“Per prima cosa dobbiamo metterci
nei panni dello scettico e poi chiederci : Chi trae
beneficio.....?” ( M. Hanlon, Eternità, Le Scienze, 54,
febbraio 2011)
Jeffrey Pfeffer della
Stanford University in un recente articolo, tradotto e
riportato nella rivista della SDA Bocconi, recupera il
concetto di sostenibilità umana da affiancare a quello
ambientale. Osserva che l’attenzione della recente
ricerca focalizzata sui collegamenti tra sostenibilità e
profittabilità dimentica totalmente l’elemento umano,
concentrata sulla sola sostenibilità ambientale sorretta
dall’ideologia dominante del primato dei mercati e dalla
loro equità e giustizia, si che risulta più facile e
popolare preoccuparsi dell’ambiente che di fatto è
nell’immediato passivo e comunque facilmente esternabile
piuttosto che nel sociale attivo e come tutte le cose
umane difficilmente gestibile.
D’altronde, come ricorda
Perrone nel suo editoriale di commento, l’idea che il
destino lavorativo sia il solo frutto di scelte
individuali espresse liberamente in un ambiente di
mercato libero è anch’esso “il frutto di una visione
ideologica del mondo e può essere molto distante dalla
realtà”, tanto più che “la produttività e il profitto
non sono gli unici parametri sui quali è possibile
misurare lo sviluppo di una civiltà”.
Marmot ha rilevato gli
effetti sulla salute a seguito dello stress lavorativo,
tanto che il sistema sanitario americano appare meno
efficace in termini curativi rispetto ai sistemi europei
nei grandi numeri, ne deriva l’importanza delle teorie
sia nell’influenzare il quadro istituzionale che
nell’indirizzare la ricerca e giudicarne i risultati
(Ferraro, Pfeffer, Sutton).
Se partiamo dalla
necessità che l’aspetto ideologico sia parte della
ricerca, è necessario confrontarsi anche sulla
convinzione che i mercati di per sé stessi siano in
grado di ottenere l’uso ottimale delle risorse in
qualsiasi campo dell’agire umano, o in realtà il mito
nasconde e giustifica altri interessi?
In realtà l’aspetto
ideologico interviene anche, se meno studiato, sugli
aspetti del management e sull’enfasi messa sulle
performance, sull’ efficienza e la razionalità (
Tetlock), ne deriva che anche in presenza di un primato
del mercato le scelte individuali sono sempre
socialmente influenzate e quindi in parte obbligate, ma
la valutazione della sostenibilità umana è comunque
elemento che ricade positivamente in una ottica
gestionale a lungo termine.
Lo stesso concetto di
efficienza può nascondere una contraddizione tra breve e
lungo termine, se si valuta ad esempio l’interesse sulle
politiche del personale tra il reclutamento di personale
giovane ed il mantenimento di personale over 55, in una
contraddizione ulteriore tra pubblico e privato (
Raffaglio), ma la stessa efficienza viene a variare a
seconda se la si consideri in termini statici o dinamici
in quanto quello che è efficiente in senso statico può
diventare inefficiente in senso dinamico, se a questo
aggiungiamo che la definizione di “efficienza dinamica”
non è univoca, vediamo bene la complessità del concetto
di efficienza e la sua difficoltà nel rapportarlo in
ambiti specifici quali ad esempio le burocrazie, i beni
pubblici, la possibilità di esternalità nel sociale,
l’ambiente e l’intertemporalità tra presente e futuro (
Cellini).
Dobbiamo, infatti,
considerare che l’efficienza individuale nel breve può
essere inefficiente collettivamente nel lungo periodo,
come nel rapporto per i limiti posti relativamente ai
principali processi ambientali ( Foley) nei quali
risultano attualmente superati tre su nove parametri
(ozono, biodiversità e clima).
Il mito dell’efficienza
può quindi sublimare e fare accettare ideologicamente
dosi rilevanti di violenze, come tutte le costruzioni
umane quali sintesi economiche e sociali deve essere
sottoposta alla valutazione delle sue ricadute;
l’efficienza esprime potere e come tale ha un aspetto
affermativo nella sua capacità di produrre verità,
sapere, scienza, la “teoria” diventa quindi espressione
di una ideologia e pertanto un’arma politica nella
quale, come dichiara Foucault, vi è un’inversione del
modello di Clausewitz per cui la politica con quello che
contiene non è altro che un modo per proseguire la
guerra.
E’ stato giustamente
osservato che si giudica sempre da un proprio punto di
vista più o meno limitato, ancor prima di avere capito a
fondo la questione, non potendo cancellare i nostri
precondizionamenti dobbiamo procedere ad una loro
incessante rielaborazione (Gadamer), già Wittgenstein
osserva che dubitare presuppone una certezza, frutto di
una credenza, pertanto nessuna interpretazione può
essere esaustiva in quanto nessuna esperienza è totale
(Derrida).
Se la principale
caratteristica dell’uomo di massa, che in realtà crede
in una sua esclusiva assoluta unicità, è l’isolamento di
fatto nell’incapacità di relazionare e quindi progettare
socialmente ( Arendt), vi è una sorte di crescente
deregulation etica ( Habermas) con una conflittualità
normativa la quale si esprime anche nella valutazione
delle varie efficienze nel loro rapporto con il concetto
di giustizia.
Nella lotta per il
riconoscimento che ogni efficienza ideologicamente
impegna quale espressione di differenti culture, vi è
una mistura variamente dosata di violenza e di consenso
o meglio di violenza che si razionalizza nel consenso il
quale non fa che riflettere compromessi derivanti da
variabili rapporti di forza ( Habermas), le certezze
precedenti vengono sostituite dall’efficienza la quale,
arbitra di se stessa, diventa nuova forma dell’antica
violenza stessa.
L’efficienza non è che il
massimo risultato produttivo con il minimo dispendio di
risorse, questo indifferentemente dall’obiettivo che si
è posti, il problema diventa pertanto l’obiettivo e
l’etica conseguente della coerenza e responsabilità
sociale che lo presiede nel suo rapportarsi con
l’interesse individuale. Nozick osserva la tendenza
dell’uomo moderno a non vincolarsi mai a decisioni
definitive, sì da mantenere riserve per possibili nuove
scelte; questo continuo adeguarsi morale alla
complessità attuale fa sì che anche l’utile vari e con
esso il modello di efficienza necessario, tanto che nel
venire meno della coerenza cessa la responsabilità, i
limiti superati nel culto dell’efficienza personale si
trasforma nell’accettazione della violenza
nell’efficienza.
Se la prima manifestazione
della giustizia è nella distribuzione delle libertà,
fondamento di ogni altro bene come sottolineato da
Rawls, la libertà nell’efficienza quale mito può portare
alla responsabilità di decisioni apparentemente libere
in realtà predisposte, quindi surrettiziamente violente
in un contrapporsi di modelli efficienti, come
dimostrato da Pfeffer.
D’altronde l’efficienza
nel breve termine è parte della velocità moderna e
favorisce nella sua brevità il superamento della
valutazione dell’utile morale, come del concetto
qualitativo della produzione, nella difficile scelta del
rapporto, di per sé stesso contenente elementi
ideologici, tra quantità e qualità.
“In una società sempre più
complessa e intellettualizzata,…, la stratificazione
intellettuale è destinata ad aumentare, ed è previsto
che la società innalzerà una barriera che escluderà
almeno il 5 per cento di ogni popolazione. Il sociologo
Dennis Gilbert ha stimato che negli Stati Uniti il 12
per cento delle persone appartiene al sottoproletariato”
( M. Hanlon, Eternità, Le Scienze, 127, febbraio 2011).
Bibliografia
· J. Foley, Limiti per un
pianeta sano, Le Scienze, 46, 500, aprile 2010;
· R. Cellini, politica
economica, Mc Graw Hill, 2004,
· J. Pfeffer, Costruire
organizzazioni sostenibili: fattore umano, E & M, SDA
Bocconi, 9, Etas, gennaio 2011;
· V. Perrone, Perché l’orso
polare ci commuove più di un cassintegrato?
Sostenibilità ambientale e umano, E & E , SDA Bocconi,
3, Etas, gennaio 2011;
· M. Raffaglio, Mature
people: una risorsa da valorizzare, E & M, SDA Bocconi,
49 Etas, gennaio 2011;
· M. Foucault, La volontà
del sapere, Feltrinelli 1985;
· M. Foucault, Microfisica
del potere, Einaudi 1977;
· H. G. Gadamer, Verità e
metodo, Bompiani 1983;
· L. Wittgenstein, Della
certezza, Einaudi 1978;
· J. Derrida, La scrittura e
la differenza,Einaudi 1971;
· H. Arendt, Le origini del
totalitarismo, Comunità 1967;
· J. Habermas, Teoria
dell’agire comunicativo, Il Mulino 1986;
· R. Nozick, Spiegazioni
filosofiche, Il Saggiatore 1987;
· J. Rawls, Una teoria della
giustizia, Feltrinelli 1982.
|