Integra
il reato previsto dall'art. 137 del D.Lgs. 3 aprile
2006, n. 152 la condotta consistente nello sversamento
di percolato da un impianto di smaltimento di rifiuti
solidi urbani in un corso d'acqua superficiale,
sussistendo un nesso funzionale e diretto del refluo con
il corpo idrico recettore; non sussiste la violazione
del principio di correlazione tra fatto contestato e
fatto ritenuto in sentenza (art. 521 c.p.p.) ove
l'imputato sia condannato per il reato di scarico di
acque reflue senza autorizzazione a fronte
dell'imputazione originaria di scarico di percolato
sussiste la responsabilita' penale del legale
rappresentante di societa' esercente l'attivita' di
smaltimento di RSU in caso di sversamento di percolato
in un corso d'acqua superficiale; il reato di scarico
senza autorizzazione di percolato concorre con il reato
paesaggistico.
Ben
quattro i principi di diritto affermati dalla Corte di
Cassazione con la sentenza qui commentata. I giudici di
legittimità, muovendo da un caso “anonimo” che vedeva
imputato il legale rappresentante di una società di
gestione di un impianto di smaltimento di RSU, ha
affermato alcuni importanti principi dando nuovo vigore
e vitalità ad un tema, quello del rapporto tra
disciplina delle acque e disciplina dei rifiuti liquidi,
da tempo ormai non più affrontato in maniera innovativa
dalla Corte, essendo infatti venuti meno i punti
problematici che avevano caratterizzato la controversa
nozione di “scarico” all’indomani del varo del T.U.A.,
superati con la modifica di detta nozione per effetto
del D.Lgs. n. 4 del 2008.
Il fatto
La
vicenda processuale che ha offerto lo spunto alla
Cassazione per articolare i numerosi principi di diritto
enunciati vedeva imputato il gestore di un impianto di
smaltimento dei rifiuti solidi urbani di un comune, di
proprietà della locale Comunità montana, al quale era
stato contestato di aver effettuato, senza
autorizzazione, lo scarico del percolato prodotto in
detto impianto in un corso d’acqua superficiale sito
all’interno di un famoso parco nazionale.
Al
predetto erano stati, quindi, contestati sia la
violazione della disciplina in materia di inquinamento
idrico che la violazione paesaggistica. In sede di
merito, sia il giudice di primo grado che quello
d’appello, avevano ritenuto l’imputato penalmente
responsabile di entrambi i reati contestati.
Il
ricorso
L’imputato proponeva ricorso per cassazione avverso la
pronuncia di condanna articolando alcuni motivi. Per
quanto qui di interesse, in particolare, egli contestava
la violazione dell’art. 521 c.p.p. (principio della
correlazione tra fatto contestato e fatto ritenuto in
sentenza) in quanto il giudice, a fronte di
un’imputazione originaria di scarico di percolato, lo
aveva invece condannato per lo sversamento di acque
reflue: tale soluzione sarebbe errata, a giudizio del
reo, poiché i liquami provenienti dall’interno di un
impianto di trattamento di rifiuti non sarebbero
identificabili come acque reflue né industriali né
urbane.
In
secondo luogo, poi, contestava l’affermazione della sua
responsabilità penale, non essendo stata valutata la
presenza di organi tecnici preposti a specifici compiti
connessi alle varie fasi dello smaltimento; infine,
contestava la configurabilità del reato paesaggistico,
non essendo possibile individuare “lavori” incidenti sul
bene paesaggistico offeso, peraltro nemmeno agevolmente
individuabile.
La
decisione della Cassazione
La
Corte, nel disattendere tutti i motivi, ha rigettato il
ricorso, affermando i principi in precedenza esposti.
Osserva, anzitutto, la Cassazione come i giudici di
merito abbiano correttamente inquadrato la vicenda da un
punto di vista giuridico, applicando cioè la disciplina
delle acque e non quella dei rifiuti.
Sul
punto, precisano gli ermellini, è ben vero che la
nozione di “percolato” viene definita dal decreto di
recepimento della direttiva discariche (D.Lgs. 13
gennaio 2006, n. 36) come il “liquido che si origina
prevalentemente dall'infiltrazione di acqua nella massa
dei rifiuti o dalla decomposizione degli stessi” (art.
2, lett. m, sicchè lo stesso ben può assumere la natura
di rifiuto «ma ciò soltanto allorquando lo stesso non si
configuri quale acqua sostanzialmente “di processo”
direttamente smaltita in corpo idrico recettore».
Nel caso
in esame, invece, sottolineano i giudici di legittimità,
non adducendosi nel ricorso l’insussistenza di un nesso
funzionale e diretto delle acque reflue con il corpo
idrico recettore (che ricondurrebbe la gestione delle
acque reflue medesime nell’ambito dei rifiuti), trova
applicazione la disciplina dettata dal Titolo III° del
T.U.A., con conseguente assoggettamento della vicenda
alla fattispecie sanzionatoria prevista dall’art. 137,
D.Lgs. n. 152 del 2006.
Quanto,
poi, alla ipotizzata violazione del principio di
correlazione tra accusa e sentenza (art. 521 c.p.p.)
bene osserva la Corte come per aversi mutamento del
fatto occorre una trasformazione radicale, nei suoi
elementi essenziali, della fattispecie concreta nella
quale si riassume la ipotesi astratta prevista dalla
legge, sì da pervenire ad un'incertezza sull'oggetto
dell'imputazione da cui scaturisca un reale pregiudizio
dei diritti della difesa; ne consegue che l'indagine
volta ad accertare la violazione del principio suddetto
non va esaurita nel pedissequo e mero confronto
puramente letterale fra contestazione e sentenza perché,
vertendosi in materia di garanzie e di difesa, la
violazione e' del tutto insussistente quando l'imputato,
attraverso l'"iter" del processo, sia venuto a trovarsi
nella condizione concreta di difendersi in ordine
all'oggetto dell'imputazione (v., per tutte: Sez. U, 22
ottobre 1996, n. 16, Di Francesco, in Ced Cass. 205619).
Facendo
coerente applicazione di tale principio alla vicenda in
esame, si evidenzia come corretta sia la qualificazione
giuridica operata dai giudici di merito, poiché i
contenuti essenziali dell’addebito risultano riferiti
all’effettuazione dello scarico, nel corso d’acqua
superficiale, del percolato prodotto nell’impianto di
smaltimento dei rifiuti solidi urbani, ed in relazione a
tale condotta illecita l’imputato si è difeso ed è stato
condannato previa qualificazione corretta del percolato
come “acqua di scarico non domestica”, senza alcun
mutamento dell’addebito.
Quanto,
ancora, alla contestazione relativa all’individuazione
del gestore dell’impianto quale soggetto responsabile,
nessun dubbio ha la Corte nel ribadire un principio
fondamentale in materia ambientale secondo il quale il
reato di scarico senza autorizzazione è configurabile
non solo nei confronti del titolare dell'insediamento,
ma anche nei confronti del gestore dell'impianto, in
quanto su quest'ultimo grava l'onere di controllare che
l'impianto da lui gestito sia munito
dell'autorizzazione, presupposto di legittimità della
gestione (Sez. 3, 3 marzo 2009, n. 9497, M., in Ced
Cass. 243119; Sez. 3, 7 febbraio 2002, n. 4535, S., in
Ced Cass. 220845).
In
sostanza, dunque, tutti i soggetti che di fatto
esercitano funzioni di amministrazione e di gestione
dell'insediamento dal quale originano i reflui sono
responsabili, senza che tale responsabilità assuma
carattere oggettivo ed automatico, ma a titolo di colpa,
intesa in senso ampio, ovvero conseguente non soltanto a
comportamenti commissivi, ma anche per inosservanza del
dovere di adottare tutte le misure tecniche ed
organizzative di prevenzione del danno da inquinamento
(così, in precedenza: Sez. 3, 1 giugno 2005, n. 20512,
B., in Ced Cass. 231654).
Infine,
quanto alla configurabilità del concorso tra reato
paesaggistico e violazione in materia di inquinamento
idrico, i giudici di Piazza Cavour liquidano agevolmente
la pratica, evidenziando come il reato previsto
dall’art. 181 del decreto Urbani (D.Lgs. n. 42 del 2004)
punisce qualsiasi alterazione dell’assetto territoriale
senza autorizzazione attuata con “interventi di
qualsiasi genere”, rientrando in tale nozione anche il
caso dell’effettiva compromissione dei valori
paesaggistici indotta dall’insudiciamento evidente delle
acque di un torrente e dell’invaso di un diga, come nel
caso di specie (in precedenza, nel senso del concorso
tra tali violazioni, si era espressa Sez. 3, n. 23779
del 13/06/2001, C. ed altro, in Ced Cass. 219931,
ritenendolo ammissibile in quanto il bene giuridico
protetto dalla disciplina in tema di inquinamento idrico
riguarda la risorsa naturale presa in considerazione
nella sua composizione fisica, mentre le altre
disposizioni apprestano tutela al paesaggio, ovvero
all'insieme di valori estetici e naturali considerati
come un insieme in una determinata area).
(Cassazione penale Sentenza, Sez. III, 25/02/2011, n.
7214)
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