 per cento delle generazioni nate dopo il 1973.
A fronte di una sostanziale
stabilità nelle diverse generazioni della quota di madri
che interrompono l'attività per la nascita di un figlio,
tra le giovani sono addirittura in crescita le
interruzioni imposte dal datore di lavoro, tanto che,
secondo i dati dell'indagine multiscopo sull'uso del
tempo (2008-2009) oltre la metà delle interruzioni
dell'attività lavorativa per la nascita di un figlio non
è il risultato di una libera scelta. A sperimentare le
interruzioni forzate del rapporto di lavoro sono
soprattutto le giovani generazioni (il 13,1 per cento
tra le madri nate dopo il 1973) e le donne residenti nel
Mezzogiorno, per le quali la quasi totalità di quelle
legate alla nascita di un figlio può ricondursi alle
dimissioni forzate. Le interruzioni si trasformano nella
maggior parte dei casi in uscite prolungate dal mercato
del lavoro: solo il 40 per cento riprende il lavoro (il
51 per cento al Nord e il 23,5 al Sud).
OBERATE DAL LAVORO FAMILIARE
L’altra faccia della scarsa
partecipazione delle donne al mercato del lavoro è il
sovraccarico di lavoro familiare. Le forti disparità tra
donne e uomini nell’ambito delle responsabilità
familiari, sono la conseguenza, ma al tempo stesso anche
una delle cause, della scarsa offerta di lavoro fuori
dalla famiglia da parte delle donne.
In Italia, in media, il 76 per
cento del tempo dedicato al lavoro familiare è sulle
spalle delle donne e i segnali di riequilibrio sono
scarsi. Oltre venti anni fa, quando nel 1988 furono
raccolti i dati della prima indagine Istat sull’uso del
tempo, era l’85 per cento; nel 2002, per la seconda
indagine, il 78 per cento. Quando la donna lavora, la
condivisione dei carichi di lavoro familiare è meno
sbilanciata, ma pur essendo gli uomini un po’ più
collaborativi rispetto al passato, i cambiamenti sono
lenti e la divisione dei ruoli ancora molto rigida. I
dati dell’ultimo rapporto Istat mettono in evidenza come
i cambiamenti nei tempi del lavoro familiare siano
pochi, concentrati nelle coppie con donna occupata e con
figli, e soprattutto come l’asimmetria dei tempi di vita
fra i generi si riduca, seppure di poco, per i tagli che
le donne attuano al tempo dedicato al lavoro domestico
più che per gli incrementi di quelli maschili. Infatti,
trasformazioni degne di nota sono semmai avvenute
nell’ambito della cura dei figli, non nell’ambito del
lavoro domestico vero e proprio. Le madri, anche quelle
occupate, dedicano oggi meno tempo al lavoro domestico e
più tempo alla cura dei figli sotto i 13 anni. Il
risultato è che, quando entrambi i partner sono
occupati, in un giorno medio settimanale la donna lavora
oltre un’ora e mezzo più del suo partner, con un’ora e
dieci minuti di tempo libero in meno. Ed è ancora una
peculiarità dell’Italia proprio il fatto che le donne
lavorino in totale ben più degli uomini: nella maggior
parte dei paesi avanzati, invece, se si somma il tempo
per il lavoro remunerato con il tempo di lavoro non
remunerato, si arriva a valori simili tra uomini e
donne.
L’ammontare di tempo dedicato al
lavoro familiare dalle donne rappresenta la differenza
più grande fra uomini e donne nell’uso del tempo
quotidiano e influenza l’organizzazione di tutti gli
altri tempi di vita. Se è vero che in tutti i paesi i
tempi di vita di donne e uomini sono diversi in
corrispondenza della fase riproduttiva, tuttavia, le
differenze tra i paesi sono considerevoli e in Italia le
disparità tra uomini e donne sono maggiori che negli
altri paesi europei in tutti gli stadi del corso di
vita. La forte diminuzione di ore di lavoro per il
mercato delle madri italiane, e viceversa l’aumento di
ore dei padri subito dopo la nascita di figli, non è
riscontrabile in nessun altro paese, dove l’offerta di
lavoro per il mercato sembra indipendente dalla
composizione familiare. L’Italia è anche l’unico paese
dove il tasso di occupazione femminile non risale quando
i figli sono più grandi.
LA FAMIGLIA DIVENTA ANCORA PIÙ
NECESSARIA
L’offerta di lavoro femminile, in
particolare delle madri con figli piccoli, non è certo
incentivata in Italia dai servizi offerti dalle
strutture pubbliche. Il rapporto Istat rileva come negli
ultimi 10 anni sono cresciute le famiglie con almeno un
bambino sotto i 14 anni che ricevono aiuti informali per
la cura dei figli. Mentre l’utilizzo di servizi pubblici
è aumentato dal 3,4 al 6, 3 per cento di queste
famiglie, e rimane stabile la quota che si avvale di
babysitter o di nidi privati (circa l’11 per cento),
aumenta invece di oltre 6 punti percentuali,
raggiungendo il 26,6 per cento la quota di famiglie che
riceve aiuto da parte della rete informale. Al Sud sia
il ricorso alla rete informale che a quella di aiuto
pubblico aumenta meno, mentre nel 18 per cento dei casi,
se la madre lavora, le famiglie si avvalgono di servizi
a pagamento.
Da rilevare anche che se gli aiuti
informali verso gli anziani sono meno numerosi e in
diminuzione nel tempo, nel caso delle famiglie dove la
donna è occupata, gli aiuti informali (principalmente da
parte dei nonni, anzi delle nonne!) verso i bambini sono
di più e in crescita.
La famiglia non solo quindi
mantiene il suo ruolo di principale caregiver, ma sembra
– in assoluta controtendenza rispetto agli altri paesi
europei – sempre più necessaria e irrinunciabile fonte
di aiuto.
(1) Istat, Rapporto annuale. La
situazione del Paese nel 2010, Roma, 2011.
http://www.istat.it/dati/catalogo/20110523_00/rapporto_2011.pdf
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