La facoltà di prescrivere farmaci al di là delle indicazioni autorizzate, cd. somministrazione in off label, data la concomitanza di una serie di condizioni opportunamente individuate dal Legislatore, si iscrive nell'area della discrezionalità terapeutica riconosciuta al professionista sanitario.

La valutazione della responsabilità penale del medico nei casi di prescrizione del farmaco in off label coinvolge annose questioni di matrice giuridica, scientifica ed etica, sollevando diversi problemi interpretativi.

La presente analisi, al fine di inquadrare i nodi tematici della responsabilità del medico, nel caso in cui la terapia non autorizzata danneggi il paziente, propone un approccio casistico, volto ad approfondire le principali sentenze in materia.

ARTICOLO

Si definisce off label l'impiego nella pratica clinica di farmaci già registrati, ma usati in modo non conforme a quanto previsto dal riassunto delle caratteristiche del prodotto (comunemente noto come "bugiardino" o "scheda tecnica").

Di norma, il medico prescrive i farmaci attenendosi a quanto disposto dal Ministero della Salute circa l'indicazione, la posologia e la modalità di impiego del medicinale, adattandosi alle previsioni terapeutiche approvate all'atto della registrazione ed autorizzazione all'immissione in commercio[1].

La prescrizione off label è da collocare esattamente a metà strada tra il corretto utilizzo del medicinale e l'errore terapeutico, essendo il frutto di una ponderata e consapevole decisione del professionista sanitario di non conformarsi a quanto stabilito.

La legge n. 94/98, art. 3, secondo comma, c.d. Legge Di Bella, stabilisce le condizioni in presenza delle quali il sanitario è autorizzato ad intraprendere una terapia sperimentale: è necessario che il paziente, debitamente informato, abbia acconsentito alla somministrazione del farmaco in off label; è richiesto che la terapia atipica sia avallata da studi e/o pubblicazioni scientifiche, che il paziente sia affetto da una "vera malattia" e non possa  esser curato attraverso il ricorso a metodi tradizionali.

La prescrizione dei farmaci in off label è dunque consentita e disciplinata da un punto di vista normativo e rappresenta un'importante opportunità sia per il medico, al quale è data la chance di attuare la cura più indicata per il caso concreto, sia per il mondo scientifico, in considerazione dei possibili progressi nella conoscenza e nella terapia di diverse patologie.

Invero, il procedimento regolatorio per l'estensione delle indicazioni di un farmaco ed il percorso per l'acquisizione di tali informazioni non sono necessariamente paralleli, essendo il primo di pertinenza dell'impresa farmaceutica e delle autorità ministeriali, il secondo della comunità scientifica in genere. In questa prospettiva, l'art. 3, secondo comma, legge n. 94/98, sembra ammettere che il giudizio finale della P.A. possa esser "surrogato/anticipato", a condizione che la comunità scientifica internazionale approvi la terapia sperimentale.

Il ricorso alla terapia sperimentale espone il medico al rischio di incorrere in responsabilità,  in quanto egli potrebbe esser chiamato a rispondere non solo nell'eventualità in cui il paziente dovesse manifestare una reazione avversa alla somministrazione del farmaco in off label, ma anche nell'ipotesi in cui la terapia non dovesse determinare alcun miglioramento.

Nei casi di prescrizione dei farmaci in off label, la Giurisprudenza ha dato prova di far riferimento a criteri di volta diversi al fine di accertare la sussistenza di una penale responsabilità del medico.

Tra le vicende che hanno fatto scuola in materia, vi è il c.d. caso delle Modelle[2]: a due indossatrici era stato praticato, in un centro estetico, un trattamento anticellulite consistente nella iniezione di alcuni farmaci in off label, per l'aggressione dei lipidi, ed in un massaggio meccanico, volto a favorire l'assorbimento del prodotto.

Le donne non erano state sottoposte ad alcuna indagine clinica circa eventuali allergie o intolleranze e non si registravano esplicite dichiarazioni di consenso informato.

Dopo alcuni giorni dall'inizio del trattamento, le pazienti manifestavano un preoccupante quadro clinico: le cosce erano gonfie, dolenti, livide e calde al tatto.  Le stesse si rivolgevano così al medico curante, il quale le rassicurava sostenendo che la sintomatologia manifestata fosse solo la fisiologica conseguenza del trattamento: suggeriva di sottoporsi ad ulteriori massaggi e di esporsi a lampada abbronzante, al fine di mascherare gli antiestetici aloni neri comparsi sulle cosce.

Di fronte agli ennesimi peggioramenti le indossatrici si erano rivolte ad un secondo medico il quale, diagnosticata  la presenza di molteplici ascessi, affidava le donne ad un chirurgo il quale li rimuoveva, infliggendo alle pazienti diverse ferite, che ne compromettevano irreversibilmente la carriera.

Nei confronti del medico del centro estetico si è proceduto per lesioni personali colpose, ai sensi dell'art. 590 c.p. ed il sanitario è stato condannato in primo grado, con sentenza confermata in Appello e reiezione del ricorso presentato in Cassazione.

La vicenda è nota per l'attenzione che nei diversi gradi di giudizio è stata riservata all'accertamento del nesso di causalità, con particolare riguardo alla valutazione delle "ipotesi causali alternative", ritenute inesistenti, nonché per l'adozione, al fine di accertare la responsabilità penale del sanitario, del parametro dell'agente modello, ossia dell'uomo coscienzioso e avveduto nella situazione data e nel concreto ruolo sociale dell'agente, che ha determinato nei giudici la convinzione che l'evento infausto fosse prevedibile.

Altro celebre procedimento è il c.d. caso Insulina[3], nel quale, al fine di individuare il parametro per valutare la responsabilità del medico, si è invece richiamato l'art. 12 del CDM del 1998 (l'art. 13 del CDM del 2006), optando per  un parametro deontologico.

Tale previsione sostanzialmente vieta l'adozione e la diffusione di terapie e di presidi diagnostici non provati scientificamente o non supportati da adeguata sperimentazione e documentazione clinico-scientifica ed attesta che la prescrizione di farmaci, per indicazioni non previste dalla scheda tecnica o non ancora autorizzate al commercio, è consentita solo se la loro efficacia e tollerabilità sia scientificamente documentata.

In tali casi, è necessario acquisire il consenso scritto del paziente debitamente informato, ed il medico, responsabile della cura, è tenuto a monitorarne gli effetti.

Il caso Insulina prende il nome dal farmaco che un professionista prescriveva ad una donna non diabetica, a causa dei pregressi aborti spontanei della stessa, asserendo un presunto effetto antiabortivo di tale somministrazione. In particolare, secondo l'ipotesi del sanitario, la gestazione sarebbe stata favorita dalla riduzione di glicemia nel sangue della paziente.

Tuttavia la somministrazione dell'Insulina causava diverse crisi ipoglicemiche, con gravi ripercussioni sul quadro clinico della donna.

Il medico veniva condannato per il reato di lesioni volontarie.

Il caso Insulina segna un essenziale snodo nella qualificazione giuridica della responsabilità del medico, rivelando una particolare attenzione alla tutela dei beni primari che vengono in considerazione nell'esercizio dell'attività medico-chirurgica. Nella specie, il timore era che dietro la prescrizione di un determinato farmaco in off label, si celasse il tentativo di sperimentare l'efficacia di un principio attivo, trasgredendo le norme ed i principi che regolamentano l'immissione in commercio dei farmaci ed esponendo il paziente a notevoli rischi per la sua salute.

Invero, se la terapia intrapresa dal medico appare intrinsecamente idonea a rivestire i caratteri della sperimentazione, l'imputazione non può che essere dolosa.

Nella sentenza in esame, la circostanza che il medico fosse animato da un intento terapeutico non è stata ritenuta idonea ad escludere l'addebito del fatto ai sensi dell'art. 582 c.p., anzi, la condotta del sanitario è stata qualificata espressamente quale "atto solo formalmente terapeutico, ma sostanzialmente illecito", in quanto compiuto in assenza di qualsiasi scriminante (in particolare, non si registravano né la necessità, né l'urgenza di intervenire), ed in mancanza dei requisiti imposti dalla legge n. 94/98. Allo stesso tempo, essendo evidente che il medico non era animato dalla volontarietà di nuocere alla paziente, se ne escludeva la responsabilità a titolo di dolo diretto.

Nel caso di specie si è ritenuto di poter configurare il dolo eventuale, in quanto il medico si era rappresentato gli elementi del reato, consapevolmente aveva  accettato il rischio che la somministrazione del farmaco in off label (in assenza dei presupposti specificati dal CDM), avrebbe potuto danneggiare il paziente affidato alle sue cure e, ciò nonostante, aveva agito.

L'analisi delle principali pronunce in tema di responsabilità penale per prescrizione di farmaci in off label si conclude con il noto caso Topamax[4], valido spunto per esplorare ulteriormente il terreno del titolo soggettivo di responsabilità.

La vicenda ha per protagonista un medico psichiatra il quale,  avendo in cura  una bambina affetta da obesità, senza tentare altre strategie terapeutiche, decideva di somministrarle un alto dosaggio di topiramato, farmaco autorizzato al commercio per il trattamento dell'epilessia.

Si è trattato chiaramente di una  terapia off label, in quanto veniva impiegato un farmaco approvato per il trattamento di una patologia neurologica allo scopo, dichiarato dall'imputata, di sfruttarne un peculiare effetto collaterale, quello anoressizzante. Tuttavia, in seguito all'assunzione del farmaco, la paziente aveva cominciato a manifestare una preoccupante sintomatologia.

Il caso offre lo spunto per analizzare la complessa tematica dell'individuazione del titolo soggettivo di responsabilità, in quanto al medico imputato viene prima addebitato il reato di lesioni volontarie aggravate, poi reinquadrate come colpose in Appello ed in Cassazione[5].

Nel caso Topamax il giudice ha condannato l'imputata per aver violato il disposto dell'art. 3, secondo comma, della legge n. 94/98, prediligendo quindi un parametro normativo.

In realtà, tra il disposto dell'art. 12 del CDM del 1998 (o art.13 del CDM del 2006), e l'art. 3, secondo comma, legge n. 94/98, non vi sono significative discrasie, a differenza di quanto si registra confrontando la disposizione legislativa ed il parametro dell'agente modello. Invero, la previsione normativa vanta un margine di determinatezza che il parametro dell'agente modello non ha, né può avere, per sua stessa natura. Il che ne rappresenta il principale limite, ma anche il principale pregio in quanto, nella complessità del caso concreto, il medico potrebbe aver scelto di prescrivere il farmaco in off label, in assenza dei presupposti richiesti dalla norma, ma confortato dal cd. razionale medico, un ragionamento scientifico in base al quale la somministrazione off label, avendo già funzionato in casi analoghi, dovrebbe essere vantaggiosa per il paziente .

Quanto all'identificazione dei limiti da apporre alla libertà diagnostico-terapeutica del medico nel caso in cui prescriva dei farmaci off label, tra le diverse soluzioni proposte, sembra comunque preferibile  quella di matrice legislativa.

Per sostenere l'inapplicabilità della legge Di Bella si potrebbe asserire che si tratta di un "fossile normativo", oppure che la vicenda storica all'origine della sua promulgazione, ne segna irreparabilmente il carattere di "legge eccezionale", pertanto l'intero testo non sarebbe applicabile.

Sembra allora auspicabile un intervento da parte del Legislatore volto innanzitutto a sfrondare la legge dalle disposizioni non più suscettibili di applicazione in quanto destinate esclusivamente alla sperimentazione del 1998.

Attraverso tale intervento legislativo, si potrebbero precisare le caratteristiche dei presupposti di cui all'art. 3, secondo comma, ai quali andrebbe aggiunta "la malattia", così da scongiurare il ricorso improprio alla prescrizione dei farmaci in off label.

In relazione al consenso, ad esempio, potrebbe essere utile introdurre la forma scritta a fini probatori, come già previsto dall'art. 13 del CDM del 2006. O ancora, in relazione alla necessità che la terapia off label sia avallata dalla comunità scientifica, si potrebbe ipotizzare un'elencazione delle riviste ufficialmente "accreditate", da aggiornare sistematicamente.

Tuttavia, sarebbero meri accorgimenti, per lo più volti a semplificare l'accertamento dei fatti in sede giudiziaria, ai quali è auspicabile che si affianchi una rivoluzione di tipo culturale.

Dando concreta attuazione all' "Alleanza terapeutica", il medico dovrebbe coinvolgere opportunamente il paziente nelle scelte che concernono la sua salute, valutando insieme i percorsi terapeutici da intraprendere e prospettando chiaramente le possibili conseguenze di ciascuna terapia.

[1] Secondo quanto dispone l'art. 97 del decreto n. 219/06, la competenza ad autorizzare l'immissione in commercio dei farmaci (cd. AIC) è attribuita all'Agenzia Italiana del Farmaco (cd. AIFA), autorità nazionale responsabile per l'attività regolatoria dei medicinali. Mediante un pool di esperti interni ed esterni dell'Istituto Superiore di Sanità, ISS, e della Commissione Tecnico Scientifica, CTS, l'Agenzia effettua valutazioni chimico-farmaceutiche, biologiche, farmaco-tossicologiche e cliniche al fine di assicurare i requisiti di sicurezza ed efficacia relativi a ciascun farmaco destinato all'ingresso nel mercato italiano.

[2] Cass. sez. IV, ud. 19 giugno 2006, dep. 12 settembre 2006, n. 30057.

[3] Tribunale di Milano, Sez. X, 21 Luglio 2000, n. 251.

[4]Tribunale di Pistoia, Sez. Pen., 20 Gennaio 2006, sent. n. 440..

[5] Cass. Pen, 24 Giugno 2008, n. 37077, in Guida al diritto 2008.

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